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Si parva licet componere magnis
Un'infanzia tra rotaie, officine e scorci di Milano scomparsa
RICORDI BINARI
Memorie ferroviarie degli anni ’50, raccontate con gli occhi di un bambino e spiegate con la voce dell’adulto
Da bambino abitavo nella zona tra Rogoredo, Morsenchio e Taliedo, in una casa annessa ad un’officina ove si riparavano carri e cisterne ferroviarie, i binari della quale erano collegati alla rete ferroviaria tramite lo scalo di Rogoredo. Per me, camminare tra i binari, “sempre in sicurezza” diremmo oggi, o aggredire il contrappeso di un macaco erano la normalità. Anche fuori dall’ambito “domestico”, per andare da qualche amico dei miei, per andare a scuola, per prendere il tram, per vedere una partita in un campo lì vicino, i binari erano parte del cammino, sia come percorso alternativo, che si prestava al divertimento di saltare tra una traversina e l’altra o a quello di fare l’equilibrista sulle rotaie, sia come attraversamento illegale, ma utile, per accorciare il percorso stradale.
Tra i miei ricordi c’è quindi uno spaccato prezioso della Milano ferroviaria degli anni ‘50, quando la città era ancora fortemente e intimamente permeata da una rete capillare di binari, non solo per il traffico passeggeri, ma soprattutto per la logistica e l’industria.
Il titolo Ricordi Binari nasce da un gioco di parole tanto semplice quanto denso di significato. Il primo significato è letterale: i binari ferroviari, protagonisti silenziosi dell’infanzia di chi è cresciuto vicino a uno scalo, tra officine, manovre e convogli merci. Ma “binari” è anche un aggettivo che rivela la struttura duplice del racconto: ogni capitolo, dopo la parte introduttiva, si sdoppia, come due binari che procedono affiancati verso la stessa direzione.
Da un lato, c’è il ricordo personale: vivido, intimo, narrato con gli occhi e le parole del bambino che fui. È un racconto soggettivo, spesso poetico, che restituisce l’atmosfera di un tempo perduto, fatto di nebbia, ferraglia, scintille e piccoli riti quotidiani. Dall’altro lato, subito dopo, c’è la spiegazione tecnica, una sorta di “binario parallelo” che chiarisce cosa stavo osservando davvero, in termini ferroviari, meccanici o operativi. Come se il bambino e l’adulto si parlassero: l’uno ricorda, l’altro spiega.
Questa struttura “a doppio binario” non è solo un espediente narrativo, ma un modo per unire emozione e conoscenza, stupore e comprensione. In fondo, anche i treni procedono su due rotaie: non potrebbero avanzare altrimenti. Così, in questo viaggio a ritroso, ho lasciato che l’incanto infantile corresse di fianco alla lucidità dell’adulto. E ne è nata una memoria fatta non solo di immagini, ma anche di significati.
Ogni capitolo è un piccolo scambio ferroviario: parte da una memoria, devia verso una riflessione, e si ricollega sempre all’infanzia come stazione di partenza.
Negli anni ‘50, Milano era attraversata da molte ferrovie di cintura e raccordi industriali, che non erano ancora stati interrati o sopraelevati. Le periferie erano ricche di scali e binari merci, spesso privi di barriere strutturate, con sentieri e scorciatoie usati dagli abitanti.
Ecco alcuni esempi di quanto la ferrovia fosse presente e compenetrata nella Milano di allora:
La struttura della rete ferroviaria di Milano potrebbe essere per quel periodo così schematizzata:
Complessivamente, la rete ferroviaria urbana di Milano negli anni ‘50 potrebbe aver superato i 50 km di binari a raso, tra linee principali, scali e raccordi. La progressiva eliminazione dei passaggi a livello e l’interramento o sopraelevazione di alcune tratte ha ridotto notevolmente questo numero negli anni successivi.
