Tra rituale scaramantico e statistica personale, un tifoso racconta una vita di fughe dagli spalti, gol non visti e miracoli all’ultimo minuto. Perché a volte l’assenza è l’unico modo per esserci davvero.

ZONA CESARINI

Quando uscire dallo stadio è un atto di fede

"La fede, la fuga, il gol”. C'è chi resta fino all'ultimo minuto e chi scappa via prima. Lui è di quelli che escono. Ma non per disamore: per speranza. Da una vita coltiva un gesto che definisce apotropaico: uscire prima dal campo, dallo stadio, dallo schermo, per allontanare la sconfitta e chiamare il miracolo. Un gesto a metà tra scaramanzia, statistica e sacrificio. In questo racconto autobiografico, tra piogge a San Siro e cortili d'infanzia, si esplora la sottile linea tra spettatore e attore, presenza e assenza, ansia e fede calcistica. Con un tono ironico, commosso e acuto, l’autore restituisce la bellezza dei gol non visti — quelli che, forse, sono arrivati proprio perché non li ha visti. Una piccola filosofia del tifo, da leggere col cuore aperto e il fiato sospeso… fino alla Zona Cesarini.

L’occasione

Ci ho pensato a lungo. Per anni vi ho accennato, ci ho scherzato. Ma non ho mai scritto davvero di questo mio rituale personale e famigliare, mezzo scaramantico e mezzo statistico, di lasciare lo stadio prima del fischio finale.

Finché ieri sera, martedì 6 maggio 2025, sotto la pioggia di San Siro, c’è stata l’occasione della scrittura di una pagina indelebile di storia, sportiva per tutti, umana per tanti. E, come per tutte le pagine di storia, c’è stata gente che le ha vissute come protagonista, come vittima, come spettatore: è successo per la battaglia di Waterloo, per lo sbarco dei Mille, per l’8 settembre, per le Cinque Giornate di Milano… e l’elenco è lungo: luoghi e date che ricordano eventi unici ed irripetibili.

Ieri sera è successo a noi, San Siro, spettatori, protagonisti e vittime insieme di una partita senza aggettivi superlativi e oltre: Inter Barcellona 4-3 e qualificazione alla finale di Coppa Campioni, come l’ho sempre chiamata.

Ma l’Inter è sotto per 2-3 al novantesimo e così decidiamo di uscire, come tante altre volte. Poi… l’incredibile, anzi il probabile, come vedremo: un boato alle nostre spalle, poi ancora dieci minuti di sospensione eterea, come un respiro trattenuto settantamila persone e infine esploso insieme al pallone calciato in rete da Frattesi. Sconfitta – Pareggio – Vittoria in dieci minuti.
L’Inter ha ribaltato tutto mentre noi eravamo già fuori. E allora ho capito che questa era la volta giusta per parlarne, anche per giustificarmi, specie di fronte all’ennesima tiritera di accuse da parte dei miei figli, abituati sin da piccoli all’apotropaicismo da tifoso. Ecco, di questa parola strana parleremo dopo.

L’origine

Quello che c’è dietro, come al solito, sono l’infanzia, le prime partite col mio papà, i campi di periferia, la consapevolezza crescente che il pubblico non è solo pubblico, ma un attore del gioco, un corpo vivo che incide, anche… quando se ne va. Forse soprattutto quando se ne va. E così ho deciso di mettere ordine a questa lunga scia di fughe e ribaltamenti, per cercare il senso – o almeno la bellezza – in questa strana equazione che ho proposto alla scienza: quando esco, l’Inter segna.

Da bambino, specie quando c’era brutto tempo o faceva molto freddo, il dubbio della domenica mattina era sempre lo stesso: “Andiamo a San Siro o no?” Mio padre ci pensava, io ci speravo. E nella mia mente di giovane tifoso si affacciava sempre un pensiero curioso: “Se non ci andiamo, cambierà il risultato?” Il mio immaginario era fatto di scene in cui, rivolgendo un urlo disperato (“uomo!”) all’indirizzo di un mio difensore per avvisarlo dell’avventarsi di un avversario alle sue spalle, lo salvavo da un gol quasi preso.

