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Si parva licet componere magnis
Sanremo, un festival senza visione né speranza
Tutti gli anni, quando c’è il Festival di Sanremo, mi trovo a provare un certo dolore nel non poterlo guardare più, e ciò succede già da un po’ di tempo. Fin da bambino e sino agli anni Ottanta, per me, la manifestazione canora rappresentava il campionato italiano (e quindi mondiale) di musica leggera e lo approcciavo come facevo col calcio, col ciclismo (vi vedevo un nesso sportivo con la parimenti seguitissima Milano-Sanremo) e con altri sport. Cantanti e canzoni erano in gara e, come avviene in tante discipline, era la giuria a stabilire la graduatoria, con tanto di critiche e sospetti. «Miei cari amici vicini e lontani…»: così si apriva e si chiudeva la serata con la voce di Nunzio Filogamo. In mezzo le canzoni e poi le votazioni: «Qui Genova, la giuria qui riunita ha così votato…».
I cantanti erano persone all’apparenza normali: vestiti bene, i pantaloni stirati, non lisi e non strappati, teste pettinate, modi seri e gentili, talvolta impacciati. Le cantanti si concedevano al massimo una pettinatura ed un abito un po’ ricercati. Cercavano solo di cantare bene delle belle canzoni del tempo, senza trucchi acustici, senza creste sul capo o anelli nel naso, senza dover mostrare la propria intelligenza attraverso infiltrazioni di inchiostro intracutanee. Qualità e gradimento musicale dei brani e capacità dell’artista erano attribuiti secondo parametri che prescindevano dall’aspetto, dall’eccentricità, dall’ostentazione di bruttezze. Come avviene oggi, quando tali elementi sono gli unici, o quasi, a porsi al centro dell’attenzione del pubblico e dei media, in assenza di cantanti e di canzoni propriamente detti.
Vestiti eccentrici, eccessi di tatuaggi e scelte scenografiche che spesso sembrano più dettate dal desiderio di creare polemica che da un’autentica ricerca estetica. La musica passa in secondo piano rispetto all’immagine, con il solo senso di voler perpetuare lo stesso rito, a dispetto di dei e muse che non ci sono più; gli artisti sembrano più impegnati a “fare il compitino” che a proporre qualcosa di realmente innovativo: un lento declino che ricorda le fasi finali di un impero ormai svuotato di sostanza.
Oltre agli aspetti musicali, quindi, il Festival di Sanremo ha mostrato negli ultimi anni una tendenza alla spettacolarizzazione superficiale, svuotata di contenuti autentici. La sensazione è che l’evento sia diventato un grande show mirato esclusivamente agli ascolti, senza una vera direzione e pretese artistiche.
Passatismo o critica fondata?
L’occasione per scrivere questo pezzo è stata quindi la ricorrenza del Festival, che per me è diventato solo un baraccone mediatico-affaristico di clown dilettanti. Ma il dibattito sulla qualità della musica contemporanea rispetto al passato è assai più ampio e vi si annida spesso l’accusa di “passatismo” verso chi, come me, critica le tendenze attuali. Si tratta davvero di nostalgia fine a sé stessa, o c’è un fondamento oggettivo nella percezione di un declino qualitativo? Per rispondere a questa domanda, è utile considerare, oltre alle sensazioni e convinzioni personali, contributi autorevoli di critici musicali, studiosi e artisti che hanno analizzato questa evoluzione.