Quella rete ferroviaria così articolata includeva binari diverse stazioni passeggeri e scali merci che servivano il traffico urbano, regionale e industriale. Ecco un quadro delle principali infrastrutture ferroviarie dell’epoca:
1. Stazioni passeggeri principali
Milano Centrale – La stazione principale, inaugurata nel 1931, serviva (e serve tuttora) il traffico a lunga percorrenza nazionale e internazionale, oltre a treni locali e regionali.
Milano Porta Garibaldi – All’epoca era ancora una stazione secondaria (denominata Milano Porta Nuova), utilizzata per il traffico merci. Verrà ampliata e trasformata in nodo passeggeri negli anni ’60.
Milano Cadorna – Il capolinea della rete delle Ferrovie Nord Milano (FNM), con treni diretti verso la Brianza, Como e Varese.
Milano Lambrate – Importante stazione passeggeri e di interscambio, con funzioni anche di smistamento merci e movimento ferroviario per la zona est della città.
Milano Rogoredo – Negli anni ‘50 era più un punto di passaggio e uno scalo merci, ma già importante per i collegamenti con la linea per Bologna.
Milano San Cristoforo – Stazione minore ma attiva per il traffico suburbano e merci sulla direttrice sud-ovest verso Mortara e Alessandria.
Milano Greco Pirelli – Stazione passeggeri per i lavoratori della zona industriale di Sesto San Giovanni e nodo ferroviario importante.
Milano Porta Romana – Piccola stazione passeggeri utilizzata anche per alcuni servizi ferroviari secondari.
Milano Bovisa – Nodo cruciale per le Ferrovie Nord Milano, con traffico passeggeri e attività di deposito-officina.
2. Scali merci e impianti ferroviari industriali
Milano Smistamento – Il più grande impianto ferroviario della città e uno dei maggiori d’Italia, situato tra Segrate e il confine orientale di Milano. Funzionava come hub principale per la formazione e la suddivisione dei convogli merci.
Milano Porta Romana Scalo – Uno scalo merci a servizio della zona sud, collegato a industrie e stabilimenti della periferia sud-est.
Milano Farini – Importante scalo merci in zona nord-ovest, in attività fino agli anni ’80.
Milano Porta Genova Scalo – Funzionava come stazione e scalo merci a servizio della parte sud-ovest della città.
Milano Certosa Scalo – Serviva le attività industriali della zona nord-occidentale della città.
Milano Rogoredo Scalo – A fianco della stazione passeggeri, era un impianto dedicato alle merci e ai movimenti ferroviari industriali.
Milano Lambrate Scalo – Collegato alla stazione di Lambrate, gestiva il traffico merci dell’area orientale.
Milano Sempione – Piccolo scalo merci connesso alla zona industriale nord.
Milano San Cristoforo Scalo – Serviva il traffico merci della periferia sud-ovest, con raccordi industriali.
Milano Bovisa Scalo – Serviva sia il traffico merci che il trasporto dei materiali ferroviari per le Officine della Bovisa.
3. Altri punti ferroviari e raccordi industriali
Raccordo Caproni (Taliedo) – Collegava lo scalo di Rogoredo con lo stabilimento aeronautico Caproni.
Raccordi Breda e Falck (Sesto San Giovanni) – Servivano le acciaierie e le fabbriche metallurgiche.
Raccordo Pirelli (Bicocca) – Connesso con la fabbrica Pirelli e altre industrie chimiche della zona.
Raccordo Innocenti (Lambrate) – Collegava le Officine Innocenti, produttrici di Lambrette e altri veicoli.
Raccordo OM (Ortles – Porta Romana) – Serviva la fabbrica OM (Officine Meccaniche) per il trasporto di veicoli industriali.
Una rete ferroviaria così capillare e diffusa prevedeva necessariamente, a quei tempi, numerosi attraversamenti a raso che incrociavano le strade e i campi di periferia.
