Stop Talking
New Album
assdfsdf
New Album

Si parva licet componere magnis
A PIEDI E DA SOLO
È la storiella del primo giorno di scuola di un bambino, il 1° ottobre 1954, a Milano. Cresciuto senza aver frequentato l’asilo, troppo lontano dalla sua casa in periferia, il suo ingresso nel mondo scolastico fu un salto improvviso in un ambiente sconosciuto. Lo accompagnò una zia, che dovette subito rientrare al lavoro, lasciandolo tra coetanei mai visti prima. Un bidello e una maestra lo spinsero delicatamente oltre il portone, mentre un senso di smarrimento e paura lo pervadeva. Pianse, ma la scuola si rivelò presto meno ostile di quanto temesse. All’uscita, mentre gli altri bambini correvano tra le braccia delle loro madri, lui rimase solo. Non si chiese perché nessuno fosse venuto a prenderlo: se così era, significava semplicemente che doveva tornare da solo. Senza esitazioni, si avviò lungo un percorso familiare, tra cascine e passaggi a livello, fino a scorgere sua madre venirgli incontro con un sorriso. Col tempo, quel ricordo assunse un significato nuovo. Ciò che allora era normale – bambini che andavano e tornavano da scuola senza essere accompagnati – oggi appare quasi straordinario: quell’autonomia da piccoli uomini, con gli anni, si sarebbe persa per sempre.
Perché leggere questo articolo?
✔ Un viaggio nella memoria: Il racconto, scritto in prima persona, riporta il lettore all’infanzia di un bambino che vive il suo primo giorno di scuola in una Milano d’altri tempi.
✔ Uno spaccato di storia sociale: Tra passaggi a livello, grembiuli neri e fiocchi azzurri, il testo racconta un’epoca in cui i bambini imparavano presto l’autonomia, un contrasto netto con la realtà odierna.
✔ Una narrazione autentica: Il tono personale e diretto rende il ricordo vivido, creando un forte senso di immedesimazione nel lettore.
Perché non leggerlo?
✘ Se cerchi azione o suspense: È una storia di vita quotidiana, senza eventi straordinari o colpi di scena.
✘ Se non ami i racconti nostalgici: Il testo si sofferma sulla memoria e sul cambiamento della società, il che potrebbe non interessare chi cerca trame contemporanee o dinamiche.
Il 1° ottobre 1954 fu il mio primo giorno di scuola. Non ero mai stato all’asilo perché era molto distante da casa mia, in periferia, e nessuno mi ci poteva accompagnare. Il papà e la mamma lavoravano, lui come custode in un’azienda ferroviaria, lei ne gestiva la mensa, e non potevano allontanarsi.
Così, ad accompagnarmi a scuola la prima volta fu una zia, che, pur lavorando anch’essa, aveva potuto liberarsi per quell’occasione, per poi tornare subito al lavoro.
Non avendo mai frequentato, come dicevo, l’asilo, l’impatto del nuovo ambiente, con bambini sconosciuti, tutti vestiti di nero e fioccati d’azzurro, come me, del resto, fu traumatizzante. Così, mentre vedevo, girandomi indietro, la zia che si allontanava salutandomi col braccio, venivo sospinto all’interno di un portone da un’anziana signora in camice grigio, detta maestra, con dei registri sotto il braccio e da un signore, anche lui in camice grigio, detto bidello. Mi sentivo perso e abbandonato e piansi, mentre tutti gli altri parevano non drammatizzare.
La mattinata passò e mi vergognai poi di quel pianto: avevo scoperto un nuovo mondo che non era affatto male, anzi… C’era stato un piccolo test di linee e segni da fare alla lavagna e me l’ero cavata proprio bene.
Poi la maestra aveva chiesto chi sapesse già leggere e io mi accorsi di essere praticamente l’unico a saperlo fare: al mio “Sì”, mi aveva chiesto che cosa leggessi ed io ci pensai un attimo, perché leggevo i giornali, i cartelli, la pubblicità sul tram, il cartello con le fermate della filovia, l’orario dei treni alle stazioni, “Il Monello”, “Bolero Film” e, quando ce li portava la zia, “Tempo”, “Epoca” e il catalogo della “Fratelli Ingegnoli”. Poi stavo facendo la raccolta di figurine in bianco e nero di “Marcellino pane e vino” … Così risposi solo: «“La Gazzetta dello Sport”, che però la domenica era “La Gazzetta Sportiva”», facendo sorridere la maestra, che mi mise alla prova facendomi leggere la copertina del registro e scrivere il mio nome sulla lavagna, in stampatello, e mi chiese dove e come avessi imparato così bene a leggere e scrivere.
Il motivo era che l’esser cresciuto senza amichetti, in fabbrica, solo con adulti, mi aveva lasciato una certa timidezza, ma mi aveva concesso altri vantaggi competitivi: uno su tutti il poter assistere ore ed ore al lavoro dei verniciatori che, con il loro pennello, disegnavano, a mano libera o negli stampi, quei meravigliosi segni bianchi nei pannelli informativi e nelle tabelle di carico dei carri e delle cisterne e me ne ripetevano il suono e il significato. Poi correvo su un marciapiede di cemento bocciardato bello liscio, con un pennello esausto, ben ripulito con acqua ragia, e con una lattina piena d’acqua, che costituiva la mia precaria vernice, a riscrivere quello che avevo visto scrivere dagli operai: lettere e numeri effimeri, subito assorbiti dal cemento ed evaporati all’aria, nonostante tornassi a ricalcarli fino ad esaurimento dell’acqua.