L’alta fedeltà: un valore imprescindibile
Un tempo, la qualità dell’ascolto era considerata essenziale. Appena messa su casa, dopo i mobili, il frigo e la televisione, in ogni casa entrava un impianto hi-fi degno di questo nome, con amplificatori, giradischi, casse acustiche di livello e persino magnetofoni. Sony, Marantz, Technics, Toshiba, Akai, Philips, Grundig, Telefunken… Si sostava a lungo davanti ai negozi specializzati, si cercava la consulenza di un amico, si entrava e si componeva (era standard un pagamento a rate sulla parola) un sistema multimarca in base alle peculiarità cercate nei singoli elementi: amplificatore in primis, giradischi (puntina!), sintonizzatore, registratore. Poi, discutendo sulle prestazioni delle cassette al ferro o al cromo (ma lo Stereo8 per me fu il massimo), si trasferiva in auto la stessa qualità con autoradio e altoparlanti di massime prestazioni con impianti la cui qualità oggi ci sogniamo. La musica era un’esperienza sensoriale completa, in cui l’ascoltatore si immergeva completamente.
Oggi, il formato MP3 e lo streaming audio compresso hanno sacrificato la purezza del suono sull’altare della praticità e del mercato di poche pretese, sacrificando la gamma dinamica per comprimere il file. Ciò ha progressivamente abituato le nuove generazioni a un ascolto fruito tramite auricolari economici e dispositivi privi di una vera resa acustica. Il risultato è una perdita di profondità sonora e una minore capacità di distinguere tra una produzione raffinata e una sciatta.
Anche qui devo citare un ricordo personale di delusione e di disorientamento, quando, ormai vetusto e zoppicante il mio impianto del 1974, mi convinsi a sostituirlo con uno nuovo, convinto che le innovazioni tecnologiche nel frattempo intervenute mi avrebbero consentito un ulteriore ed apprezzabile salto di qualità nell’ascolto. Del resto, il punto debole dell’alta fedeltà di una volta era stato il problema dell’attrito tra puntina e vinile, con l’una che usurava l’altro ad ogni ascolto: ora è tutto elettronico, non ci sono più i dischi, c’è la chiavetta, c’è l’MP3, basta un amplificatore, aggiornato e chissà quanto potenziato in cinquant’anni, che la legga! Invece no! Nel negozio di una primaria catena del settore mi sento dire che la qualità di una volta me la potevo sognare, che non c’era nessun impianto stero hi-fi che potesse, leggendo quel formato, rendere la fedeltà e la gamma che stavo cercando. E mi consigliò di non spendere soldi per niente.
Il declino dell’ispirazione degli autori
La grande stagione della musica italiana e internazionale si è contraddistinta per autori capaci di coniugare testo e melodia con sapienza artigianale. Non posso fare nomi, qui, perché tra decine e decine, non saprei quali scegliere a scapito di altri. Oggi, la sensazione diffusa è che l’ispirazione si sia esaurita e che i nuovi autori, pur con qualche eccezione, non siano in grado di reggere il confronto. I testi appaiono spesso ripetitivi, privi di profondità, e le melodie sembrano prodotte in serie, con strutture sempre più elementari, se non volutamente assenti: per me le canzoni sono sempre state delle cose stupende che, ascoltate tre o quattro volte, potevo tranquillamente strimpellare sulla tastiera, la melodia apparecchiata ad orecchio e dopo averne trovato gli accordi principali sulla tua scala preferita. Oggi? Melodia? Accordi? Solo inquinanti acustici!
Troppo insolente? Ho curiosato in merito sul web: Ennio Morricone, in una delle sue ultime interviste, ha dichiarato che “la musica popolare si è semplificata in maniera drastica: oggi una melodia dura pochi secondi, viene ripetuta all’infinito e non offre più nessun percorso emotivo”. Questa estrema semplificazione ha portato alla progressiva perdita di quello che Umberto Eco ha definito “l’effetto culturale della canzone d’autore”, ossia la capacità della musica di raccontare storie e lasciare un segno nel tempo. Posso confermare, per quanto mi riguarda: conservo ancora, dopo mezzo secolo, parole e musica di decine di canzoni che, tramite Spotify (questa, qualità a parte, è comunque un miglioramento quantitativo rispetto ai miei tempi, quando, se ti fosse andato bene, avresti comprato un LP al mese) posso ascoltare ed accompagnare con la voce in auto.
