Mondi dietro una sillaba

VA'

Dal cortile alla grammatica, dal dialetto alla fame contadina. Tutto quello che non ti aspetti dietro un semplice “va'”

Come parliamo: regole e dialetti nascosti

– Va’ che bel tramonto! 
– Ma va’!
– Va’ a dormire!
– Va’ a “ciapà” di ratt!

Non è l’estratto di una sceneggiatura di teatro popolare, né una gag da cabaret. È una serata qualunque, un dialogo sentito nel tempo tra casa, cortile e bar, in cui la nostra lingua – o meglio, il nostro parlare – si svela in tutta la sua sottigliezza travestita da spontaneità. Chi di noi non ha mai detto: “Ma va’!”, oppure “Va’ che bello!”? Sono espressioni comuni, immediate, familiari. Ma dietro queste parole quotidiane si nascondono vere e proprie regole, a metà strada tra grammatica, retorica e sentimenti.

Ne parliamo nel seguito, accogliendo quel “va!”, quell’invito a cominciare il percorso: vedremo dove finirà.

"Ma va’!"

Non è solo un imperativo (tipo “va’ a dormire!”), ma è diventato un modo di dire compiuto, con mille sfumature:

  • Negazione ironica: “Hai vinto?” — “Ma va’, ho perso ancora!” (= Macché!)
  • Sorpresa ironica: “Hai visto che si sono rimessi insieme?” – “Ma va’!” (= Non ci posso credere!)
  • Sorpresa disillusa e sottovalutazione: “Ti ha chiamato Mario?” — “Ma va’!” (= Figurati!)
  • Rifiuto affettuoso: “Quanto ti devo?” — “Ma va’” (= Scherzi? Non ci pensare nemmeno!)

Grammaticalmente, si tratta dell’imperativo “va’” (con apostrofo, elisione di “vai”), ma l’uso, preceduto dalla forza avversativa del “ma”, l’ha trasformato in un’esclamazione autonoma. Una frase fatta che nega, sdrammatizza, crea distanza o complicità. Un’esclamazione che può dire tutto o niente, con una gamma espressiva che va dalla negazione all’incredulità, dall’ironia affettuosa allo sberleffo sarcastico.

Lì per lì sembra un’esortazione incompleta: “ma va’… dove?”. E invece no: è completa così, come tante frasi “ellittiche” che il parlato ha reso intelligibili per consuetudine. Del resto, chi non ha mai risposto con un secco “ma va’!” a una sciocchezza? Come parte del discorso si tratta di una interiezione idiomatica, nata come abbreviazione di una frase più lunga come “Ma va’ a quel paese!”, rimasta implicita e ormai grammaticalizzata come espressione autonoma.

Precisazione: trattasi della forma abbreviata dell’imperativo presente del verbo andare, usata sia nella seconda persona singolare, che plurale: non importa quanti siano i vostri interlocutori, l’interiezione è autosufficiente.

Il vero imperativo

“Va’ a dormire”, “va’ a casa”, “va’ via”. Qui siamo nell’imperativo pieno, ma pur sempre nella forma tronca con apostrofo. Perché sì, non dimentichiamolo: “va’” si scrive con l’apostrofo.

È l’elisione della “i” di “vai”, come “fa’” per “fai”, “sta’” per “stai”. Quindi no, non scriviamo “va” senza apostrofo, se vogliamo intendere un ordine. Quella sarebbe solo una terza persona presente: “Lui va a casa.”

“Vai” è tecnicamente la forma canonica dell’imperativo seconda persona singolare di andare, ma nell’uso comune (soprattutto nel parlato), si preferisce “va’”, più diretto e sonoro, mentre nei testi e negli ambienti formali permane la parola completa: “Vai subito al tuo posto!”

Precisazione: trattasi ancora della forma abbreviata dell’imperativo presente del verbo andare, usata solo ed esclusivamente nella seconda persona singolare: se i vostri interlocutori sono più di uno dovrete ricorrere al plurale “Andate!” o “Che vadano!”.

"Va’ che bello!"

Qui le cose si fanno ancora più interessanti. Perché non significa “Vai”, ma piuttosto: “Guarda”!

Ciò perché, in realtà, si tratta di una italianizzazione di una delle due forme del milanese (e di altri dialetti lombardo-occidentali) “Vardà” (“guardare”): “Varda che bell!” (cioè: “guarda che bello”), modo imperativo dell’infinito. Si tratta sempre di una frase imperativa: ma, attenti, non è l’ordine di andare, è un invito a guardare!

