Si parva licet componere magnis
Secondo l’intenzione dei suoi capi, di quelli che l’hanno veramente fatta, la Resistenza doveva costituire per il popolo italiano l’elemento di unità e di coesione dal quale, attraverso la lotta contro l’occupazione tedesca, poter attingere la necessaria fiducia in sé stesso, la concordia per la ricostruzione del paese dopo la guerra e lo slancio verso la libertà e il progresso. Se questo sia avvenuto e in quale misura in questi ottant’anni di dibattito è difficile dirlo e forse sarà sempre più e soprattutto un’opinione.
Io non c’ero, ma, per passione, per curiosità, per amore della storia e soprattutto, credo, per aver a lungo ascoltato quelli che c’erano stati, ho cercato, sempre e più di conoscere e di capire, di avere le risposte a tutto, anche a quello che, a mano a mano, rimaneva poco chiaro e definito, specialmente nel rapportare la Storia, raccontata, dei libri, alle storie, quelle vissute, delle strade, quella dei palazzi a quella dei fronti.
Una di quelle curiosità, anche in quanto milanese, era quella di capire cosa fosse realmente accaduto a Milano, centro di quegli eventi, il fatidico 25 aprile 1945, una data che, come tante altre nella storia, rappresenta uno snodo storico senza ritorno, una festa nazionale, il nome a strade e piazze in tutto il paese, un simbolo, un vessillo. Ma, in quanto data propriamente detta e dovendo racchiudere così tanto, finisce per essere aggirata in un senso o fraintesa nell’altro, senza poter essere interpretata in sequenze ordinate e concatenate di eventi, riconciliabili alla fine con gli esiti condivisi della Storia.
Nel mio primo immaginario giovanile, vedevo il 25 aprile 1945 come una giornata, in verità solo dal mattino al tramonto, in cui avvenne, come in una delle cento battaglie decisive studiate a scuola, “tutto in un giorno”: Waterloo, Magenta, Solferino, Caporetto, Vittorio Veneto… (qualche volta le cose andavano un po’ per le lunghe, come nelle Cinque Giornate, ma tutto era chiuso in un arco temporale ben definito e poi passato alla Storia). Comunque, mi rappresentavo un giorno in cui, dal mattino, i partigiani, in parte usciti dai nascondigli, in città e il grosso proveniente da fuori, in primis dal patrio Oltrepò, affrontavano in armi fascisti e i tedeschi, costretti alla resa o alla fuga prima e l’ultimo sparo appena prima del tramonto. Il mattino, dopo tutti a festeggiare in piazza Duomo, in attesa della (estremamente) simbolica catarsi di piazzale Loreto e nella ritrovata concordia.
Poi vennero i primi dubbi, le date che non coincidevano, eventi prima, eventi dopo, persone (quasi) tranquillamente in giro per la città che io immaginavo in preda al ferro e al fuoco… Libri, saggi e racconti tesi o a ricostruzioni del quadro d’insieme o a esplorare singoli aspetti di quelle vicende: mai riprese dall’alto seguite dal movimento rapido dell’obiettivo, per inquadrare e portare in primo piano il soggetto protagonista. Ciò avvenne soltanto quando mi affacciai alla memorialistica storica.
Tra gli uomini di vertice delle resistenza di cui ho fatto cenno e che affrontarono rischi e assunsero responsabilità tali da meritare in eterno la nostra ammirazione e il nostro ringraziamento, ci fu, forse tra i meno celebrati, Raffaele Cadorna, l’uomo che, al comando militare della Resistenza, ha saputo al meglio sintetizzare l’aspirazione di libertà di tutte le classi sociali, anche per la sua figura indipendente, per il suo nome storico, per essere un generale di cavalleria finito a comandare l’esercito dei partigiani conto gli ex-alleati. Bene, è stato leggendone le pagine ingiallite, dopo averlo finalmente trovato, che il libro delle memorie di Raffaele Cadorna mi ha permesso di ricostruire la vera storia che cercavo di quelle epiche giornate milanesi e di riaffermare, se ne fosse il caso, l’idea di un esercito comandato da uomini di alto valore, che, girando per la città ancora in mano ai tedeschi e ai loro sbirri fino agli ultimi giorni, rischiarono di essere passati per le armi.
È stata anche l’occasione di conoscere da vicino quegli uomini, quei capi con i loro collaboratori che non devono essere dimenticati, soprattutto perché non sono esclusiva di nessuna parte, ma devono rappresentare il nucleo fondante dell’Italia unita: alcuni di quelli, ormai dimenticati, li incontreremo nel racconto di Cadorna che riporto e sarà l’occasione di ricordarne le biografie, quali nobili testimonianze di coraggio personale, posto al servizio del riscatto del proprio paese.