Una volta il Festival di Sanremo era il campionato mondiale della musica leggera, con artisti e canzoni di qualità. Oggi, invece, lo spettacolo è dominato da immagine, eccentricità e mediocrità, con il successo determinato dai like e dagli algoritmi, piuttosto che dal talento. La musica ha perso centralità, sostituita da fenomeni mediatici usa e getta, senza una vera direzione artistica. Il declino dell’alta fedeltà audio e la scomparsa della melodia e dell’ispirazione autoriale hanno reso la produzione attuale effimera, incapace di lasciare un segno duraturo. Ci sono simboli emblematici di questa deriva culturale: la musica non racconta più storie, non educa, non innova. Siamo di fronte a un baraccone mediatico-affaristico, in cui l’abitudine alla mediocrità ha sostituito l’eccellenza artistica.
La proliferazione degli “artisti usa e getta”
Un tempo, entrare nel mondo della musica richiedeva talento, gavetta e un lungo percorso di crescita. Oggi, la situazione è drasticamente cambiata: la facilità con cui chiunque può pubblicare un brano online ha portato a una sovrapproduzione di contenuti, spesso di qualità discutibile. Molti nuovi “artisti” non hanno alle spalle alcuna preparazione musicale, ma godono di una notorietà derivata dai social media che compensa in pubblico un profondo vuoto culturale e di preparazione.
Il problema penso sia dovuto alla perdita della selezione naturale del talento, un po’ come per i calciatori, che un tempo imparavano a migliaia a giuocare a pallone sulla strada, allenati tutto il giorno e per tutti i giorni, e, tra quelli, spiccavano i talenti; oggi sono solo una élite di bambini e ragazzi accompagnati dai genitori, che, a parte le poche ore di allenamento e di partita, per il resto del loro tempo libero sono seduti a capo chino sullo smartphone e privi quindi di dinamismo e postura adeguata.
L’industria musicale è sempre stata selettiva e spietata, ma oggi è il pubblico, in gran parte non sollecitato verso il meglio, a determinare il successo in base ai like e alle condivisioni, non alla qualità artistica. Influencer senza una vera identità musicale riempiono classifiche e palinsesti, con canzoni che hanno più valore come fenomeno mediatico che come espressione musicale e per le quali dovrebbe essere coniato un nuovo termine, per i quali non mi mancano suggerimenti da proporre:
Algo-pop – Brani creati più per rispondere agli algoritmi delle piattaforme di streaming che per esprimere un reale valore artistico
Like-song – Canzoni concepite per ottenere impegno sui social più che per lasciare un’impronta culturale
Instant-music – Canzoni usa e getta, immediate nel successo e altrettanto rapide nell’oblio
Phonocartoon – Più un contenuto sonoro di contorno che una vera composizione musicale, funzionale solo alla visibilità dell’artista o presunto tale
Influencer-beat – Musica prodotta non da musicisti, ma da influencer che usano la canzone come veicolo di marketing personale, senza alcuna intermediazione qualificata, anche perché non c’è nulla da mediare (a differenza dei vecchi opinion leader)
Ma ho divagato a causa della vena polemica che certe cose mi attivano. Torniamo al filo del discorso.