L’assenza, quindi, non era solo un non-esserci, ma una perdita di potenziale influenza sul risultato delle partite. Perché il calcio non era solo passione: era anche una proiezione metafisica della mia presenza nel mondo. Giocavo a pensare che un mio grido, uno sguardo, un battito potesse spostare l’equilibrio tra gol e traversa, tra errore ed opportunità, tra allarme e silenzio.

Il fattore campo

I miei figli, ancora una volta, dunque, mi rinfacciano l’uscita anticipata. Ma come posso spiegare che questa non è solo un’abitudine, ma una convinzione radicata? Un gesto che mescola superstizione e analisi empirica. Negli anni, ho vissuto decine di partite nelle quali, uscendo prima dallo stadio, qualcosa di buono è accaduto. Al contrario, restando incollato ai gradoni, ho vedevo la squadra incerta ed impotente, qualche volta solo sfortunata per le occasioni sciupate, come se la mia presenza bloccasse l’evento, mentre l’assenza lo liberasse. Non solo scaramanzia, ma un atto rituale, una fuga apotropaica, come chi chiude gli occhi per non vedere l’inevitabile.

Invece, tornando ancora alle origini, fin da piccolo, ho percepito l’influenza reciproca tra pubblico e protagonisti del gioco, cercando di indagarvi. Nei campi di periferia, lo spettatore non è un’entità passiva: è occhio, voce, tensione viva. Un urlo, un richiamo, uno sguardo possono spostare l’esito di un’azione. Ricordo bene i giocatori disturbati da fischi isolati, spronati da parole d’incoraggiamento, turbati da silenzi pesanti. Non è una teoria: è fisiologia del gioco. L’arbitro, l’allenatore, il portiere: tutti ricevono impulsi dal pubblico. Si dice comunemente “il fattore campo”. Ma cos’è il fattore campo se non la somma – non astratta, ma concreta – delle azioni dei singoli presenti?

Ecco il punto: il pubblico non è una massa indistinta. È composto da individui, ognuno dei quali influisce. Andiamo o non andiamo? Se non ci andiamo, può cambiare il risultato? Anche a teatro, è così: il pubblico è parte della scena. Un colpo di tosse può far perdere il ritmo all’attore, un applauso lo esalta. C’è osmosi. Allo stadio, come a teatro, siamo parte dell’opera. Ma allora, se la mia presenza può creare disagio, nervosismo, pressione, perché non pensare che la mia uscita anticipata abbia valore inverso? Una sorta di “sacrificio simbolico” per il bene della squadra. Esco piano, senza clamore, come chi scompare nella nebbia per lasciar agire le forze invisibili.

Quantistica e statistica

Come nella meccanica quantistica l’osservatore influenza l’osservato, così nel calcio lo spettatore incide sull’evento. Ma il paradosso sta qui: “Il mio atto di rinuncia è l’ultima forma di partecipazione.”

Il tifoso che sceglie di sparire per favorire l’imponderabile, non si sottrae, ma si offre. Una presenza negativa che genera positività. Come in certi riti antichi, dove l’escluso ha potere proprio perché separato.

Ho ripreso dall’archivio dell’Inter, dai miei appunti e dalla memoria “emozionale” i dati utili per un’analisi statistica del fenomeno in questione. Sugli ultimi 100 episodi di uscita anticipata a risultato non soddisfacente (pareggio o sconfitta), risultano:

Restando dentro fino alla fine:
Eventi favorevoli = 0
Eventi sfavorevoli: = 1

Uscendo prima:
Eventi molto favorevoli (da sconfitta a vittoria): 3
Eventi favorevoli (da pareggio a vittoria): 36
Eventi negativi (da pareggio a sconfitta): 3.

Se fosse una funzione matematica, il coefficiente di incidenza dell’uscita anticipata sul risultato favorevole sarebbe pari al 39%, con soli 3% di contro-effetti.

Sì, è un ragionamento contorto. Ma non è forse così che vive il tifoso autentico? In equilibrio tra fede e logica, tra gesto e significato. La mia assenza non è fuga, è atto di fiducia. In quella fessura tra superstizione, psicologia collettiva, influenza percettiva e destino, si gioca un’altra partita. Non quella in campo, ma quella tra il cuore e la ragione. Non quei riti a invocare il proprio supposto dio, ma a disegnare diagrammi di causa-effetto.