La zona Rogoredo – Morsenchio – Taliedo era un vero snodo ferroviario industriale, con un intreccio di linee, raccordi e scali. La mia esperienza diretta nei passaggi a livello della zona sud-est racconta un aspetto affascinante: Milano non era solo una città di stazioni e treni passeggeri, ma anche di binari operativi, dove le industrie e gli stabilimenti erano serviti da un sistema ferroviario capillare, quasi “artigianale” nella sua gestione. E li avevi sempre tra i piedi…
La mia mappa ferroviaria personale (uscendo da casa) prevedeva:
Oltre ai raccordi principali e agli scali di Porta Romana e Rogoredo, nella zona ove abitavo c’erano molti stabilimenti che avevano binari industriali diretti, alcuni dei quali con connessioni attive fino agli anni ’80. Un elenco esemplificativo e non esaustivo può includere:
[1] A SUD DELLO SCALO DI PORTA ROMANA – A cura di Stefania Aleni – Ed. Quattro – STORIE INDUSTRIALI. Passato e presente nel Sud Est di Milano – a cura di Stefania Aleni e Vito Redaelli – Ed. Quattro –
Negli anni ‘50-‘60, il traffico ferroviario urbano non era completamente separato dalla viabilità cittadina. I passaggi a livello erano frequenti, e le modalità di attraversamento variavano a seconda dell’importanza della linea:
Il passaggio a livello di Via Bonfadini che ricordi era un esempio classico della gestione ferroviaria di quegli anni, con un casellante che:
Era un’abitudine comune tra i ragazzi e gli appassionati di treni fermarsi ai passaggi a livello per vedere sfrecciare i convogli. I treni rapidi che osservavi dal passaggio a livello di Via Bonfadini erano probabilmente:
Oggi tutto questo non esiste più: i raccordi industriali sono stati quasi completamente smantellati, i passaggi a livello eliminati e la rete ferroviaria è stata interamente separata dal traffico urbano. Ma il tuo racconto riporta alla luce un’epoca in cui le ferrovie erano parte integrante della vita quotidiana della città.
Negli anni ‘50, attraversare i binari era parte della vita quotidiana, specialmente nelle periferie e nelle zone industriali. Era comune:
Questo comportamento era rischioso, ma diffuso, tanto che le Ferrovie dello Stato tentarono più volte di sensibilizzare la popolazione con campagne di sicurezza. Tuttavia, la conformazione stessa della città e la necessità di muoversi rapidamente favorivano queste pratiche.
Capitolo 1: Le parole che evaporano
Avevo imparato a leggere e scrivere prima ancora di mettere piede a scuola. Il mio primo alfabeto non era stampato sui libri, ma inciso sulle fiancate dei carri merci che sostavano nell’officina ferroviaria accanto a casa mia. Trascorrevo le giornate tra il suono metallico degli attrezzi e l’odore acre della vernice, osservando gli operai che con pennelli e stampi dipingevano numeri, lettere e parole. FS era la sigla onnipresente, ma c’erano anche misteriosi codici e scritte solenni: RIV, Portata massima, Vietata la manovra a spinta. Mi facevo leggere quelle parole, le ripetevo a memoria e poi correvo a riprodurle su un pavimento di cemento bocciardato liscio, in un angolo del piazzale. Usavo un pezzetto di gesso o un frammento di mattone, ma il mio inchiostro era l’acqua, e le lettere evaporavano da sinistra prima che potessi completarle. Il senso di frustrazione e meraviglia si mescolava: imparavo un linguaggio che sembrava riservato agli adulti, ma le mie parole si dissolvevano sotto i miei occhi.
Per saperne di più
Le scritte sui carri ferroviari non erano semplici etichette, ma un vero e proprio codice regolamentare. Ogni carro doveva riportare l’immatricolazione (numero univoco e sigla della compagnia, come FS per Ferrovie dello Stato), la data dell’ultima revisione (RIV per i carri ammessi alla rete internazionale), la portata e il peso massimo. I carri speciali, come quelli con freni particolari o destinati a carichi delicati, avevano scritte aggiuntive. Le scritte potevano essere dipinte a mano, con caratteri standardizzati, oppure applicate tramite stencil di cartone resistente.
