Mer. Mag 1st, 2024

Il soldato Sanna

Nelle ricerche collegate alla trascrizione dei diari di guerra di mio padre, avevo trovato un brevissimo brano che mi ha colpito particolarmente e che ho voluto quindi conservare, per riportarlo a margine del racconto (Quaderno III, capitolo 12) e per anticiparlo, con l’evidenza che si merita, qui di seguito.

 

Siamo al 23 aprile 1941, nelle prime ore del pomeriggio. Le armate di Papagos, in Macedonia e nell’Epiro, si sono ormai arrese e, a Salonicco, i rappresentanti dei tre eserciti, tedesco, italiano e greco, si riuniscono per firmare l’armistizio. Gli ufficiali greci incaricati di sottoscrivere il documento propongono però di incontrare i tedeschi e gli italiani in due sedi diverse, in quanto ritengono che, essendo i tedeschi entrati in territorio greco prima della resa, l’armistizio fosse firmato a Salonicco, mentre, per quanto riguardava le truppe di Mussolini e secondo le buone regole militari, l’armistizio va firmato in Albania, dove la guerra è finita, nonostante il disperato tentativo di raggiungere il territorio ellenico prima della cessazione delle ostilità, con l’inutile sacrificio di buona parte di quel totale di 30.000 soldati morti, dispersi e congelati della campagna di Grecia. Sono i tedeschi a convincere i rappresentanti dello stato maggiore greco che, tutto sommato, la loro richiesta, benché piuttosto ragionevole, è solo una formalità.

Fra il 27 e il 30 aprile, le truppe italo-tedesche completano l’occupazione della nazione aggredita. Gli italiani raggiungono le località assegnate, nonostante i tanti e terribili sacrifici, dalla porta di servizio, mentre i veri padroni di casa sono i camerati di Berlino, che hanno avuto il solo merito militare di aver dato il colpo di grazia ad un esercito già dissanguato e ridotto allo stremo, che ha riservato le sue ultime, disperate energie nel riversare sulla nostra avanzata allo scoperto tutto il fuoco possibile. Dopo le Alpi occidentali, un altro frutto avvelenato del potere fascista per i nostri soldati: sulle strade dell’Epiro le nostre truppe passano posti di blocco, bivi e crocevia presidiati dai soldati di Hitler, che guardano quegli uomini in grigioverde non come uomini valorosi, come furono, e alleati, ma piuttosto come reparti aggregati da tollerare, riservando loro, così impolverati e mansueti, sguardi non tanto diversi da quelli riservati ai prigionieri greci, incolonnati verso i campi di concentramento: “Ma, in qualche caso, la reazione italiana alla loro tracotanza non si limitò agli sberleffi”.

In tale contesto si colloca l’episodio intitolato “Il soldato Sanna”, raccontato nel libro “Guerra D’Albania”, di Giancarlo Fusco, Feltrinelli 1961. Eccolo nel testo integrale.

Sulla strada fra Gianina e Prevesa, un richiamato sardo del ’12, certo Sanna, alto appena da non essere riformato, quasi più largo che lungo, dalle sopracciglia d’ebano confuse con l’attaccatura dei capelli, si staccò un momento dalla colonna in marcia, per dare mezza pagnotta a due bambini seminudi, dagli occhi pieni di spavento, stretti sulla porta di un casolare. C’era un tedescone della Feldpolizei, in quei pressi, e il gesto dell’italiano non gli piacque. “Nichts Schwanke!” niente debolezze, gridò il nazista, e con una sberla fece rotolare lontano, nella polvere, la mezza pagnotta.

Il soldato Sanna, dopo un attimo di perplessità, digrignò i denti. Lo stridore dei suoi forti molari fu udito dai compagni che gli stavano sfilando alle spalle, a cinque metri di distanza. Poi, il piccolo sardo urlò con tutto il suo fiato: “Era mio, il pane!” Quindi lo si vide arrampicarsi al tedesco, come ad un olmo, stringergli il collo con le braccia, e la vita con le gambe, frantumargli letteralmente la faccia con una tremenda serie di testate. Dopo aver tentato disperatamente di liberarsi, il tedesco crollò nella polvere. Il sardo non mollò la presa. Gli restò abbrancato, a cavalcioni, anche per terra, continuando a demolirgli furiosamente il naso, le labbra e le sopracciglia di paglia. La fronte bassa e scura dell’italiano, intrisa di sangue, contusa, lacerata dai denti del gigante atterrato, batteva e batteva, come un martello.

“Era mio, il pane!”

Sanna ripeteva il suo urlo, mentre quattro o cinque commilitoni cercavano, mettendocela tutta, di staccarlo dalla preda. Il tedesco emetteva muggiti gorgoglianti. Il sangue gli colava a rigagnoli sulla pettorina metallica. I suoi stivali a sorbettiera scalciavano nella polvere, sempre più fiacchi.

Il fante sardo, con la faccia sporca del suo sangue e dell’altro, fu portato di fronte al comandante di battaglione.

“Cos’hai fatto, disgraziato!” gridò il maggiore. “Per poco non lo ammazzavi! Un tedesco! Figurati ora che cosa succede!”

“Era mio, il pane.”

“E con ciò? Lo sai che per mezza pagnotta finisci in galera?”

“Ci vado volentieri. Ma il pane non era né di Mussolini, né di Hitler, né vostro, signor maggiore! Era mio. E io in Sardegna ci ho due bambini!”

La campagna che Mussolini e soci avevano considerato facile passeggiata si è conclusa con un bilancio così pesante, da compromettere seriamente la nostra efficienza militare per gli anni successivi e sugli altri ben più impegnativi fronti. A fine maggio, al dittatore, fu presentato il conto di quella guerra, che avrebbe pagato, in parte, solo quattro anni dopo, insieme a tutti quelli degli altri fronti, compreso quello interno della servitù al nuovo nemico:

13.755 morti
50.874 feriti
12.368 congelati
52.108 ammalati
3.914 dispersi
21.153 prigionieri

(Wikipedia)

Per quanto riguarda il soldato Sanna, non ci è dato sapere quale sia stata la sua sorte: ci piacerebbe pensare che sia sopravvissuto alla guerra e che abbia potuto raccontare ai figli la sua storia, così come ci immaginiamo l’ufficiale tedesco raccontare la sua, di storia, ai figli che gli chiedono il motivo del suo viso sfigurato.

Realisticamente, invece, intravvedo nell’azione del soldato Sanna uno slancio di reazione contro la violenza e il sopruso, dello stesso tipo di quello che ti prende quando non ti resta altro che giocarti la dignità, la stessa che mosse 650.000 italiani a dire “No!”, nonostante tutto e contro tutti quelli che ti hanno tradito la vita.