Lo stesso vale per:

  • “Va’ che roba!”
  • “Va’ che gente!”
  • “Va’ che gambe, oh!”

Insomma, l’imperativo “Va’” sostituisce “Guarda” sotto l’influsso del dialetto lombardo. Un vero fossile linguistico del volgare latino parlato a Mediolanum, sopravvissuto in mezzo all’italiano corrente. Non so se, in un tema scolastico, l’insegnante possa accettare “va’ che bello!”, in quanto, nell’italiano standard, la frase non ha senso letterale, ma è solo un’espressione consolidata di italianismo dialettale, con tono affettivo o familiare.

Precisazione: trattasi della forma abbreviata dell’imperativo presente del verbo guardare, ma in dialetto milanese e altri dialetti lombardi occidentali (pavese oltre padano compreso), usata solo ed esclusivamente nella seconda persona singolare: se i vostri interlocutori sono più di uno dovrete ricorrere al plurale “Vardee!” o “Che vàrden!”.

L’imperativo e l’errore dei topi

Tornando all’uso imperativo di “Va’”, colgo l’occasione per una annotazione che mi è stata spesso sollecitata dal frequente incontro con la celebre ed immortale frase dialettale milanese (anche questa estesa ad altri dialetti vicini) “Va’ a “ciapà” di ratt!”, spesso preceduta dall’avversativo “Ma”. Si tratta di una espressione dialettale vivissima, del cui uso posso fornire testimonianza diretta, nei più diversi ambiti e sempre con intento bonario e paternalistico: un invito garbato ad andare a rendersi utili altrove, diciamo così. L’invito era spesso rivolto a chi la raccontava troppo grossa o ipotizzava strategie impossibili; esprimeva un disprezzo bonario e generico, come dire “va’ a fare qualcosa di inutile, insignificante o degradante”. La frase è ancor oggi riesumata nei post nostalgici sui social e di essa, come di altre frasi idiomatiche, si sente la mancanza di corrispondenza nella lingua italiana.

Ma, occhio, spesso viene riportata male, ossia capita di leggere: “Va’ a “ciapà” i ratt”. Errato: dire “i ratt” implica che siano topi ben precisi, noti all’interlocutore, come se si dicesse: “Va’ a prendere proprio quei topi lì, (tutti) quelli che teniamo in cantina.”

In milanese, infatti, quel “di” non è la preposizione “di” italiana, ma il partitivo plurale: “di ratt” = “dei topi”, come si direbbe “di liber” = dei libri (una quantità generica), e svolge nella frase la funzione di equivalente dialettale di “dei” in italiano: – insomma – un articolo indeterminativo plurale che conserva la sua radice logica partitiva. 

Una finezza? Forse. Ma è nelle finezze che la lingua rivela la sua logica nascosta. E se dobbiamo mantenere il ricordo del dialetto, facciamolo bene, con rispetto e dopo averlo studiato meglio. In italiano, comunque, il concetto è lo stesso: la funzione di articolo indeterminativo plurale è svolta dall’aggettivo partitivo, per cui diciamo:

  • “Mario ha degli amici inglesi” (generici, indefiniti)
  • “Sono arrivati gli amici inglesi di Mario” (noti, specifici).

Ma, tornando all’origine della frase “Va’ a “ciapà” di ratt!” ed ignorando certe voci che raccontavano di esigenze estreme di fame, si può pensare che, come tanti altri modi di dire e proverbi, anch’essa sia nata da un’occasione particolare, da un fatto realmente (o quasi) accaduto. Se ciò fosse, potrei proporre un’ipotesi che risale ai tempi della mia quarta o quinta elementare, quando capitò di leggere ad alta voce, in classe e un paragrafo a turno, un brano dal “libro di lettura”, una storiella, una leggenda o una favola intitolata “La guerra dei topi”.

Narrava di una città, dove la gente lavorava con onestà e profitto. Poteva essere anche Milano. Un giorno, però, la città fu invasa dai topi, migliaia e migliaia. Nessuno capì da dove venissero. Erano nelle strade, nei cortili, nelle dispense, nei solai. Il sindaco convocò d’urgenza il Consiglio e fu presa la decisione solenne di “Dichiarare guerra ai topi.”