Purtroppo, questo vantaggio di saper già leggere e scrivere mi si ritorse contro: dopo un mesetto passato a fare centinaia di aste e puntini, rimasi disorientato al comparire sulla lavagna di una grossa “a” in corsivo, così goffa e irregolare rispetto ai miei perfetti e geometrici caratteri stampati con i quali copiavo tutto quello che mi capitava a tiro di lettura. A nulla valsero le mie richieste di poter continuare a scrivere come sapevo fare e non con quei “geroglifici”, completamente avulsi rispetto al mondo di fuori che conoscevo, dove si usava esclusivamente lo stampatello, maiuscolo e minuscolo, ma inutilmente, tra il ghigno dei miei compagni che vedevano compromesso il mio vantaggio nell’apprendimento e con un magone che trattenevo a stento.
Così, alle dodici e quaranta, suonò la campanella ed uscii, con l’incombente desiderio di raccontare la mia esperienza di quelle quattro ore seduto su un banco di legno e una vaschetta di inchiostro blu che ogni tanto facevo roteare nel suo incavo. Tutti corsero incontro alla propria mamma (i papà lavoravano tutti e comunque non toccava loro istituzionalmente) e la piccola folla vociante davanti all’uscita velocemente si diradò; ciascuno si diresse felicemente a casa, il portone fu chiuso e io rimasi lì, da solo, a guardarmi intorno. In effetti non sapevo se fosse previsto che qualcuno venisse a prendermi: o non se n’era parlato o io non ne avevo sentito nulla.
Sta di fatto che, passato un minuto, e con una tranquillità che oggi mi meraviglia, mi avviai verso casa. Se non era venuto nessuno era perché dovevo andare a casa da solo. La strada la conoscevo. Lì vicino c’erano quasi tutte le mete consuete delle mie uscite dalla mia casa-stabilimento: con mia madre andavo al sabato dal tabaccaio all’angolo a prendere il sale e a giocare la schedina, per la spesa andavamo al mercato rionale di viale Molise; in piazza Cuoco c’erano il capolinea del tram 23, tappa obbligata per andare in centro, e la fermata della filovia 90 per andare a San Siro con mio padre; poi, sempre in piazza Cuoco, c’era il dottore delle mutua e in via Faa di Bruno c’era il cinema Ariel.
Così non ci feci caso, mi incamminai e presi via Bonfadini, passando le tre cascine che vi si affacciavano. Il cammino fu piacevole per l’avere superato con soddisfazione il primo giorno di scuola, compiaciuto per quella faccenda del saper leggere e inorgoglito per quel tragitto fatto inaspettatamente da solo, fuori casa, per la prima volta.
Optai, piuttosto che per il più comodo ma pericoloso sentiero che attraversava i binari, per i due più sicuri passaggi a livello, che trovai aperti; passato il secondo, a cento metri da casa, vidi mia madre corrermi incontro e accogliermi sorridente tra le braccia.
Il ricordo di quel giorno, col passare degli anni, cominciò a sorprendermi per il contrasto tra la banalità percepita allora e l’eccezionalità percepita oggi, quando i bambini sono accompagnati rigorosamente dai genitori o dallo scuolabus.
Ero andato a casa da solo il primo giorno di scuola, ma non sentii di dover chiedere il motivo del fatto che nessuno fosse venuto a prendermi, né mi fu spiegato, né se ne parlò in casa. Era stato banalmente normale.
Nei giorni successivi, anche le mamme degli altri bambini si fecero più rare e, alla fine, solo poche si sarebbero presentate abitualmente ad attendere i loro figli, mentre quasi tutti si avviavano da soli verso casa in ogni direzione, a piccoli gruppi che via via si scomponevano fino a costituire singole unità che sparivano nei portoni.
A quel primo pionieristico percorso scuola-casa ne seguirono centinaia di altri abituali e sempre solitari, perché ero l’unico ad abitare in quella direzione. Erano percorsi dettati da un obbligo non lieve, ma pieni di piacere d’avventura: i ritorni macerati sotto un’imprevista pioggia, gli odori e i suoni delle cascine, l’attraversamento imprudente ma attento dei binari evitando il passaggio a raso, gli stivali immersi nella neve scesa durante la notte, la nebbia fitta che, entrando nei polmoni, mi avrebbe legato per sempre alla mia città. Sensazioni quotidiane che, una volta finite sotto la pelle, si sarebbero fissate per sempre, ricordi nel cuore.
Solo adesso, scrivendone, mi rendo conto e posso dire che, non solo il primo giorno di scuola, ma mai una volta, uno dei miei genitori o parenti venne a prendermi a scuola, con la sola eccezione di occasioni “istituzionali” o di quando, convalescente per un morso di un cane ad una coscia, per un certo periodo venne a prendermi mio zio, che mi portava a scuola e mi riportava a casa sul portapacchi della bicicletta.
Ma era già il 1958, mi ero trasferito e frequentavo le scuole elementari di via Ravenna, mentre mio zio abitava in via Dei Cinquecento.