Le scritte sui carri ferroviari erano (e sono tuttora) essenziali per identificare le caratteristiche tecniche e operative di ogni veicolo. Riepilogo qui tutti gli elementi che, per regolamento e prassi, dovevano o potevano essere riportati sui carri e sui carri-cisterna.
Sigla della compagnia ferroviaria
FS (Ferrovie dello Stato) in Italia, SNCF in Francia, DB in Germania, ecc.
Era il marchio principale per identificare la proprietà del carro.
Numero di immatricolazione del carro
Un codice numerico unico assegnato a ogni carro ferroviario, utile per la registrazione e la gestione operativa.
Negli anni ‘50 e ‘60 il numero era più semplice rispetto agli attuali codici UIC (Uniforme Internazionale).
Sigla e data di revisione (RIV)
RIV (Regolamento Internazionale dei Veicoli) indicava che il carro poteva circolare su più reti ferroviarie europee.
Seguiva la data dell’ultima revisione (es. RIV 2.1954 Milano Smistamento), indicando il mese e l’anno della visita tecnica.
Massa e portata
Tara: il peso del carro vuoto (in tonnellate).
Portata: il massimo carico ammesso.
Peso totale massimo: la somma di tara + portata.
Tipo di carro e uso
Sigle come:
G: carri chiusi per merci generiche.
E: carri aperti per materiali sfusi.
R: pianali per trasporti pesanti.
F: carri a sponde basse per materiali ingombranti.
Z: carri refrigerati.
S: carri speciali (ad esempio per automezzi).
U: carri con usi particolari.
Dati relativi ai freni
Freno a mano: indicava se il carro disponeva di freno manuale
Freno continuo: specificava se il carro era attrezzato con freni pneumatici.
Tipo di freno: Westinghouse (pneumatico) o altri.
Pressione massima d’esercizio del freno: espressa in bar.
“Vietata la manovra a spinta”
Scritta presente su carri con carichi delicati o instabili, per evitare che venissero spostati con urti violenti.
Indicazioni di uso speciale
“Attenzione: veicolo ad assetto variabile” (se presente un sistema di regolazione del carico).
“Scarico da questa parte”, utile per carri con portelloni o bocche di scarico su un solo lato.
“Solo per il trasporto di…” specificava il tipo di merci per cui era omologato
Elementi Specifici per i Carri-Cisterna
Codice del proprietario e della società di gestione (se privato, poteva essere diverso da FS).
Scritta “Solo per il trasporto di…” seguita dalla sostanza trasportata: spesso, per affinità aziendale, era presente la dicitura “Trasporto vini”.
Capacità della cisterna, in litri o metri cubi.
Peso massimo ammissibile a pieno carico.
Numero ONU della sostanza pericolosa, se trasportava liquidi infiammabili o chimici.
Presenza o assenza di riscaldamento (es. “Cisterna riscaldabile a vapore” per prodotti viscosi).
Valvola di sicurezza e pressione di esercizio, se necessaria.
Quelle scritte che da bambino mi affascinavano tanto erano in realtà un vero e proprio linguaggio tecnico ferroviario, necessario per garantire il funzionamento e la sicurezza del trasporto ferroviario.
Le scritte fatte a mano erano tipiche delle officine di manutenzione, dove alcune indicazioni venivano ancora dipinte artigianalmente.
Gli stampi in cartone resistente servivano per le sigle standardizzate (come “FS” o “RIV”).
L’esperienza di imparare a leggere e scrivere tra i carri ferroviari è stata per ma una testimonianza meravigliosa di come il mondo reale, con i suoi segni e simboli, possa diventare una scuola speciale per la vita.
Oggi, queste informazioni sono digitalizzate e integrate nei sistemi informatici ferroviari.