Tutti gli abili e meno abili furono chiamati alle armi. Anche i vecchi con le trappole, bambini con i secchi, donne coi bastoni: tutti pronti all’alba del giorno stabilito. Anche un fannullone incallito, Battista Rattazzi, disperazione della moglie, uno che non si era mai mosso da casa, sempre davanti ad un bicchiere di vino e a un mazzo di carte, quel giorno dovette “alzare le chiappe”. La moglie, infatti, quella volta fu irremovibile: lo guardò in faccia, indicò fermissimamente la direzione dell’uscio e gli intimò l’arruolamento immediato: “Va’ a ciapà di ratt! Anca ti.”

Lui si alzò. Uscì. E andò. La guerra durò una giornata intera. Si combatterono ovunque, nei fienili, nei pozzi, persino nelle cantine. Alla sera, ci fu silenzio. La città attese il bollettino di guerra con il fiato sospeso. I reduci si radunarono davanti al sindaco, che fece il punto della situazione e proclamò l’esito ufficiale del conflitto e la fine delle ostilità. Anche la moglie del Battista, come tutte, aspettava con ansia il ritorno del marito: “Com’è andata?” Lui, stanco, sporco e stracciato gli riferì il risultato: “Pari: uno di noi e uno di loro!” (Versione italiana del dialogo.)

Non vado oltre nel commentare il (chiaro) significato della storiella, perfettamente in linea con il significato della nostra frase idiomatica dialettale, né ricordo il mio “pensierino” a commento: ma mi piace pensare che il modo di dire sia nato in quell’occasione, a prescindere dall’esito della guerra.

Dai topi... alle chiappe

Il nostro “va’…”, in realtà, ha fatto molta più strada di quanto chiunque si possa aspettare: c’è infatti l’altra grande variante del “va’” insultante, quella che si trova a metà strada tra la comicità popolare e la licenza poetica dialettale. Si tratta di “Va’ a dà via i “ciapp!”, una locuzione che oggi qualcuno trova colorita, altri scurrile, ma che nel tempo ha saputo assumere anche una certa carica affettuosamente offensiva, quasi teatrale, se ben dosata.

Ma è la stessa cosa di “Va’ a “ciapà” di ratt”? Non proprio. Il senso è vicino – allontanamento, sberleffo, ridimensionamento – ma i due modi di dire hanno sfumature culturali diverse. Entrambe le frasi servono a detronizzare chi parla, ma la seconda lo fa con una punta in più di ironia “da adulti”. In particolare:

  • “Va’ a “ciapà” di ratt” – Popolare, ma detto anche ai bambini, ammesso in ambiente famigliare (spesso in tono scherzoso). Conta sul ridicolo – “vai a cercare topi” è assurdo e comico – “sparisci, vai a fare una cosa inutile o ridicola”
  • “Va’ a dà via i “ciapp” – Forma dialettale di “vai a dare via le chiappe” (natiche, plurale neutro dialettale). Più pesante, allusivo, scambiato solo tra adulti o in contesto informale o confidenziale; il corpo entra in gioco (le “chiappe”), ed è per questo che richiede più cautela. “sparisci, ma stavolta con quel tocco di volgarità che ti butta fuori dalla porta con più forza e sarcasmo. Più rude, ma spesso smorzato dall’ironia, usato tra adulti. In sostanza serve a spingere via, a dire “vattene”, “sparisci”, molto più gentile del banale e volgare “vaffa…” d’importazione meridionale.

La struttura è sempre imperativo + infinito + complemento oggetto: una formula che simula un invito a prostituirsi… ma spesso detta in modo più teatrale che offensivo, come a dire: “smettila di dire scemenze e sparisci inelegantemente”. Il “va’” usato in “va’ a “ciapà” di ratt” e quello in “va’ a dà via i “ciapp” sono identici nella funzione, ossia l’imperativo del verbo “andare”, usato per “mandare a quel paese” in modo colorito e non differiscono nel verbo stesso, ma solo nel complemento e nel grado di volgarità/sfumatura.

E io?

Ricordo perfettamente che la frase coi topi circolava liberamente, me la sentivo dire dai genitori, dagli zii, dalla nonna, dai grandi che erano in confidenza con me. Era quasi un vaccino linguistico, entrato nel mio lessico d’infanzia con la naturalezza delle cose serie travestite da gioco.

