Stop Talking
New Album
assdfsdf
New Album

Si parva licet componere magnis
RILETTURE STORICHE
1939-1945: IL TRADIMENTO
«NON SIAMO STATI NOI!» - ALLEATI PER FINTA, VITTIME PER DAVVERO
In occasione dell’80° Anniversario della Liberazione, questo contributo si propone come una riflessione storica non convenzionale, che approda a una verità accantonata.
Un viaggio dentro una verità rimossa: quella di un’alleanza mai davvero tale, e di un tradimento sistematico subito dall’Italia tra il 1939 e il 1945.
Si spazia dalla memoria personale di un padre tornato dalla guerra da internato, fedele allo Stato ma dimenticato dalla Storia a un documento dimenticato, firmato da un generale che già nel 1946 elencava punto per punto come la Germania avesse tradito l’Italia, non una volta sola, ma tredici. L’articolo segue queste tappe, le analizza, le commenta.
È poi l’occasione una riflessione sul significato profondo del valore militare, sulla linea sottile che separa l’eroismo dalla barbarie, e sul bisogno di distinguere responsabilità individuali da accuse collettive.
Alcuni di questi tradimenti suggeriscono anche una domanda scomoda: cosa sarebbe successo se l’Italia fosse stata trattata come un’alleata, non una pedina? Una breve ucronia mediterranea esplora questa possibilità.
Infine, il racconto torna ai soldati dimenticati, agli IMI, a coloro che dissero NO alla RSI ma non furono celebrati.
Un percorso che attraversa la guerra, l’armistizio, la memoria — per capire meglio, oggi, cosa significò davvero la parola tradimento nella storia della Liberazione.
I tredici punti elencati da Caracciolo vengono esaminati a uno a uno, con citazioni dirette e analisi storica.
Da alcuni di essi nasce anche un’ipotesi alternativa: cosa sarebbe successo se l’Italia fosse stata davvero un’alleata, non una subordinata?
La memoria (e il silenzio) di mio padre
Da una storia familiare nasce la necessità di rimettere in discussione le narrazioni ufficiali.
Il valore militare e la linea rossa
Per capire cosa fu tradito, occorre prima stabilire cosa fu difeso, con onore e con limiti.
Il diario e il confine morale della guerra
Nel linguaggio semplice di un soldato si intravede la linea sottile tra il dovere e l’orrore.
La responsabilità non è collettiva
Una difesa della verità storica che distingue tra singoli comportamenti e giudizi generali.
L’incontro con il generale Caracciolo di Feroleto
Una scoperta inattesa illumina ciò che fu taciuto: il tradimento tedesco cominciò molto prima.
I 13 tradimenti uno per uno
Il cuore documentale dell’articolo: una sequenza inesorabile di decisioni ostili e violazioni.
Il tradimento nel tradimento: Sebenico e Treglia
Attraverso tanti morti e un solo, grande no, la cronaca personale diventa eco del grande scollamento.
E se la storia fosse andata diversamente?
L’ucronia come strumento per riflettere sul peso delle scelte e sulle occasioni mancate.
La guerra parallela che non fu
L’Italia tentò di mostrare forza, ma l’asse fu sempre un tavolo sbilanciato.
I dimenticati della coerenza
Gli internati militari italiani furono gli ultimi a dire no e i primi a essere rimossi.
Conclusione
Non un’accusa, ma un invito: distinguere, riconoscere, raccontare. Ottant’anni dopo.
1 – CHI TRADÌ CHI?
Celebrata una resurrezione fideistica, ci si appresta a celebrarne un’altra, questa laica e verificata: il 25 aprile 2025 è 80° Anniversario della Liberazione, della fine dell’occupazione e della guerra civile. Ma vorrei farlo non in modo convenzionale, rievocando la Resistenza, le gesta dei partigiani o gli eccidi degli invasori: per quelli c’è spazio nei libri, nei discorsi ufficiali e nelle menti memori.
Prima di parlare di Resistenza, bisognerebbe in realtà capire perché fummo costretti a resistere e quindi cosa accadde davvero, sotto tutti i punti di vista. Occorre guardare a ciò che successe, dall’inizio alla fine, attraverso documenti, testimonianze e memorie dirette, provando ad accantonare certe tesi convenzionali, ripetute come uno slogan. È stato detto e scritto, infatti, e si sente ancora oggi sostenere con raccapricciante semplificazione, che la Germania, visto cadere Mussolini il 25 luglio 1943, si rese conto che l’Italia non avrebbe continuato la guerra e che di conseguenza si preparò ad occuparla, come fece poi a seguito dell’armistizio, dopo l’8 settembre: vi inviò le sue truppe, vi occupò le posizioni principali, e così via, con ciò giustificando anche le violenze, gli atti di crudeltà, le distruzioni, le fucilazioni operate sul nostro territorio.
Sostanzialmente si tratta della tesi del “tradimento”: chi fece cadere Mussolini, chi trattò l’armistizio, chi si oppose all’invasore tedesco e ai suoi collaborazionisti, tutti furono accusati di tradimento: il re, Badoglio, Regio Esercito, partigiani, soldati che dopo l’8 settembre non aderirono al nazifascismo e finirono nei campi di concentramento. Tutti additati a traditori.