Capitolo 2: Scoppi nella nebbia
Milano, inverno. La nebbia si insinuava ovunque, inghiottendo i contorni delle cose e attutendo i rumori. Ma c’era un suono che squarciava il silenzio all’improvviso, facendomi sobbalzare: un’esplosione secca, come un colpo di fucile. Mi aggrappavo alla mano di mio zio, che lavorava nello scalo ferroviario di Rogoredo, e lo guardavo con occhi interrogativi. Lui sorrideva sotto il berretto, accennando alla rotaia. “Petardi ferroviari,” spiegava. “Avvisano il macchinista che deve rallentare.” La prima volta che li sentii, credetti che i binari stessi stessero scoppiando sotto il peso dei treni. Con il tempo imparai ad aspettare quei suoni, a prevederli, come un segnale invisibile nel paesaggio ovattato della nebbia.
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I petardi ferroviari, o segnali detonanti, erano piccoli dispositivi esplosivi fissati sulle rotaie per avvisare i macchinisti di situazioni particolari, come nebbia fitta o rallentamenti improvvisi. Quando il treno passava sopra, il petardo esplodeva con un forte rumore, segnalando un pericolo o un obbligo di riduzione della velocità. Oggi, questi segnali sonori sono stati in gran parte sostituiti da comunicazioni via radio e segnali luminosi ad alta visibilità.
Capitolo 3: Guardare a destra
Attraversare i binari non era un gesto sconsiderato, ma una pratica quotidiana, quasi un rituale. Mi avevano insegnato una regola precisa: prima guardi a destra, poi a sinistra. Le automobili viaggiavano a destra, ma i treni no: correvano sulla sinistra, e questo significava che un bambino doveva imparare a distinguere due logiche opposte per attraversare in sicurezza. In periferia, e nei grandi scali come Rogoredo, gli attraversamenti a raso erano frequenti e le scorciatoie tra i binari erano vie abituali per chiunque. Ricordo persone che passavano sotto le sbarre se il treno non era ancora visibile, operai che attraversavano con disinvoltura, intere famiglie che si muovevano tra binari industriali e raccordi merci come fosse un normale marciapiede.
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Le ferrovie italiane seguono la regola del senso di marcia a sinistra, ereditata dal modello francese e britannico. Questo significa che, su una linea a doppio binario, un treno viaggia sul binario di sinistra, al contrario delle automobili. Negli anni ‘50, la presenza diffusa di passaggi a livello e l’assenza di sottopassi o sovrappassi facevano sì che l’attraversamento ferroviario fosse una pratica comune, sebbene rischiosa. Oggi, con la soppressione dei passaggi a livello e la messa in sicurezza delle linee, il contatto diretto tra pedoni e binari è stato quasi del tutto eliminato.
Capitolo 4 – Bandiera rossa
Ero affascinato dai casellanti, figure che sembravano appartenere a un altro tempo. Stazionavano nei piccoli edifici ai lati dei binari, con la loro divisa scura e l’aria solenne. Quando un treno si avvicinava, il casellante usciva con una bandiera rossa arrotolata e si fermava accanto ai binari. Rimaneva immobile mentre il treno passava, scrutandolo attentamente. Poi, senza fretta, rientrava nel casello. Se le sbarre erano manovrate a mano, le alzava lentamente con la manovella, ristabilendo il passaggio per le automobili e i pedoni. C’era qualcosa di rituale, quasi liturgico, in quel gesto ripetuto mille volte al giorno.
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I casellanti erano addetti ai passaggi a livello manuali e seguivano una procedura rigorosa. Al passaggio di un treno, uscivano con una bandiera rossa (di giorno) o una lanterna rossa (di notte) per segnalare la chiusura del passaggio e controllare eventuali anomalie nel convoglio. Se il treno avesse presentato problemi, la bandiera sarebbe stata sventolata per avvisare il macchinista. Dopo il transito, il casellante rientrava e riapriva il passaggio. Con la progressiva automazione dei passaggi a livello, questa figura è oggi quasi scomparsa, sostituita da sistemi elettronici e telecamere.
Negli anni ‘50 e ‘60 (e in alcune zone fino agli anni ‘80), molti passaggi a livello erano gestiti manualmente da un casellante, che seguiva un protocollo rigido per garantire la sicurezza del transito ferroviario e stradale. Le fasi del processo erano:
Avvistamento del treno e chiusura delle sbarre
Il casellante riceveva il segnale di “treno in arrivo” (via telefono, telegrafo, o avvistandolo).