In tutto il libro sono centinaia: uomini di alto profilo che non voglio perdere l’occasione per riaffermare che essi costituiscono il perenne antidoto ad ogni strumentalizzazione revisionista di quelli che, parificando la lotta armata sotto il criterio di un’unica, indefinita “violenza” fattori del tutto diversi, se non opposti, per natura, origine e percorso, conclude semplificando che, da una parte e dall’altra, vi fu lo stesso grado di aspirazioni e di crudeltà e che, dunque, le due parti in lotta meritino eguali moralità e dignità storica. Le diversità tra fascisti e antifascisti, così, verrebbero cancellate a favore di quel “sentito dire” che ha permesso una sorta di processo mediatico alla Resistenza, con relativa banalizzazione dell’invasione nazista e della collaborazione ad essa prestata da un fascismo sempre più esasperato e quindi violento. Del resto, a prescindere da leggi razziali e campi di sterminio, che già qualificherebbero la mission di una delle due parti, a livello di lotta armata, occorre distinguere la “guerra ai civili”, strategia militare adottata dalle truppe italiane e tedesche nei territori invasi ed occupati (ed in Italia le stragi tedesche ne rappresentano la più triste conferma), e la “guerra civile”, lotta armata tra due parti di paese, in generale, e/o tra una parte che vuole cacciare l’occupante e quella che lo sostiene, come avvenne in Italia.
Veniamo dunque alla testimonianza di Raffaele Cadorna. A metà aprile del 1945, egli si trova in Svizzera per concordare con gli alleati le imminenti strategie per liberare l’Italia settentrionale dai tedeschi e rientra clandestinamente in Italia, ove era da tempo ricercato dalle varie polizie nazifasciste.
Fummo accompagnati a Lugano e chiedi alla dogana di Melide, qui ci attendeva il contrabbandiere che si doveva condurre a Viggiù attraverso un facile colle. […] Il mattino successivo raggiungemmo Bisuschio col tram e quindi Milano col treno. […] Era questione di giorni e anche la pianura padana, secondo la direttiva alleata avrebbe dovuto insorgere in armonia col progresso delle operazioni.
Dovevo cercare di prendere contatto con gli amici e di ristabilire il funzionamento del comando, al quale avrei per la sua volta proceduto con le effettive funzioni di comandante. Per fortuna la mia abitazione era intatta come erano intatte le mie basi principali presso l’ing. Righini e il dott. Negrini. Ritrovai subito subito Argenton, il quale mi mise al corrente della situazione del Comando.
[…]
In vista della crisi finale era stata emanata una circolare all’oggetto “Direttive operative”. Essa prevedeva due fasi: la prima era preparatoria e contemplava l’intensificazione della propaganda e della guerriglia per accelerare la disgregazione dei reparti nemici; la seconda era la fase propriamente insurrezionale da scatenare in stretto collegamento con l’operazione degli alleati. In questa seconda fase, erano contemplate due ipotesi: l’una, più favorevole, del crollo del regime germanico e conseguente sbandamento delle sue forze armate. In questo caso, occorreva piombare sul nemico per affrettarne la ritirata e la disgregazione, catturandone il ricco materiale. Al tempo stesso era prevista la protezione degli impianti di pubblica utilità e misure speciali per tutelare l’ordine pubblico. Le forze dell’Ossola e della Valsesia, a diretta disposizione del Comando, dovevano in un primo tempo disturbare la ritirata tedesca durante il passaggio dal Ticino, in un secondo tempo portarsi a Milano. La seconda ipotesi, la mena favorevole, contemplava il caso in cui i tedeschi ripiegassero preventivamente per assumere uno schieramento più economico. In tal caso, compito principale delle formazioni partigiane sarebbe stato quello di impedire la distruzione degli impianti di pubblica utilità, che avrebbero avuto ogni agio di effettuare. La circolare concludeva dicendo saggiamente che le direttive avevano valore di larga massimo e andavano quindi applicate a seconda delle situazioni particolari, di ambiente e di momento. […]
Queste larghe norme non compilavano accenni precisi al comportamento da tenere nei riguardi delle truppe fasciste, coscritte e volontarie. Era una questione assai delicata che gli alleati avevano, come raccontato, risolto, nel senso che tutte le formazioni fasciste dovessero essere considerate alla stessa stregua dei reparti di tedeschi e cioè come prigionieri di guerra.