L’abitudine alla mediocrità
L’effetto più preoccupante di questa evoluzione è l’assuefazione generale a un livello qualitativo inferiore. L’ascoltatore medio accetta come norma una produzione musicale basata su strutture elementari, testi poveri e un sound compresso. Il pubblico non è più educato a distinguere tra una produzione di valore e un prodotto commerciale effimero: i giovani (a partire da quando?), temo non sappiano cosa sia la musica. Del resto, in sociologia, ma anche nella società, quando la qualità non è più un criterio di riferimento, la mediocrità diventa il nuovo standard imperante. Questo fenomeno, credo si esprima non solo nella musica, ma anche in altre arti, dalla letteratura al cinema, ma non ne parlerei qui…
Un aneddoto emblematico: il caso Fedez-Strehler
Un esempio di questa deriva culturale è emblematicamente rappresentato dall’episodio cui ho assistito casualmente alla TV. Un (mi dicono) noto personaggio della scena musicale attuale, certo “Fedez”, durante una trasmissione video di una radio privata, nel corso della quale uno dei conduttori ha fatto riferimento a Giorgio Strehler, il tale (mi dicono anche chiacchierato) sbotta indignato e incredulo: «Strehler? E chi c***o era?», accompagnato da un compiaciuto interrogativo gestuale a due mani. Ma lo scriverne non rende il suo sprezzante sbottare, l’effetto di sconvolgimento della sua abituale percezione della realtà, l’impatto sulla sua stabilità culturale.
Non me ne vorranno i suoi follower, la cui traduzione, “seguaci”, mi inquieta non poco: “Chi accetta una fede o una dottrina e ne segue i principi e gli insegnamenti (i s. del cristianesimo, dell’aristotelismo) o si professa discepolo del personaggio in cui tale dottrina s’identifica (i s. di Cristo, di Maometto)”. Dottrina? Fede? Non me ne vorranno, dicevo, se colgo qui l’occasione per una sacrificata e approssimata sintesi biografica di colui che, per quel tizio, rappresentava il classico “Carneade”.
Come l’ho visto e lo ricordo io e quelli dei miei tempi, Giorgio Strehler, uno dei più grandi registi teatrali italiani e una colonna portante della cultura italiana. Fondatore del Piccolo Teatro di Milano, ha rivoluzionato la scena teatrale del dopoguerra, introducendo un linguaggio innovativo e accessibile alla gente. Il suo teatro, caratterizzato da un forte impegno sociale e da una cura maniacale per la messa in scena, ha portato in Italia e nel mondo la grande tradizione del teatro di Bertolt Brecht, Molière, Shakespeare e Goldoni, con allestimenti memorabili. Strehler ha contribuito a formare generazioni di attori e a rendere il teatro uno strumento di riflessione civile e politica.
Uno dei momenti più iconici indelebili della sua carriera è legato alla canzone “Ma Mi”, un brano in dialetto milanese che racconta la storia di un uomo imprigionato per motivi politici durante il fascismo repubblichino. La canzone, interpretata da Ornella Vanoni e legata profondamente alla memoria della Resistenza, rappresenta perfettamente lo spirito del teatro di Strehler: un’arte popolare, ma mai banale, capace di raccontare il dramma umano con sensibilità e potenza espressiva.
Qualche giorno dopo aver visto la scena del nostro Fedez, mi ha confortato che qualcun altro l’avesse notata e commentata. Lo storico della cultura Alessandro Baricco, evidentemente anche lui colpito dalla di lui emblematica rappresentazione, ha scritto in proposito: “Il problema non è che un artista pop non conosca Strehler, il problema è che nessuno gli abbia mai detto perché avrebbe dovuto conoscerlo”.
Conclusione
Se il giudizio sulla musica attuale sia frutto di nostalgico passatismo o di un’analisi oggettiva è un quesito aperto. Tuttavia, la perdita di centralità della qualità del suono, il declino dell’ispirazione autoriale, la sovrabbondanza di artisti senza sostanza e l’assuefazione alla mediocrità sono fenomeni difficilmente contestabili, come il cambiamento climatico.
Uso spesso delle citazioni, lo avete appena visto: non è per dare sfoggio di una cultura che non posseggo o perché ne conosco tante, ma solo perché cerco sempre conferme alle mie sensazioni e percezioni e perché il web, oggi, consente quasi tutto. Per finire uso questa, di Leonard Bernstein: “L’arte deve sempre elevarci, mai abbassarci al livello del più semplice comune denominatore”. Una riflessione più che mai attuale.