Ora, che i tedeschi gridassero il tradimento, come del resto già nella guerra 1915-18, è ovvio, perché così a loro faceva comodo affermare, come anche ai loro complici fascisti; ma che l’asserzione possa costituire una versione storica prevalente o una vulgata generale è vergognoso e squallido.
Personalmente, poi e per quanto poco conti, io le respingo entrambe, se non altro a nome di mio padre, che ha dato al Paese in armi sette anni della sua vita, a suo modo: ubbidiente, forte e coraggioso fino alle estreme conseguenze.
La falsità della tesi del “tradimento” è facilmente dimostrabile con dati di fatto e soprattutto con la constatazione che la Germania ha cominciato l’occupazione dell’Italia assai prima dell’8 settembre e già da prima del 25 luglio; anzi la verità è l’opposto, perché è stata proprio la Germania a tradire l’Italia, meditatamente, scientemente; perché noi non eravamo più un alleato, ma una vittima; perché eravamo già stati abbandonati; perché la Germania ha cominciato a mancare al “patto d’acciaio” già il giorno stesso in cui fu concluso ed ha continuato a mancarvi sino alla fine, fino al giorno in cui il generale Wolff trattava la pace con gli Alleati all’insaputa del fuggitivo Mussolini e dell’imboscato Graziani.
2 – L’OCCASIONE
Questo articolo è scritto cogliendo l’opportunità di una ricorrenza, nasce dall’esigenza di raccontare, testimoniare, condividere storie mi accade e ha avuto, come spesso accade, un abbrivio personale, uno spunto familiare che in quelle storie s’inserisce: nella fattispecie quello, già accennato, di mio padre, combattente nella Seconda guerra mondiale. La sua vicenda non è naturalmente che un tassello tra tanti, ma, al di là del coinvolgimento affettivo, testimonia come le scelte individuali si siano intrecciate con le grandi svolte collettive, come le vittime possano divenire protagonisti e viceversa.
Ma la circostanza decisiva per poter finalmente parlare di quel “tradimento”, di quella ipotesi di ricostruzione storica cui ero andato convincendomi, mi è stata fornita da un vecchio e rarissimo documento del 1950, che ho finalmente e fortunosamente trovato.
Pubblicato ancora a caldo rispetto agli eventi, nel lontano 1950, dal generale Mario Caracciolo di Feroleto, il quale vi documenta con personale conoscenza la condotta tedesca: saccheggi, disinformazione, truppe già pronte all’invasione ben prima dell’8 settembre, sabotaggi contro la marina italiana, occupazioni camuffate da alleanze. Le sue parole, da comandante in campo, non lasciano spazio a dubbi: così, finalmente, ho trovato una sintesi efficace, puntuale, documentata e al contempo una testimonianza diretta di chi c’era e che ha partecipato in veste autorevole a quelle vicende.
3 – IL GENERALE CHE DENUNCIÒ IL TRADIMENTO
Mario Caracciolo di Feroleto (Napoli, 26 febbraio 1880 – Roma, 21 dicembre 1954) fu un generale d’armata italiano che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si distinse per il suo tentativo di organizzare la resistenza contro l’occupazione tedesca e per il suo impegno nella lotta clandestina contro il nazifascismo.
All’annuncio dell’armistizio, Caracciolo era al comando della 5ª Armata, con giurisdizione su Toscana, alto Lazio e La Spezia. A differenza di molti alti ufficiali, cercò di opporsi all’avanzata tedesca. In particolare, alla Spezia, gli Alpini riuscirono a impedire ai nazisti di raggiungere il porto prima che le navi italiane salpassero per Malta.
Tuttavia, in altre aree, come Firenze, Massa e Arezzo, i comandanti locali cedettero le città senza combattere. Il 12 settembre, dopo aver tentato invano di difendere Firenze, Caracciolo sciolse formalmente la sua armata e si recò a Roma, dove si unì al Fronte Militare Clandestino, un’organizzazione della Resistenza composta da ex ufficiali dell’Esercito.
Nella clandestinità, Caracciolo adottò l’identità di padre Francesco Mario Santelli e si rifugiò nel convento di San Sebastiano a Roma. Il 5 gennaio 1944, fu arrestato dalla Banda Koch, un reparto speciale di polizia della Repubblica Sociale Italiana noto per le sue brutalità. Dopo l’arresto, fu consegnato alle SS e incarcerato a Verona, Venezia e infine a Brescia. Qui, un Tribunale Speciale fascista lo condannò a morte, ma la pena fu commutata in 15 anni di reclusione in considerazione della sua condizione di mutilato di guerra.
Il 25 aprile 1945, Caracciolo fu liberato dai partigiani.
Ma è soprattutto dopo la guerra che il suo nome acquista un significato particolare: Caracciolo fu uno dei pochi militari ad avere il coraggio di denunciare una verità tanto scomoda quanto documentata. Nel 1950 pubblicò appunto il già citato scritto, intitolato “La Germania ha tradito l’Italia”, nel quale egli analizza, con tono sobrio ma inesorabile, tutte le occasioni in cui l’alleato tedesco venne meno ai patti, alle intese e persino alla logica comune dei rapporti tra eserciti alleati.
Il pamphlet non risulta essere né uno sfogo patriottico né una sorta di vendetta personale, ma è il tentativo lucido di rimettere in ordine i fatti, contro ogni retorica di comodo.