Scendeva dal casello e abbassava le sbarre manualmente con una manovella o un meccanismo a bilanciere.
Uscita con la bandiera rossa
Dopo aver chiuso le sbarre, il casellante usciva dal casello con una bandiera rossa arrotolata (di giorno) o una lanterna a luce rossa (di notte).
Si posizionava accanto ai binari o sulla piattaforma del passaggio a livello.
Controllo del treno in transito
Mentre il treno passava, il casellante osservava attentamente il convoglio per verificare che fosse integro, cioè senza anomalie visibili (carri aperti, porte non chiuse, incendi, fumi anomali, carichi sbilanciati, problemi alle ruote).
Se tutto era regolare, non sventolava la bandiera.
Se notava problemi, invece, sventolava la bandiera rossa aperta o accendeva la lanterna, segnalando così al macchinista la necessità di fermarsi.
Rientro nel casello e apertura delle sbarre
Dopo il passaggio completo del treno, il casellante attendeva alcuni secondi per assicurarsi che non ci fossero altri convogli in arrivo (soprattutto sui binari a doppio senso).
Rientrava nel casello e alzava le sbarre manualmente, ripristinando il passaggio stradale.
Poi tornava al suo posto all’interno del casello fino all’arrivo del treno successivo.
Questo protocollo garantiva:
Sicurezza del passaggio a livello, evitando aperture premature.
Controllo visivo del convoglio, utile per segnalare problemi tecnici che il macchinista poteva non notare.
Prevenzione di incidenti in caso di guasti o pericoli lungo la linea.
Negli anni successivi, con la modernizzazione della rete ferroviaria:
Molti passaggi a livello furono automatizzati, eliminando la necessità di un casellante.
Il controllo visivo del convoglio fu progressivamente affidato a telecamere, sensori e personale a bordo.
Molti passaggi a livello furono eliminati, sostituiti da sottopassi o sopraelevazioni.
Tuttavia, il ricordo del casellante con la bandiera rossa è rimasto iconico per chi, come te, ha vissuto l’epoca in cui il contatto umano con la ferrovia era ancora diretto e quotidiano.
Capitolo 5 – La precedenza in stazione
Andavo spesso con mio zio nella stazione di Rogoredo. Mi spiegava le regole dei treni, e una delle più affascinanti era la precedenza tra due convogli in arrivo. Mi insegnò che, se due treni fossero arrivati contemporaneamente, avrebbe avuto la precedenza quello sul binario più lontano dall’edificio della stazione. “È per la sicurezza,” diceva. “Così la gente non deve attraversare i binari mentre un altro treno arriva.” Era una piccola rivelazione, un ingranaggio nascosto della grande macchina ferroviaria.
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La regola della precedenza tra i treni in arrivo dipendeva dalla sicurezza dei passeggeri. Il treno più lontano aveva la priorità per evitare attraversamenti pericolosi. Questa pratica è stata sostituita da sottopassi e passaggi sopraelevati in molte stazioni moderne.
Capitolo 6 – Macachi!
C’era qualcosa di magico nel movimento dei treni in manovra. Io guardavo affascinato mentre enormi carri merci, apparentemente inerti, prendevano vita e cambiavano direzione con un semplice gesto di una leva. Quei dispositivi, chiamati “macachi”, erano grandi leve metalliche che regolavano gli scambi ferroviari. Li manovrava un uomo con uno straccio unto in mano, il volto segnato dall’esperienza e lo sguardo sempre attento. Ogni volta che abbassava una leva con un colpo secco, le rotaie sembravano obbedire docilmente, guidando i convogli verso percorsi diversi.
Spesso, una locomotiva diesel si muoveva avanti e indietro, accompagnata dal suono ritmico dei respingenti che si toccavano, mentre un altro uomo si infilava tra i carri, agganciando e sganciando i vagoni con gesti precisi e rapidi. A volte, all’improvviso, un forte getto d’aria rompeva il silenzio: era il rilascio del freno ad aria compressa, un suono che, da bambino, mi faceva sobbalzare.