Accadde invece che il Comando piemontese, il più sollecito ed esperto nell’ emanare norme organizzative e direttive operative, come quello che era più largamente fornito di autentici ufficiali di Stato Maggiore, compilasse e inviasse al Comando generale per conoscenza – e ciò in mia assenza – un “Piano per la liberazione di Torino”. Tale piano, nel paragrafo dedicato ai tribunali di guerra, stabiliva che:
Questa norma, che sanzionava l’eliminazione di varie decine di migliaia di persone più o meno colpevoli, parve enorme anche al Comando generale (gestito da Longo in quel momento), che, nell’inviare il documento per conoscenza agli enti dipendenti, lo accompagnava con una lettera in cui precisava:
Circa le disposizioni in esso contenuto di fucilare tutti coloro che hanno portato le armi contro la Patria, facciamo osservare che esse non corrispondono alla posizione che noi dobbiamo avere in questo problema, posizione che è precisata in questa direttiva: “Chi si arrende deve avere salva la vita, se non ha da rispondere di crimini particolari. Deve essere fucilato ogni fascista catturato con le armi.
Opportuna precisazione che non valse completamente a parare le conseguenze delle norme radicali emanate dal Comando piemontese non solo per la piazza di Torino, ma per l’intera regione, con una circolare di cui ebbi solo più tardi conoscenza. Lo scarso tempo corrente fra il mio rientro è l’inizio dell’insurrezione e la difficoltà di riunire e far funzionare il Comando mi impedirono di occuparmi più profondamente di questa delicata materia.
I PERSONAGGI: MARIO ARGENTON
(ANPI) Nato a Este (Padova) nel 1907 e morto a Roma nel 1992, Mario Argenton fu un ufficiale dell’Esercito italiano (maggiore di artiglieria a cavallo, decorato con Medaglia d’Argento e Croce di guerra al Valor Militare nella campagna di Russia, con due promozioni sul campo) e poi componente del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà, in rappresentanza delle Formazioni Autonome e Militari per il Partito Liberale Italiano. Il 25 luglio 1943 viene designato Capo dell’Ufficio Operazioni del Comando che doveva difendere Roma e poi assegnato come ufficiale addetto al Col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Insieme creano la prima radio clandestina e, scampati all’arresto da parte dei tedeschi (non tutti seguirono il re…), passano in clandestinità. Alla fine di ottobre, persuaso che la guerra sarebbe andata per le lunghe, Argenton, d’accordo con Montezemolo, si trasferisce al nord dove risiede la sua famiglia e qui continua l’attività clandestina, organizzando una rete informativa e di collegamento e a Milano ottiene aiuti finanziari per l’organizzazione delle formazioni. Il 9 giugno 1944 entra a far parte, in rappresentanza del PLI, del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà (C.V.L.), assieme a Ferruccio Parri, Luigi Longo, Enrico Mattei e Giovanni Battista Stucchi, sostituito per brevi periodi da Guido Mosna e Sandro Pertini. Il 10 settembre 1944 è arrestato a Mantova e, dopo essere passato per le carceri delle Brigate Nere e dell’Ufficio Politico Investigativo, viene trasferito nelle mani del tristemente noto Maggiore Carità (dovette una volta addirittura giustificarsi con Mussolini per la troppa violenza, rinfacciandogli però l’uso originario a sua volta fattone), a capo dell’omonima banda. Dopo lunghi ed estenuanti interrogatori e con ripetute minacce di morte, Argenton fornisce a Carità false informazioni e, alla vigilia di un’esecuzione ormai certa, la notte del 10 ottobre riesce ad evadere in un estremo tentativo di salvezza e Carità, trovata la cella vuota, sfoga la sua rabbia uccidendo con sette colpi di pistola il proprio vice, tenente Luigi Manzella, erroneamente ritenuto responsabile della fuga. Dopo un mese di latitanza, Argenton riprende l’attività clandestina a Milano nel Comando Generale del C.V.L. assolvendo a delicati incarichi direttivi nella condotta della Resistenza, come vicecapo di Stato Maggiore, responsabile delle informazioni e collegamenti. Dopo l’arresto dei due ufficiali (Beolchini e Palombo) addetti al generale Raffaele Cadorna, l’8 febbraio 1945 Argenton è designato anche suo capo di Stato Maggiore e, come tale, lo incontriamo nel racconto di Cadorna. Mario Argenton è il primo partigiano a prendere la parola alla Consulta nazionale per la formazione dell’Assemblea costituente e le sue prime parole furono: “Abbiamo combattuto per tornare a testa alta fra gli uomini liberi in una libera Patria”. Nel 1963, dopo la scomparsa di Mattei, viene eletto alla presidenza della Federazione Italiana Volontari della Libertà (FIVL), mentre nel 1975 Milano gli ha conferito la cittadinanza onoraria e la Medaglia d’Oro della Città.
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