La sua testimonianza è tanto più preziosa perché arriva da dentro l’apparato militare, da un uomo che non si sottrasse alla responsabilità e che sentì il bisogno, nel dopoguerra, di raccontare ciò che vide e ciò che lucidamente comprese.
La sua figura rimane emblematica di un ufficiale che, in un momento di grande crisi, cercò di mantenere l’onore militare e di opporsi al tradimento e all’occupazione straniera.
Oggi, il suo nome è poco noto, ma chi si imbatte nel suo scritto scopre una voce limpida e coraggiosa, che aiuta a leggere la storia con occhi onesti.
4 – IL TRADIMENTO IN 13 MOSSE
“Non sono qui per portarvi opinioni vaghe, ma elementi di fatto, cifre, date, testimonianze”.
Così esordisce il generale. E in effetti, il suo pamphlet non è un’opinione militante, ma un atto d’accusa documentato.
“Io non rimpiango la vittoria dell’Asse. So bene chi fossero i carnefici e chi le vittime.
Non rimetto in discussione Shoah, deportazioni, follie totalitarie.
Ma nel breve periodo 1939-1941, se la Germania avesse rispettato i patti e non avesse sabotato sistematicamente gli interessi italiani nel Mediterraneo, la guerra avrebbe preso strade diverse prima dell’ingresso di USA e URSS.”
Ecco di seguito, schematizzati, gli argomenti addotti dal generale a riprova del “tradimento” tedesco.
1. Violazione del Patto d’Acciaio subito dopo la firma
Nel maggio del 1939, Italia e Germania firmarono il celebre Patto d’Acciaio, teoricamente un’alleanza difensiva basata su quattro punti fondamentali:
1. consultazione preventiva su ogni decisione politica o militare;
2. sostegno reciproco in caso di guerra;
3. armonizzazione dei piani bellici;
4. cooperazione economica.
Era inoltre previsto che nessuna azione militare sarebbe stata intrapresa per almeno 3-4 anni, una consultazione continua tra i due stati su ogni questione strategica, un coordinamento politico reciproco e un impegno comune contro il comunismo.
Già la sera stessa della firma, Hitler dichiarava invece a Ribbentrop che non intendeva avvisare l’Italia dei futuri passi militari.
“Il patto fu una scatola vuota. Una farsa firmata da una parte sola.”
“Già il giorno dopo la firma del Patto d’Acciaio (22 maggio 1939), Hitler riunì i suoi e dette istruzioni per l’attacco alla Polonia.
“Ciano non era ancora uscito dal territorio tedesco che Hitler già disattendeva gli accordi appena presi”.
2. Accordo con l’URSS non comunicato
Il Patto Ribbentrop-Molotov fu siglato il 23 agosto 1939.
La Germania strinse un’intesa strategica con l’URSS senza informare l’Italia, pur essendo vincolata dal Patto d’Acciaio.
Quando firmò il patto con Stalin, l’Italia fu informata “a cose fatte, mentre Ribbentrop saliva sull’aereo”.
“Eravamo alleati, ma Berlino trattava con Stalin nell’ombra.”
3. Attacco alla Polonia senza coordinamento
La Germania invase la Polonia il 1° settembre 1939.
L’Italia non fu coinvolta nei preparativi né informata tempestivamente. Mussolini fu colto di sorpresa e si rifugiò nella “non belligeranza”.
Lo stesso Ciano lo dichiarò pubblicamente alla Camera, accusando Berlino di violazione degli accordi.
“L’Italia scoprì la guerra dai giornali.”
“I piani tedeschi per attaccare la Polonia non furono condivisi, nemmeno a livello informativo. Mussolini, pur alleato, iniziò già nel ’43 a raccogliere in una cartella “gli atti di slealtà tedesca”.
4. Nessun appoggio su Malta
Caracciolo denuncia il reiterato rifiuto tedesco di concedere supporto all’attacco di Malta, nonostante l’isola fosse cruciale per i rifornimenti in Libia.
“Senza Malta, non si vince in Africa. Ma Berlino non capì mai il mare.”
Malta era sul punto di cadere. Gli stessi inglesi temevano di non poterla tenere. Poi Hitler ritirò l’appoggio aereo per inseguire il miraggio dell’Egitto.
Gibilterra era alla portata. Ma la Germania non mosse un dito”.
5. Blocco dei rifornimenti dalla Tunisia
La Tunisia, sotto controllo francese, sarebbe stata accessibile via terra per rifornire la Libia, ma la Germania si oppose a ogni proposta italiana, privilegiando i propri piani sul fronte orientale.
“Rifiutarono ogni soluzione logistica. L’Africa non era la loro guerra.”
I rifornimenti via Tunisia erano strategici, ma vennero vietati da Hitler, per non irritare i francesi di Vichy.
6. Niente condivisione di brevetti o materiali militari
La Germania non condivise nessun brevetto tecnologico (carri, radar, aerei) né forniture strategiche con l’Italia.
“Eravamo alleati, ma loro costruivano i Tiger e ci negavano perfino i disegni”, scrive Caracciolo.
“Siamo rimasti artigiani, loro erano già industria.”
7. Ritirate improvvise lasciando sguarniti gli italiani
Caracciolo segnala numerosi casi in cui truppe tedesche si ritirarono senza avvisare i comandi italiani, causando perdite gravissime, specialmente in Russia e nei Balcani.