E ieri sera, ancora una volta, l’ha vinta l’assenza. Una metafora matematica potrebbe essere questa:

y = f (x),

dove y indica la probabilità di gol segnati dopo l’uscita anticipata (x) in minuti.

Apotropaico?

“Apotropaico”, aggettivo, significa, secondo la Treccani, “che serve ad allontanare o annullare un’influenza maligna”. In altre parole, è qualcosa che viene utilizzato per scongiurare il malocchio, le cattive energie o qualsiasi altra forma di influenza negativa.

Il termine deriva dal greco “apotrépein”, “allontanare”, e si riferisce a oggetti, atti, o formule che hanno lo scopo di proteggere da eventi negativi. Prosegue l’enciclopedia: “Un esempio classico sono le maschere apotropaiche, spesso presenti in alcune culture per proteggere dalle energie negative. Poi c’è la circumambulazione, cioè il girare intorno a un terreno, a un edificio, a un oggetto, a una persona. La pratica ha il fine di chiudere la cosa aggirata in un cerchio sacro-magico che allontani gli influssi maligni o soprattutto si propone di procurare a coloro che girano attorno all’oggetto i benefici effetti che si desiderano. Cerimonie di tal tipo sono note a numerosissime religioni in civiltà disparate. Alcune preghiere o incantesimi possono essere considerati come formule apotropaiche. L’apotropaico è un aspetto importante di diverse culture, che cercano di proteggere la propria comunità e i propri individui da influssi negativi.”

Sulla base di ciò, quello che si manifesta nelle circostanze di fuga dal risultato parziale negativo della partita, si può definire un “Comportamento apotropaico da stadio”, messo in atto con una strategia mentale e comportamentale, radicata nell’esperienza e sostenuta da prove empiriche, attraverso cui un tifoso si sottrae volontariamente alla visione diretta dell’evento sportivo per allontanare l’esito nefasto e favorire, per via misteriosa, l’avverarsi dell’improbabile. (Capita anche per un semplice rigore: sempre a mio figlio più grande e ieri sera a Marotta). Non è un gesto infantile né masochistico (autolesionistico, visto che s’è pagato il biglietto per vedere i gol e per usare il termine corretto), ma una forma moderna di “esorcismo razionale”, tipica delle culture, comprese quelle calcistiche, quindi.

Pertanto, il movimento e l’insieme delle attività rituali che lo compongono, derivando da apotropaico + suffisso -ismo, possono essere definiti come “apotropaicismo”, ossia l’insieme di pratiche o comportamenti volti a scongiurare influssi negativi o sventure: il mio rituale rientra pienamente in una forma evoluta di apotropaicismo sportivo.

Nota: L’aggettivo esiste sui dizionari, mentre il sostantivo in – ismo per definire il “movimento” non cercatelo, ché l’ho coniato io. Ma, da una rapida consultazione, risulterebbe appropriato, per quanto poco usato nei testi comuni, il termine è accettato e comprensibile in ambito antropologico, psicologico, filosofico e… narrativo.

Lo stadio allargato

E poi, diciamolo: lo stadio che non è solo lo stadio. Uscire dai cancelli non significa uscire dallo stadio come entità sistemica. Perché il vero stadio non sono solo le gradinate e il campo, ma anche i suoi cancelli, il piazzale antistante, le strade attorno, il tram che porta i tifosi, le bancarelle di sciarpe e panini. Uscire da San Siro e restare nei pressi è ancora stare nello spazio sacro. È come il pio che esce dalla navata ma resta sul sagrato: lo spirito (santo) è lo stesso. Se l’urlo arriva fin lì, se la vibrazione del gol ti raggiunge tra una pozzanghera e il capolinea del 16, allora sei ancora dentro. Dentro alla magia, al rito, all’appartenenza. Come quell’altra notte magica della seconda stella, sempre sotto l’acqua, in casa del Milan…

Tanto c’è sempre la TV a casa dove vedere e rivedere i miracoli accaduti.