“Va’ a “ciapà” di ratt” non faceva male, anzi: mi sembrava un modo affettuoso e ironico, per farmi capire che, senza offesa, l’avevo detta (o fatta) un po’ grossa, oppure che mostravo eccessiva paura per qualcosa. Si applicava insomma ad una miriade di situazioni nelle quali meritavo di essere ripreso, con leggerezza ed ironia, per qualcosa che avevo fatto o non saputo fare e nelle quali dovevo allontanarmi, mentalmente o fisicamente, o dal luogo del misfatto, spesso per consentire all’adulto di ripristinare le condizioni precedenti (una macchia, un cibo rovesciato, una degenerazione del nodo alla stringa delle scarpe): in tali casi, la frase “Ma va’ a “ciapà” di ratt!” seguiva la classica: “Ma cos’hai combinato?”

“Va’ a dà via i “ciapp”, invece, no. Quella era riservata agli adulti, si diceva senza gridare, sempre col sorriso, pur accompagnata da quell’ampio movimento, largo e in avanti, del braccio destro. Nella mia traduzione concettuale la frase stava a significare un invito ad esporre le natiche per una meritata sculacciata; la qual cosa, applicata agli adulti, mi faceva abbastanza sorridere.

Incominciavo così a capire certe sfumature della lingua e del dialetto e che non è questo a essere volgare. È l’uso che ne facciamo, l’intonazione, il contesto. Ci sono frasi che non avrei mai detto in italiano, perché a rischio di volgarità, mentre, intercalate in dialetto, esse si sdoganavano con realismo e leggerezza. Come sempre, la lingua parla anche di chi la parla.

Chiappe acchiappate

Non ci avventuriamo certo nella controversa etimologia di “ratto”, ma non resistiamo – la classica deriva laterale del discorso principale – ad approfondire un po’ la conoscenza delle “chiappe”.

Per quanto riguarda l’etimologia, ho trovato pareri discordanti e, per me, poco convincenti. Senza nessuna pretesa, fatta qualche riflessione e alcuni confronti, propongo la mia idea, offrendomi preventivamente, se sarà il caso, ad uno degli inviti di cui stiamo appunto parlando, da qualunque parte dovesse arrivare.

Nei dialetti dell’Italia settentrionale il nesso iniziale “CL”, molto frequente nelle lingue neolatine, diventa “CIA”, attraverso un mutamento fonologico, detto palatalizzazione, come avviene in “clavis”, “clarus”, “clamare”, che diventano rispettivamente: “ciav” (chiave), “ciar” (chiaro), “ciamà” (chiamare).

Seguendo la stessa logica, “ciapa” (plurale “ciapp”), dovremmo cercare una parola latina con il nesso consonantico iniziale “CL” che abbia un seguito corrispondente ed un significato attinente. Una soluzione, ripeto, volutamente alternativa rispetto ad altre ipotesi disponibili, potrebbe essere quella suggerita dal termine “Klappa”, radice antica preromana, forse celtica, col significato di “colpo”, “presa”, “schiocco”. Il termine, assorbito e riciclato nel latino e nei volgari, ha seguito in tal caso la stessa sorte del nesso consonantico “CL” nei nostri dialetti, pur tenendo in considerazione l’ipotesi che la trasformazione sia potuta avvenire (anche) attraverso il termine latino “cap(p)ula”, che significava “brocca”, “coppa”, “piccola ciotola”, magari osando trovarvi una parentela col suddetto preromano “klappa”

A parte questi eccessi, ma tenendo presente che dal nostro “ciapa” (chiappa, natica) deriva il verbo “ciapà” (acchiappare, prendere, cogliere al volo), peraltro sopra già ampiamente trattato (è una proprio una bella combinazione), sembra plausibile l’ipotesi di aver fatto centro. Del resto, si può verificare che in tedesco e inglese esistono:

  • “klappen” (ted.) = sbattere, chiudere a scatto.
  • “clap” (ingl.) = battere le mani, applauso → onomatopea.
  • “clamp” (ingl.) = pinza

La mia ipotesi – che chiappa derivi da un’idea primordiale di “presa”, “presa a mano”, e dunque parte anatomica afferrabile – non è poi così ardita se la confrontiamo con altri casi simili, quali esempi di verbi formati dalla preposizione latina “ad” + nome:

  • Ad + chiappa = acchiappare
  • Ad + ferro = “afferrare” (“ferro” come oggetto solido e “afferrare” nel senso di prendere con forza)
  • Ad + occhio → “adocchiare”
  • Ad + costa → “accostare” “costa” = fianco, lato → “accostare” = portarsi vicino, aderire a.

Da qui a “chiappa”, il salto semantico non è lungo: si tratta di una parte del corpo visivamente e fisicamente afferrabile, spesso enfatizzata nell’immaginario popolare.