“Vennero meno alla parola data sul campo, peggio che nei trattati.”
8. Saccheggi in Sicilia, Toscana, Sardegna
Durante le fasi di ritirata e occupazione, le truppe tedesche depredarono impunemente risorse, materiali e mezzi italiani.
“Come nemici, non avrebbero fatto peggio.”
“I tedeschi saccheggiavano le città, requisivano oro, fedi nuziali, viveri. Avevano le tasche piene di lire italiane, compravano tutto, poi spedivano in Germania. I nostri protestavano, ma…”
Sono parole che pesano come sentenze. E che danno voce a un’occupazione silenziosa, pianificata ben prima della caduta di Mussolini.
Altro che reazione all’armistizio: i tedeschi si stavano preparando a conquistarci già dalla primavera del ’43. Il piano era pronto. Gli uomini sul campo anche.
9. Presenza militare già attiva prima del 25 luglio
Prima ancora della caduta del fascismo, reparti tedeschi presidiavano snodi strategici italiani, segno che l’occupazione era premeditata.
“Quando Badoglio firmava, loro occupavano.”
10. Progetto Skorzeny per rapire il Re
L’operazione “Eiche” (settembre 1943), che liberò Mussolini, prevedeva anche il rapimento di Vittorio Emanuele III, poi abbandonato per timore della reazione internazionale.
“Il colpo al cuore dello Stato era pronto.”
11. Ingresso armato in città italiane il 26 luglio
Già all’indomani della destituzione di Mussolini, le truppe tedesche entrarono armate a Firenze, Bolzano, Trieste, ecc., senza coordinamento né invito.
“Altro che alleati: invasori in abiti tedeschi.”
12. Occupazione delle vie di comunicazione prima dell’armistizio
Strade, ferrovie e nodi logistici furono occupati prima dell’8 settembre, segno che la Germania sospettava o sapeva della trattativa segreta con gli Alleati.
“Sapevano tutto. E agivano come se fossimo già nemici.”
Le prove sono tante, precise, e spesso derivano da esperienza diretta.
“Appena a posto, i Tedeschi iniziano il solito sistema: incettano tutto quanto è nei negozi, si rifiutano di sottostare alle nostre norme annonarie perché sono ‘truppe di occupazione’. Dovetti mettere dei posti di blocco e proibire l’ingresso ai Tedeschi nella città.”
“Alla Spezia, il loro comando ci aveva dato la parola d’onore che non si sarebbero fermati. Il giorno dopo tentarono di entrare. Solo il mio ordine del 3 settembre li fermò, e così fu salvata la flotta italiana.”
13. Attacco armato all’Italia già l’8 settembre, prima dell’annuncio ufficiale
L’attacco tedesco partì contemporaneamente all’annuncio radiofonico di Badoglio. In realtà unità tedesche avevano già ricevuto l’ordine il 6 settembre.
“Loro ci attaccarono prima che noi dichiarassimo nulla. Chi ha tradito chi?”
Il generale Caracciolo, a completamento delle argomentazioni a sostegno del “tradimento”, aggiunge altre sue osservazioni e valutazioni relative ai fatti di quel periodo storico.
A questa domanda proviamo noi a rispondere nel paragrafo successivo, in forma dichiaratamente ucronica.
5 – WHAT IF… UN’ALTRA GUERRA, UN ALTRO ESITO?
Ucronia mediterranea: cosa sarebbe successo se…
All’interno dei 13 punti elencati, sono quindi riconoscibili e si possono estrapolare alcuni nuclei decisivi che – se non sabotati dalla Germania – avrebbero potuto consentire uno scenario alternativo, almeno per il breve periodo 1939–1941. Un’ipotesi, certo. Una ucronia. Ma fondata su fatti, non su fantasie.
L’ipotesi di partenza
Se la Germania avesse davvero rispettato il Patto d’Acciaio, condividendo piani e obiettivi, e se avesse dato sostegno all’Italia su:
la presa di Malta, il passaggio via terra in Tunisia, la conquista navale del Mediterraneo centrale, l’esclusione del fronte russo fino a dopo il consolidamento mediterraneo, allora l’Italia avrebbe potuto dominare il bacino centrale del Mediterraneo, garantendo rifornimenti continui in Africa, consolidamento della Libia, blocco totale alle navi inglesi da Suez a Gibilterra.
Gibilterra, appunto: Franco non avrebbe potuto negare un passaggio o un appoggio, vista l’enorme pressione politica potenziale che Hitler non esercitò mai. Come scriverà Caracciolo:
“Sui Pirenei finiva l’Asse. Per scelta tedesca.”
Una linea logica alternativa
In questo scenario, l’Italia non sarebbe entrata in guerra impreparata a fianco della Germania nel giugno 1940, ma solo dopo la caduta della Francia, e con un obiettivo chiaro: il mare.
Le risorse belliche italiane non sarebbero state disperse nei Balcani e in Russia, ma concentrate su un fronte coerente: il Mediterraneo.
Malta presa, Gibilterra appoggiata, Suez attaccata da sud con supporto tedesco: ecco l’unico Asse strategico che avrebbe potuto funzionare davvero.
Rommel? Sì, ma come parte di una strategia italiana, non come comandante di un’avanzata velleitaria fino a El Alamein senza coperture.
