Ritorno con visioni in un luogo della memoria

DACHAU

Dopo quasi trent'anni, tornare a Dachau non è stato solo un confronto con il passato, ma uno sguardo inquieto su presente e futuro.

Ritornare a Dachau  

Sono tornato al memoriale del campo di concentramento di Dachau, dopo quasi trent’anni dalla mia prima visita. Ritornare in quei luoghi non è un’esperienza come le altre. Guardare con i propri occhi ciò che fino ad allora si era solo immaginato attraverso filmati, fotografie, testimonianze e libri, è stato qualcosa che mi ha scosso nel profondo. Ritrovarsi nei luoghi reali dell’orrore – le baracche, i forni, le camere, gli spazi di tortura, il filo spinato – produce infatti una consapevolezza che nessun racconto, per quanto efficace, può sostituire.

Allora, come oggi, ho provato un senso drammatico di smarrimento e di presa di coscienza, che ritengo fondamentale: certi orrori si possono comprendere fino in fondo solo camminandoci dentro, in silenzio, sentendo i passi rimbombare su quei viali circondati da filo spinato.

Cos’era il campo di Dachau

Il campo di concentramento di Dachau, situato nei pressi di Monaco di Baviera, fu il primo campo nazista permanente, istituito il 22 marzo 1933 su ordine di Heinrich Himmler, pochi mesi dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Inizialmente destinato ai prigionieri politici – soprattutto oppositori del regime, comunisti e socialdemocratici – divenne ben presto modello e scuola per l’intero sistema concentrazionario nazista, sia per l’organizzazione interna che per i metodi repressivi.

Nel corso del tempo, vi furono rinchiusi ebrei, omosessuali, rom, dissidenti politici, religiosi, e altre categorie perseguitate dal regime. Dachau fu anche uno dei primi luoghi in cui il terrore fu esercitato in modo sistematico e industrializzato, con torture, lavori forzati, esperimenti medici e, negli ultimi anni di guerra, anche esecuzioni di massa.

Il campo oggi: la memoria come dovere e responsabilità

Rispetto alla mia visita di allora, oggi ho trovato un memoriale più completo, più curato, più ricco di documentazione e strumenti di comprensione. Le nuove audioguide sono moderne, efficienti, dettagliate, meticolose. Tutto, dagli spazi espositivi ai servizi, dall’accoglienza alla libreria, dalla cura degli ambienti fino alla segnaletica, dimostra un’intenzione chiara e profonda: non dimenticare, non permettere l’oblio.

E questo non può non colpire. Perché ciò che si percepisce, oggi come allora, è la volontà – da parte dello Stato tedesco – di assumersi la responsabilità storica, di esplicitare senza riserve ciò che è stato. Nessun tentativo di minimizzare, nessun imbarazzo nel mostrare cosa fu Dachau. Questa elaborazione collettiva del lutto e della colpa è oggi visibile in ogni dettaglio del memoriale. Il campo non è stato rimosso, cancellato, nascosto: è lì, affiancato alle case, alla città, alla normalità quotidiana. Già allora mi colpì, e oggi ancor di più, la vicinanza delle abitazioni: difficile pensare che la popolazione potesse non sapere.

Un passato che torna a far paura

Ma c’è qualcosa di nuovo. Qualcosa che tre decenni fa non avevo provato. Allora, nonostante l’orrore, vivevamo in un clima di speranza, di pace, di fiducia nell’Europa, nella democrazia, nel progresso civile. L’Unione Europea era un progetto vivo, aperto, solidale. Stava nascendo la moneta unica. I valori dell’antifascismo, anche in Italia, erano ancora vivi nei media, nella coscienza pubblica, nella scuola, dove lo studio della storia non si interrompeva più – com’era invece accaduto alla mia generazione, ferma al 4 novembre 1918.

Stavolta no. Oggi ho avuto paura.