Quindi “chiappa” come qualcosa da “afferrare”? Siamo proprio finiti in una conclusione a prima vista divertente, ma in fondo non banale. Oggi, infatti, questo tipo di concetto è filtrato da norme sociali, consapevolezza e rispetto. Ma la lingua ricorda ciò che la cultura vissuta ha sedimentato nel tempo: un corpo visto come territorio fisico, non ancora etico. Se oggi il gesto dell’“acchiappare” può evocare allarmi o disapprovazione (giustamente, se non c’è consenso), in origine il verbo non aveva connotazioni sessuali. Era un’azione fisica concreta, legata a sopravvivenza, cattura, possesso, contatto diretto.

È del tutto plausibile – e anzi culturalmente fondato –  che tra i ricordi d’infanzia possa affiorare l’immagine dei genitori che inseguono i figli birichini e, appena raggiunti, li “acchiappano per le chiappette”. Era un gesto spontaneo, familiare, privo di malizia e spesso seguito da una sculacciata teatrale più simbolica che punitiva. Un’educazione forse più fisica di quella attuale, ma non per questo deviata o ambigua.

Allo stesso modo, espressioni come “prendere per il culo” (in dialetto “ciapà per el cu”, dove la “u” milanese si legge ü – quindi si conferma anche qui l’acchiappamento) non vanno lette con le lenti moralistiche dell’oggi. Il significato è figurato: prendere in giro, burlarsi di qualcuno, farlo fesso. Né più né meno. La lingua – e ancor più il dialetto – sa essere schietta, ironica e liberatoria. È chi la parla, semmai, che può farne cattivo uso.

Anche le chiappe, insomma, possono raccontare delle storie, che spesso iniziano da bambino.

La casa delle chiappe

A questo punto, come non farmi venire in mente quel palazzo liberty tanto discusso a Milano, che i milanesi d’un tempo ribattezzarono con il geniale soprannome di “Cà di ciapp”? Non solo il ricordo (e la visione) si impongono da sé, ma è soprattutto la storia che fa il nostro gioco: onorare le chiappe, il sarcasmo popolare e la potenza simbolico-linguistica del termine “ciapp”.

Nel 1903 fu costruito in Corso Venezia Palazzo Castiglioni, progettato dall’architetto Giuseppe Sommaruga. Esso divenne subito celebre per due statue femminili allegoriche (Pace e Industria) presenti all’ingresso. Erano procaci e con i glutei bene in vista, sì da provocare scandalo tra i benpensanti milanesi e ironia, scherno e derisione tra gli altri cittadini e sui giornali, tanto che il palazzo fu soprannominato “Cà di Ciapp” (Casa delle Chiappe).

Ad un certo punto, prevalse la censura e le statue furono rimosse e nascoste nei magazzini dell’impresa Galimberti, per essere poi ricollocate a decorare un contesto meno esposto di un’altra costruzione progettata da Sommaruga: Villa Faccanoni, poi Romeo (quello dell’ALFA), poi Clinica Columbus, della quale sono parte ormai storica dell’edificio e simbolo non più in pericolo di un’arte peccatrice.

Il trasferimento delle statue nella villa e poi nella clinica racconta la redenzione dell’opera: da scandalo morale a tesoro Liberty restaurato e accolto, senza perdere il suo filo rosso fatto di doppi sensi, “ciapp” e memoria urbana. Il dialetto non vive quindi solo nei cortili, ma anche sulle facciate d’architettura: l’irriverenza milanese ha trasformato una vetrina Liberty in un monumento satirico.

Attenzione, infine alla sintassi, tanto per non farsi perdere nulla: la presenza del “di” in “Cà di Ciapp” non ha sintatticamente nulla a che fare con il “di” presente nella frase “Va’ a “ciapà” di ratt”: nel primo caso “di” svolge il compito di aggettivo partitivo (articolo indeterminativo maschile plurale, in italiano “dei”), nel secondo quello di complemento di specificazione (preposizione articolate femminile plurale, in italiano “delle”). 

Morale della favola

Partendo da una sola sillaba “va’” – un invito – abbiamo attraversato:

  • la grammatica (apostrofi inclusi),
  • la sintassi implicita,
  • il dialetto lombardo,
  • Milano d’una volta,
  • la sociologia da cortile,
  • la scultura,
  • la bellezza,
  • e anche un po’ di zoologia.

E se tutto questo ti sembra troppo per una sola parola… “Va’ a “ciapà” di ratt!”. Gentilmente, s’intende!