Hitler? Sì, ma come alleato complementare, non come dominatore incontrollabile.
Il fronte russo? Sarebbe partito più tardi, e forse non avrebbe trovato Stalin impreparato a difendere da solo tutto l’Est.
E se…
E se l’Italia non fosse stata invasa nel settembre 1943, ma avesse potuto trattare da potenza ancora padrona delle sue coste?
E se, alla resa, avesse avuto navi, porti e esercito ancora in grado di controllare il Sud?
E se, per una volta, l’Asse avesse avuto una vera coerenza strategica, almeno navale?
Non sarebbe cambiato l’esito globale della guerra, dominata dall’enorme macchina bellica di URSS e USA. Ma sarebbe cambiato il ruolo dell’Italia: non più alleato stanco e tradito, ma protagonista d’un teatro bellico coerente. E forse, proprio per questo, l’armistizio sarebbe stato un vero passaggio di campo, e non un’occupazione e una tragedia nazionale.
Questa non è nostalgia, né riabilitazione. È solo una domanda alla storia: “cosa sarebbe successo se fossimo stati trattati da alleati, e non da vassalli?”
6 – GUERRA PARALLELA
Tra i molti miti postbellici che si sono incrostati nella narrazione della guerra italiana, quello della “guerra parallela” merita una riflessione. L’idea, formulata da Mussolini e accolta poi con ambiguità anche da certa memorialistica, era semplice: l’Italia avrebbe potuto condurre una propria guerra autonoma, “parallela” a quella tedesca, nel suo spazio naturale — il Mediterraneo. Una guerra da potenza minore ma orgogliosa, con obiettivi indipendenti. Una guerra “di dignità”, come qualcuno l’ha chiamata.
Ma la verità è che non ci fu mai davvero. La Germania prese il comando sin dall’inizio, e ogni pretesa di autonomia italiana si infranse contro questa gerarchia non dichiarata ma ferrea. I tentativi italiani di “mostrare muscoli” – come l’attacco alla Grecia del 1940, condotto senza avvisare Berlino – non furono un tradimento verso la Germania, ma lo spasmo di un alleato minore e soccombente, che tentava almeno di dire: “Ci siamo anche noi”. Chi sostiene che “la disfatta italiana in Grecia costrinse Hitler a soccorrere l’alleato e quindi ritardò l’Operazione Barbarossa” falsifica i fatti.
La verità è che Hitler scelse di intervenire in Grecia per proteggere i pozzi petroliferi in Romania e assicurarsi i Balcani. Non fu una conseguenza dell’iniziativa italiana, ma una mossa strategica tedesca già prevista, che infatti si svolse con i “suoi” tempi: i soldati italiani in Grecia, lo dicono i libri di storia e il diario di mio padre, affrontarono il momento più critico dello scontro nel dicembre del 1945, quando rischiammo di finire “gettati a mare” e resistemmo solo grazie alla strenua difesa dei nostri soldati, compiuta in condizioni impossibili e al prezzo di tante morti e di tante sofferenze.
L’attacco italiano non accelerò i suoi piani: li disturbò. E la reazione tedesca fu fredda, strategica, disinteressata al destino italiano. Quando intervennero, lo fecero per interesse proprio. Non per aiutare l’alleato. Quando Hitler decise di intervenire, infatti, nell’aprile del 1941, noi avevamo avuto già migliaia di morti in più e sostenuto tutto il peso del fronte per cinque lunghi mesi compresi quelli invernali, con l’intermezzo delle battaglie contro l’esercito jugoslavo sul fronte macedone. Le truppe greche, dal canto loro, avevano gettato quasi tutte le loro forze per opporsi all’invasione e al nostro contrattacco di marzo e quando i tedeschi arrivarono dall’altra parte, prima di provare a girarsi dall’altra parte, si opposero strenuamente al nostro inseguimento, compiuto con ulteriore spargimento di sangue (avanzammo a fondo valle con i greci che ci massacravano dai monti, fu in questa fase che trovò la morte il comandante del reggimento di mio padre, punta più avanzata dello schieramento italiano al momento dell’armistizio).
Insomma, non furono gli errori italiani a far perdere la guerra alla Germania, ma la presunzione tedesca di poterne fare a meno peggiorarono di non poco la situazione.
M sarebbe stata davvero possibile una “guerra parallela”?
Immaginiamo la scena come un tavolo. Da una parte, un uomo grosso, armato, deciso, con i suoi piani già pronti. Dall’altra, uno più piccolo, incerto, che cerca spazio e riconoscimento, ma non ha né forza né libertà d’azione. Finché si sta seduti, si può parlare, anche trattare. Ma quando ci si alza per affrontarsi o per colpire un terzo, è il più forte a decidere dove e come. L’altro può solo seguire o, nella peggiore delle ipotesi, provare a farsi notare.
Questo fece l’Italia. E la Grecia fu il caso più emblematico.
Quando Mussolini diede il via all’operazione contro la Grecia il 28 ottobre 1940, lo fece senza avvertire Hitler. Un’iniziativa autonoma, certo. Ma non per sfidare Berlino: piuttosto, per mostrare all’alleato tedesco che anche l’Italia poteva “fare la sua parte”. Fu una mossa maldestra, mal preparata e mal condotta. Ma non fu un tradimento. Fu il gesto di chi avverte di non contare nulla e tenta disperatamente di farsi notare.