Ma voglio tranquillizzare chi legge oggi. Nonostante fossi un bambino di pochi anni, non ero mai in una posizione pericolosa. I miei genitori, gli operai e la ditta stessa avevano ben chiara l’importanza della sicurezza. Ero istruito con mille raccomandazioni e, quando mi avventuravo fuori dal cancello verso lo scalo di Rogoredo, sapevo bene dove fermarmi e riconoscere i binari morti, dove osservare senza pericoli. Certo, qualche volta una strigliata me la prendevo, e la punizione era severa: qualche giorno di “vietato oltrepassare il cancello”. La domenica, invece, tutto era fermo e spento. Mi muovevo in libertà, saltavo tra le traversine, camminavo sulle rotaie, provavo inutilmente a sollevare un macaco. E lì, nel silenzio irreale, fantasticavo su come quei movimenti coordinati potessero inviare un treno in qualsiasi parte del mondo, senza bisogno di sterzare.
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Nel gergo tecnico dei ferrovieri era in uso il termine “macaco” per indicare la cassetta per la manovra a mano di un deviatoio (o “scambio”), che permetteva ai convogli di essere indirizzati sul binario desiderato. Dopo aver per anni (non solo dell’infanzia) associato il termine alla vaga somiglianza con l’omonimo genere di primati (quella barra con il contrappeso in fondo…), ho appreso con delusione che quel nome curioso probabilmente derivato dalla ragione sociale McCann & Co. (o McCahn & Co.) di una delle prime fabbriche che, nell’Ottocento, fornirono questi apparati alle società ferroviarie italiane. Venivano azionati da operatori detti “scambisti” che, con l’uso di leve e ingranaggi, modificavano la posizione delle rotaie. Ogni scambio era connesso a un sistema di segnalazione per indicare ai macchinisti la direzione impostata.
Durante le manovre nei grandi scali ferroviari, i carri venivano agganciati e sganciati manualmente, un’operazione che richiedeva esperienza e grande attenzione. Il sistema di frenatura pneumatica utilizzava un forte getto d’aria per attivare o rilasciare i freni, un suono distintivo nelle operazioni di manovra. Oggi, molte di queste operazioni sono automatizzate, con scambi telecomandati e sistemi di aggancio automatico, ma l’antico fascino del lavoro manuale negli scali merci rimane una parte importante della storia ferroviaria.
Capitolo 7 – Saldature
Un altro mio osservatorio privilegiato era il reparto saldatura. Per un bambino, ciò che accadeva lì dentro era tra le cose più sorprendenti che si potessero immaginare. Che si trattasse della saldatura ossiacetilenica (quella con le grosse bombole, che mi facevano paura perché venivano trattate con un’insospettabile disinvoltura) o della saldatura elettrica (con quelle scintille che, per qualche ragione, sembravano innocue perché investivano i saldatori senza alcuna conseguenza), tutto mi appariva straordinario.
Li vedevo all’opera, reggendo con la mano sinistra una maschera di protezione blu davanti agli occhi, mentre con l’altra univano due pezzi di ferro in maniera perfetta. Per me era un vero miracolo: com’era possibile che due parti separate diventassero un tutt’uno? Mi sembrava magia pura.
Qualche volta mi concedevano l’onore di assistere con una maschera tutta per me. Appena la portavo davanti agli occhi, il mondo cambiava: il bagliore della saldatura si trasformava in un universo blu elettrico scintillante, come se stessi guardando una scena di fantascienza. Mi sentivo trasportato in un’altra dimensione.
A volte potevo persino aiutare il saldatore passandogli gli elettrodi per la saldatura ad arco. Erano custoditi in pacchetti marchiati ESAB e, ai miei occhi, sembravano grossi spaghetti grigi. Un piccolo gesto, ma per me era una grande emozione far parte di quel mondo di uomini che trasformavano il metallo con il fuoco e la corrente elettrica.