Perché rivedere quel campo, quel filo spinato, quei muri, in un tempo in cui in America, la patria delle libertà, si alzano muri e si deportano migranti, in cui si flirtano con forze neofasciste europee, fa pensare che il nazismo non sia solo un ricordo da museo.

Perché a Est c’è una Russia che celebra la vittoria contro il nazismo, ma nel frattempo elimina oppositori, invade paesi sovrani, sopprime la stampa e reprime ogni libertà, proprio come faceva chi costruì i Lager.

Perché anche in Europa centrale e orientale – in Ungheria, Polonia, Slovacchia – si riducono diritti, si attaccano le minoranze, si usano parole d’odio in Parlamento.

E in Italia, oggi, al governo ci sono forze discendenti dirette di quella cultura fascista che portò all’alleanza con Hitler e alla condivisione della responsabilità dei campi di sterminio come quello di Dachau. Forze che minimizzano, banalizzano, commemorano, strizzano l’occhio. C’è stato persino chi – con un cinismo che ferisce – ha definito le visite scolastiche a Dachau e Auschwitz “gite come le altre”. Come se la Shoah fosse solo un paragrafo noioso da saltare nei libri.

E allora, stavolta, uscendo dal campo, ho provato un terrore nuovo. Non solo per ciò che è stato, ma per ciò che potrebbe ritornare. Perché quel campo oggi non appare più così anacronistico. Anzi, l’anacronismo si è rovesciato: è il nostro tempo che si sta riavvicinando a quello. Come un’inquietante orbita della Storia. Mentre lascio con un ultimo sguardo le baracche di Dachau, con l’audio guida nelle orecchie e le foto dei deportati davanti agli occhi, non posso fare a meno di vedere qui il set naturale di un film, che, tra i tanti distopici che ci hanno inondato, nessun regista ha ancora pensato di girare, prima che ritorni ad essere realtà.

Un campo che ora parla al presente

Tanto tempo fa, a Dachau, sentii la certezza che “mai più”. Oggi, a Dachau, ho sentito il dubbio che forse ancora. Non basta più dire “mai più”. Perché i segni sono ovunque, e sembrano tornare in orbita, come un pianeta oscuro che ci passa accanto, sempre più vicino. Il problema non è solo che la memoria si attenua. Il problema è che l’orrore si normalizza, si ricicla, si traveste, si ridefinisce.

E allora viene da chiedersi: quando – non se – servirà una nuova Resistenza, chi sarà in grado di sostenerla? Le forze che l’hanno animata una volta – nella lotta, nel pensiero, nella cultura, nella società – si stanno spegnendo, anagraficamente e spiritualmente. È vero, anche negli anni Venti e Trenta erano pochi. Ma ci fu poi una guerra che accese il fuoco della speranza e della rivolta.

Oggi, però, non vedo scintille. E anzi, temo che manchi persino l’ossigeno. Perché, se gli Stati che un tempo furono argine all’orrore pianificato – USA e URSS – sono oggi deformazioni di sé stesse, chi sarà il punto di appoggio per sollevare di nuovo la leva? Chi difenderà ciò che resta di umano?

Siamo forse all’inizio di nuovi secoli bui, con la minaccia nucleare e il collasso climatico come fondale tragico. E il rischio è che Dachau, domani, non sia più solo un luogo di memoria, ma una prefigurazione del presente. O, peggio ancora, del futuro.

Ma noi, nati alla prima luce dopo il buio, non ci saremo, perché ce ne saremo andati prima di una nuova ed ultima notte.

Scusate il tono, ma, come ho detto, sono di ritorno da Dachau.

Quando uso il termine nazifascismo, intendo riferirmi non solo al sistema concentrazionario nazista, ma anche alla corresponsabilità storica del regime fascista italiano, che collaborò – in diverse fasi e modalità – alla persecuzione, deportazione e repressione, soprattutto a partire dal 1938 e durante la Repubblica Sociale Italiana.