La guerra parallela, dunque, non ci fu mai. Ci furono operazioni italiane slegate da una visione complessiva: la campagna in Africa orientale: isolata, condannata sin dall’inizio; l’attacco alla Francia già in ginocchio, simbolico e mal digerito; l’occupazione di territori balcanici, poi in gran parte ceduti alla Germania.
Il Mediterraneo, che avrebbe dovuto essere il “mare nostrum”, divenne un cimitero di illusioni navali. I tedeschi non aiutarono a prenderne il controllo: anzi, lo sottovalutarono sistematicamente. L’Italia voleva la guerra parallela, ma la Germania non l’ha mai autorizzata.
Chiosa il generale Caracciolo: “La guerra fu una sola. Ma le intenzioni furono due, e le conseguenze tutte per una sola parte.”
7 – TRADITORI E TRADITI
Mio padre, soldato e bersagliere, ubbidiente, leale, sergente decorato per il coraggio dimostrato sul campo di battaglia, combatté su tre fronti, prima di finire sotto le mitragliate degli Stuka a Sebenico, in attesa del rimpatrio, e poi nei campi di prigionia come IMI (Internato Militare Italiano), per aver detto ripetuti NO alla Repubblica Sociale.
Eppure, al ritorno, dovette sentirsi dire che aveva “fatto la guerra sbagliata”, che si era “arreso”, che, mentre “qui i partigiani liberavano l’Italia”, lui stava altrove, sconfitto e magari pure sospettato di collaborazione. Il silenzio lo avvolse: non quello dei colpevoli, ma quello degli umiliati, dei dimenticati.
Io oggi voglio quindi parlare anche per lui. Perché, se a tradire prima e dopo l’8 settembre 1943, fu la Germania nazista, con una lunga serie di atti premeditati e sprezzanti, dunque anche lui fu vittima di quel tradimento. Come avvenne per migliaia di altri soldati, questo tradimento si sommò a quello già perpetrato ai suoi danni dal fascismo, che lo aveva mandato all’inferno del fuoco, della fame e del gelo nell’illusione di una vittoria senza ideali e frutto di sfrenata ambizione. Ma non fu l’ultimo dei tradimenti: dopo la catastrofe ci fu quello postbellico, quello di chi ha voluto cancellare quella parte di storia.
Anche per questo ho cercato e letto con passione, le pagine ingiallite del fascicolo del generale Mario Caracciolo, in cui, con parole precise e fatti alla mano, rovescia la retorica del tradimento italiano e dimostra che fu viceversa la Germania a tradire noi. Anche per lui, per la sua memoria e per quella di altri seicentomila soldati e dei loro familiari, voglio denunciare il primo “tradimento”, quello originario, quello tedesco ai nostri danni: perché, se ci fu quello, si estingue di conseguenza anche l’accusa del secondo, quello dei soldati che dissero NO, si vanifica anche nella sua parte più residuale e nascosta, eventualmente ancora presente oggi e possibile, anche dopo i recenti studi e i troppo tardivi riconoscimenti, che poterono giungere solo a figli e nipoti.
Non solo, ma se a questo punto, ribaltate le responsabilità del “tradimento”, il rifiuto e la resistenza degli IMI, assumono una valenza ancora più ideale e patriottica: non traditori (e come tali trattati nei lager), ma traditi che si ribellarono ai traditori.
L’enfasi riservata da me verso aspetto, in assoluto secondario al tema generale dell’articolo, nasce dal mio tentativo di unire questa voce dimenticata, di mio padre e di tutti gli IMI, a quella della Storia, per restituire un po’ di giustizia e chiarezza a chi ha pagato, con la carne e con lo spirito un prezzo troppo grande, soprattutto se correlato ad obiettivi abietti e illusori.
8 – IL VALOR MILITARE E LA LINEA ROSSA
Abbandonata la trattazione del tema principale di questo articolo quello del “tradimento” ribaltato e prima della conclusione, devo fare una precisazione, che, per non essere fin qui frainteso, avrei magari dovuto fare in premessa… Perché parlare di guerra, di militari, di valori può sembrare vagamente guerrafondaio…
Io invece ho voluto e voglio continuare a parlarne, pur con tutti chiarimenti e i distinguo necessari, riconoscendo a tutti i combattenti, compreso mio padre che lo fu in prima linea, un valore militare che, a mio modesto avviso, è un qualcosa di positivo, se inteso non in senso bellicista o militarista, ma, secondo definizione, declinato l’insieme di principi e comportamenti che guidano i militari. Le ricompense al valore militare ne sono poi il riconoscimento pubblico e ufficiale da parte dello Stato, anche quando questo, diventato democratico e repubblicano, ha ripudiato il precedente regime totalitario, nazionalista e, appunto, guerrafondaio. Ne è la dimostrazione, effettiva e di principio, il fatto che ci sono stati militari, anche generali, che sono stati decorati con medaglia d’oro prima dell’8 settembre, nell’ambito di una guerra d’aggressione, e, dopo l’armistizio, nell’ambito di un’antitetica guerra di liberazione, contro nuovi nemici invasori e stati-fantoccio al loro servizio.