Per saperne di più
La saldatura è un processo di unione permanente tra due pezzi di metallo attraverso il calore, che porta i materiali a fondersi e a legarsi tra loro. Esistono diversi metodi di saldatura, ma quelli che avevo visto nel reparto erano principalmente due: la saldatura ossiacetilenica e la saldatura ad arco elettrico.
Saldatura ossiacetilenica (a gas): Questo metodo utilizza una fiamma prodotta dalla combustione di ossigeno e acetilene, regolata da speciali torce. Le bombole di ossigeno e acetilene che mi sembravano così imponenti erano essenziali per ottenere una temperatura sufficientemente alta da fondere il metallo e permettere l’unione dei pezzi. In questa tecnica si utilizza spesso un materiale d’apporto, chiamato bacchetta di saldatura, che viene fusa dalla fiamma e serve a colmare lo spazio tra i due pezzi da unire. Questa saldatura era usata per riparazioni e lavorazioni di precisione, in particolare su tubazioni o componenti di media resistenza.
Saldatura ad arco elettrico: Questa era quella che più mi affascinava, con le sue scintille e quel mondo blu che si apriva dietro la maschera. Qui l’unione dei metalli avviene grazie a un arco elettrico generato tra l’elettrodo e il pezzo da saldare. L’elettrodo, rivestito da materiale protettivo (detto flussante), fonde e si deposita nel giunto, formando il cordone di saldatura. I pacchetti marchiati ESAB contenevano questi elettrodi, che avevano il compito di fornire il materiale d’apporto e proteggere la saldatura dall’ossidazione atmosferica.
Per proteggere gli occhi e il viso, i saldatori usavano una maschera da saldatura, necessaria soprattutto per la saldatura ad arco elettrico, dato che la luce emessa è così intensa da poter causare danni alla retina (l’effetto noto come ‘foto congiuntivite’ o ‘flash da saldatore’). Per la saldatura ossiacetilenica, invece, si usano occhiali specifici con lenti oscurate, che proteggono dagli intensi bagliori della fiamma ma senza schermare completamente la visione, dato che la luce non è così pericolosa come nel caso dell’arco elettrico.
Quel mondo di metallo incandescente, scintille e trasformazioni rimane per me una delle immagini più vive del mio viaggio infantile nella ferrovia.
Capitolo 8 – Fari azzurri nel cielo
Certe sere d’estate, vagando nel cortile e tra i binari antistanti l’officina, il mio sguardo si alzava oltre il muro di cinta. Nel cielo scuro si accendevano potenti fasci di luce azzurra, roteando per ore come sentinelle silenziose. Mi dissero che venivano dalla Caproni di Taliedo, e che un tempo servivano per l’antiaerea. Ma la guerra era finita, perché erano ancora lì? Mi chiedevo se si trattasse di esercitazioni per un nuovo conflitto o se avessero semplicemente trovato un nuovo utilizzo.
Un binario dello scalo di Rogoredo, che si apriva davanti al cancello ferroviario, si dirigeva verso nord-est, entrava proprio nella Caproni, costeggiandone poi i capannoni. Forse, da quei binari, erano passati carri carichi di parti di aeroplani, oppure materiali di qualche progetto che mi era ignoto. Ma per me, bambino, l’unica certezza era il fascino di quei fari, che trasformavano la notte in uno scenario misterioso, che, negli a seguire si sarebbe aggiunto a quelli dei film e dei racconti di fantascienza.
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I fari della Caproni erano probabilmente residui delle installazioni di difesa della Seconda Guerra Mondiale. Durante la guerra, Milano era un obiettivo strategico e le fabbriche come la Caproni erano protette da sistemi antiaerei. Dopo il conflitto, alcuni di questi impianti furono riutilizzati, forse per esercitazioni in piena Guerra Fredda o per esigenze industriali. Lo scalo ferroviario di Rogoredo aveva un collegamento diretto con la Caproni, confermando l’importanza della ferrovia nel trasporto di materiali per l’industria aeronautica.