Davanti allo schermo

Restando in tema di TV, ma per quanto riguarda le trasferte, la mia “assenza salvifica” si esprime anche a casa, davanti allo schermo della TV, e si manifesta nella forma moderna della fuga: il cambio canale. Quante partite, incerte e sofferte, hanno trovato il gol decisivo proprio mentre io, per rabbia o frustrazione, passavo a guardare un documentario sulle balene o un tutorial di YouTube. Quando tornavo, ecco maglie nerazzurre abbracciate e una volante in aria. La magia continuava a operare, con un altro tipo di abbonamento.

(Gol) persi per sempre

Sono quelli dell’Inter in trasferta di quando ero bambino, quelli in bianco e nero prima ancora che arrivasse la televisione e che erano ascoltati alla radio. O meglio, non sempre ascoltati. Perché negli ultimi minuti della radiocronaca di Carosio, quando l’ansia per il risultato si faceva troppo intensa, io e mio padre scendevamo in cortile, con la scusa dell’aria, ma in realtà per non sentire la fine della partita (allora senza recupero, se non in casi eccezionali). Non ce la facevamo, era troppo. Si aspettava il miracolo… attraverso le sibilanti onde medie di Milano I.
Ed ecco che, a un tratto, poteva accadere che, dal balcone di casa e anticipata dal rumore di una porta che si apriva, giungesse la voce di mia madre, che sapeva di certezza e di sollievo: “Ha segnato l’Inter!” Lei era rimasta in casa ad ascoltare la radio e, ante-vox di Francesco Repice (perdonate il creativo latinismo), ci dava la buona novella in Zona Cesarini.

Conclusione

Ed ecco allora che tutto si lega. Lo stadio, la casa, il balcone, il tram. L’uscita, la chiusura del canale, il click sulla manopola della radio. Tutti gesti apotropaici, sparsi nel tempo e nello spazio, che uniscono generazioni diverse nel tentativo di piegare il destino senza guardarlo in faccia.

A riempire pagine di storia, insieme spettatori, protagonisti e vittime, a seconda di come vanno le cose, che spesso cambiano o addirittura si ribaltano all’ultimo minuto. Come per miracolo.

Titoli di coda

Ci ho messo un po’ a scegliere il titolo di questa storiella e, non soddisfacendomi nemmeno la scelta fatta, il titolo che avete trovato sopra è da ritenersi provvisorio, oltre che scontato. Per cui riporto qui di seguito i titoli cui ho pensato e che ho fatto girare prima, durante e dopo la scrittura di queste pagine. Al lettore la scelta di quello più appropriato, con la facoltà di aggiungerne di nuovi.

“AL DI LÀ DI OGNI RAGIONEVOLE SPERANZA”

“APPENA FUORI”

“CHI HA SEGNATO?”

“DANZANDO SOTTO LA PIOGGIA – SINGING IN THE RAIN”

“EFFETTO AXUM”

“ESCO PRIMA PER VIA DEL TRAFFICO”

“FUORI È PIÙ BELLO”

“FUORI O MORTE”

“FUORI PRIMA”

“L’URLO OLTRE IL CANCELLO”

“LA RIMONTA INVISIBILE”

“LA VOCE DEGLI ASSENTI”

“MARCATORI IN EXTREMIS”

“NON CI POSSO CREDERE!”

“QUELLI DEI GOL PERDUTI”

“RETI FUGGENTI”

“RETI PERDUTE – LOST GOALS”

“SETTE MINUTI ALLA FINE”

“TEMPO DI RECUPERO”

“URLA NEL BUIO”

2 - 3
3 - 3 ?

Post Scriptum

Come al solito, sono andato un po’ lungo, pur partendo da un episodio abbastanza circoscritto, per quanto molto simbolico. Ma, nonostante ciò, ho anche dovuto impormi il limite ove sono giunto. Perchè, scrivendo, mi sono venuti in mente altri aspetti e ricordi che fanno parte del “fuori stadio”, dei quali parlerò in una seconda puntata. Non dopo la finale di Coppa Campioni, comunque, ché quella non si gioca a San Siro…

4 - 3