Il valor militare, insomma, declinato dai soldati anche fino all’eroismo, si può benissimo intendere, accettare e riconoscere anche nella sua accezione di sommatoria di principi civici da parte di persone che hanno indossato con obbedienza e fiducia un’uniforme con le stellette e che quindi hanno avuto uno status particolare all’interno dell’ordinamento pubblico, democratico o non democratico che fosse. Ma, al di là del concetto stesso e strettamente legato al tema centrale di ciò che stiamo parlando, mi preme molto puntualizzare che, se l’8 settembre è stato uno spartiacque tra il prima e il dopo del Paese, una buona parte che di esso che ne ha mantenuto la continuità va trovata nelle forze armate, che hanno proseguito, con gli stessi uomini rimasti disponibili e con le stesse divise e stellette, la lotta per la liberazione, assieme a tutte le altre componenti, nelle rispettive funzioni e possibilità: alleati grandi e meno grandi, partigiani, IMI e così via.
All’interno della “precisazione” sin qui esposta e in tema di valor militare mi preme aggiungere una delle tante riflessioni emerse nel corso della trascrizione e nella pubblicazione dei diari di mio papà, una particolare e fondamentale per orientare la mente e la coscienza. Più che una riflessione, una domanda che ad un certo momento si pone chi ha avuto un padre reduce da quella guerra in cui ci si chiede: ma da che parte stava davvero?
Per chiarire meglio il concetto e mettere dei paletti, occorre definire bene lo spartiacque, lo scollinamento, il confine posto su un campo di battaglia che spazia dagli atti di valore ai crimini di guerra: per me in mezzo non c’è molto, un cuscinetto consistente, una terra di nessuno nella quale potersi un poco muovere. C’è solo una sottile linea rossa entro la quale ci stanno i comportamenti “senza macchia e senza paura” (fino all’eroismo), nel senso che non essi hanno mai dato spazio, né sotto l’aspetto morale, né sotto l’aspetto penale, a possibili segnalazioni o reazioni: Oltre quella linea, invece, ci sono i delitti contro l’umanità, contro la morale: i crimini di guerra, appunto.
Nel diario di mio padre, nel suo linguaggio semplificato da tre anni di orrore, sangue, fatica e paura, tale sottile confine è descritto benissimo il 29 agosto 1942. Siamo nel pieno dell’Operazione Albia (ben nascosta alla pubblica conoscenza italiana, se per trovarne notizie ho dovuto attingere a fonti croate) e il papà, dopo giorni di fame, sete, fatica e spari, giunge verso sera in un paese e racconta: «I cetnici che rompono tutto, le capre bruciate, a un croato han tagliato il collo, le donne tutte a piangere». Un suo commilitone sintetizza: «Alle sera arriviamo al paese delle teste tagliate». Certo, qualcuno molto più in alto, aveva scelto male certi alleati cui affidare il lavoro sporco: ma la linea rossa bisogna tirarla e al reparto di mio padre (battaglione o reggimento) nulla fu mai imputato. Ad altri livelli sì, vertici compresi, i crimini ci furono, ma, per rimanere in Jugoslavia, le domande di estradizione non furono mai assecondate, nell’ambito della “rimozione collettiva” che impedì, sotto tutti gli aspetti, di metabolizzare il passato e poterci convivere razionalmente.
Aggiungerei anche, alla fine di questa forse troppo ampia “precisazione”, che questi aspetti, collocati poi all’interno della difficile situazione post armistizio, hanno assunto una profonda e dicotomica valenza, nonché un’ulteriore e rilevante lettura: non solo eccessi nel compimento di atti di guerra, ma anche e soprattutto contrapposizione micidiale tra chi scelse la lotta all’invasore e chi vi collaborò.
Tornando a mio padre, ne è stato esempio il “NO” ribadito tre volte e per iscritto ai tedeschi e ai generali italiani imbelli che ad essi si erano consegnati, da lui, dal suo comandante e da quello che era rimasto del suo reggimento, al netto di qualcuno che forse, nella fattispecie, ma non ne ho trovato traccia nelle testimonianze, varcò quella sottile linea rossa che divide i buoni dai cattivi, gli eroi dai criminali.
Testimonianza sostanziale e simbolica, in linea con tale esempio individuale, è la sorte dei due comandanti di reggimento (4° bersaglieri) che mio padre ha avuto nella sua esperienza militare: i colonnelli Scognamiglio e Verdi.
• Colonnello Guglielmo Scognamiglio, caduto il 21 aprile 1941 a Coriza, in Albania, durante la campagna greco-albanese. Fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria per il suo eroismo. La sua morte avvenne mentre guidava un attacco decisivo contro posizioni greche fortemente difese, nel tentativo di ottenere un vantaggio strategico prima dell’armistizio.
• Colonnello Ugo Verdi, ucciso dai tedeschi nel massacro di Treglia nel 1943 per essersi opposto, dopo l’armistizio dell’8 settembre, all’aggressione tedesca, al comando di un gruppo di bersaglieri. Il massacro di Treglia vide l’esecuzione di numerosi ufficiali italiani da parte delle SS.
So di far torto a tutti gli altri che non sopravvissero alla vendetta tedesca, ma furono tanti, i più dimenticati: aggiungo ancora un altro ufficiale vicino a mio padre, il capitano Giuseppe Conti, comandante dell’ottava compagnia del 29° battaglione. In Croazia, dopo l’8 settembre 1943, rinunciò al rimpatrio per rimanere con i bersaglieri che ce la fecero a partire, pur conoscendo i rischi in cui sarebbe incorso. Venne infatti catturato dai nazisti e fucilato a Spalato il 25 settembre 1943. Gli fu concessa la medaglia d’argento al valore militare alla memoria. A Giuseppe Conti è intitolata una strada di Asti, sua città natale. Il resto del battaglione rientrò fortunosamente in Italia sfuggendo ai tedeschi e, riorganizzato, continuò a combattere il nuovo nemico nella guerra di Liberazione.
Drammaticamente emblematica del nostro discorso fu anche la sorte, di segno opposto, però, tra i comandanti di due diverse divisioni alle dipendenze delle quali il 4° reggimento si trovò ad operare tra il 1942 e il 1943 in Croazia: il generale Giuseppe Amico, comandante della divisone Marche e il generale Pirzio Biroli, comandante della divisione “Cacciatori delle Alpi”. Il primo è stato decorato con medaglia d’oro per essersi rifiutato di consegnare le armi ai tedeschi il 13 settembre 1943 a Slano, mentre il secondo è stato inserito nella lista dei soggetti ricercati dalla Commissione delle Nazioni Unite sui crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il fatto che l’esercito italiano nel suo insieme, o alcune delle sue grandi unità, siano oggi accusati di crimini, non significa automaticamente che ogni suo appartenente ne sia responsabile. La responsabilità, come riconosciuto anche dal diritto internazionale, è personale, e va stabilita a livello di reparto e di comando operativo. Il mio intento, in questo articolo, è proprio quello di invitare il lettore, a distinguere, con cura e onestà, il comportamento valoroso dal crimine, l’obbedienza dallo zelo barbarico, il dovere dal fanatismo.
Ciò per contrastare il facile, ma non valido, seguente sillogismo: poiché l’unità X ha commesso crimini e il soldato Y faceva parte dell’unità X, si conclude che soldato Y ha commesso crimini. Questa non è una deduzione valida, e anzi è proprio quel tipo di fallacia logica che la storiografia seria rifiuta. La cesura corretta, anche storiograficamente, sta nel livello di responsabilità operativa e il principio è quello già usato nei processi di Norimberga e nei successivi casi di estradizione o archiviazione:
la responsabilità di crimini di guerra è personale, non strutturale, valutando il livello della catena di comando (divisione, brigata, reggimento, compagnia…) e, in assenza di prove di coinvolgimento diretto, non si può estendere la colpa dal tutto alla parte.
Il 4° Reggimento Bersaglieri, non risulta tra i reparti direttamente implicati in crimini (da quanto hai scritto e da quanto si trova nella letteratura storica). Il diario di mio padre documenta comportamenti corretti, persino di rifiuto o distanza rispetto agli eccessi di altri (cetnici e ustascia). Il racconto di un episodio relativo all’Operazione Albia è prezioso proprio perché mostra la presenza di violenza attorno, ma l’assenza di colpa propria.
9 – UNA FOTOGRAFIA
A conferma di quel cortocircuito storico ed emotivo che attraversò l’Italia in quegli anni, tra le foto lasciatemi da mio padre, ho trovato anche quella di un giovane partigiano, Carini Carlo. Non so quanto a fondo si conoscessero davvero: mio padre era di otto anni più anziano, forse amico del padre o della famiglia, o semplicemente legato dal comune paese d’origine, Stradella. Sta di fatto che, insieme alle sue fotografie da soldato e ai suoi ricordi da Internato Militare Italiano, mio padre ha conservato con cura quell’immagine.
Carini Carlo era un operaio, un caposquadra della Brigata Matteotti, Divisione Dario Barni, caduto a vent’anni a Montecalvo Versiggia il 1° gennaio 1945. Morì mentre cercava di salvare un compagno ferito, colpito e poi passato per le armi dalla Sicherheits, di cui tanto mi parlarono con terrore mia madre e mia nonna.
Gli è stata concessa la Medaglia al Valor Militare alla memoria, e a Stradella oggi porta il suo nome una via.
Mio padre su un fronte, Carlo su un altro. Uno nell’uniforme dell’esercito regolare, fedele alle istituzioni; l’altro nella lotta partigiana per la libertà. Due percorsi diversi, ma ugualmente limpidi, che si ritrovano oggi — almeno in questa pagina — nel ricordo di chi cerca di ridare voce a entrambi.
10 – CONCLUSIONE
Dal 25 aprile, attraverso il sangue sui monti italiani e su quelli stranieri, al silenzio degli internati, questa storia ci chiede oggi una cosa sola: non più retorica, ma giustizia per la verità, arricchita da nuovi punti di vista. Una verità che non assolve, ma distingue. Che non nega la responsabilità del regime fascista, ma che ricorda — documenti alla mano — chi tradì chi, e quando.
Non per riscrivere la storia, ma per rileggerla con strumenti nuovi, liberi da slogan.
Perché la memoria non serve se non si trasforma in coscienza. E la coscienza non si conquista se non si è disposti, almeno ogni tanto, a rimettere tutto in discussione. Anche ciò che anche noi credevamo già scritto per sempre.
Buon 25 aprile, a tutti, anche per tutto l’anno che seguirà! Durante il quale, intanto, andremo sempre alla ricerca di storie dimenticate, memorie negate e verità in ombra.