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Si parva licet componere magnis
Un'indagine lunga vent'anni, tra silenzi, depistaggi e verità negate
GARLASCO: DALLE ROTONDE ALLA CUPOLA.
🧩Da luogo di svago della provincia lombarda a epicentro di uno dei misteri giudiziari più oscuri d’Italia. Il caso Chiara Poggi come possibile scintilla di qualcosa di più grande.
Per molti ragazzi della mia generazione, cresciuti nella zona sud di Milano, il nome Garlasco non evocava certo misteri o tragedie. Al contrario, negli anni Sessanta e Settanta significava “Le Rotonde”, un complesso tra i più frequentati per il tempo libero: musica dal vivo, piscina, pista da ballo, e un grande parco intorno. Era uno di quei luoghi-simbolo della provincia lombarda che sapevano coniugare svago e modernità, competendo con le sale da ballo più rinomate di Pavia allora alla moda.
Personalmente, non ero un habitué: cresciuto a valzer e mazurche, quei nuovi balli disaccoppiati, più liberi e sfrenati, non mi affascinavano molto. Ma qualche domenica ce l’ho passata anch’io, mentre alcuni amici vi erano praticamente abbonati.
Oggi, però, quel nome – Garlasco – porta con sé ben altri echi. Il tempo del divertimento si è trasformato nel tempo della paura e del sospetto. Perché attorno al delitto di Chiara Poggi non si addensano soltanto dubbi e interrogativi, ma una rete fitta di depistaggi, silenzi, pressioni, omissioni, perfino suicidi. Quel nome oggi evoca simbolicamente, una “Cupola” invisibile, protettiva e opaca, capace di condizionare perfino il corso della giustizia.
Ne parlano tutti, ne parliamo anche noi.
Chi ha ucciso Chiara Poggi? Ce lo chiediamo da quasi vent’anni. Ma forse è tempo di cambiare la domanda. Un delitto come quello di Garlasco, nella sua brutale e solitaria efferatezza, avrebbe dovuto avere uno schema riconoscibile, una firma passionale, un impulso incontrollabile. E invece troviamo tutt’altro: un crimine immerso in un mare di anomalie, depistaggi, suicidi, silenzi, incertezze e pressioni. Non è la scena di un delitto, ma quella di una guerra, di informazione e violenza.
Venti anni di errori, ipotesi, sentenze. Eppure, nonostante tutto, la sensazione è sempre quella: non ci dicono la verità. Non perché manchino le prove. Al contrario: qui c’è tutto. Troppo. C’è sangue. C’è una scena del crimine assurda. Ci sono testimonianze, tracce, omissioni. E poi ci sono i suicidi strani. Le minacce. Le denunce censurate. I cambi di rotta improvvisi nella stampa. I marescialli allontanati.
In tutti i femminicidi noti, quasi mai il colpevole ha avuto la lucidità (o i mezzi) per cancellare del tutto le tracce. Quasi sempre ha lasciato impronte, segni, errori. E ha pagato. Qui no. Qui le prove mancano, le tracce svaniscono, le testimonianze si dissolvono, le versioni ufficiali si contraddicono. Chi ha ucciso Chiara Poggi? Qualcuno molto attento, o qualcuno molto protetto. O entrambi.
In questi anni ci siamo persi dentro un labirinto di file digitali, intercettazioni, dettagli genetici, compatibilità parziali, comportamenti ambigui. Ma nessun dettaglio ha retto l’urto del tempo. Nessuna ricostruzione ha convinto del tutto. Ogni ipotesi è affondata sotto il peso delle sue stesse fragilità. Tranne una: che ci sia qualcosa, o qualcuno, che non vuole che si sappia la verità.
L’elenco dei segnali che ci dicono che siamo dentro un meccanismo anomalo è lungo e spaventosamente organico. E allora ci si chiede: può davvero tutto questo ruotare attorno a un delitto passionale mal gestito? La risposta, ormai, è no. Nel 90% dei femminicidi il movente è passionale. E chi uccide non riesce a coprire tutto. Lascia errori, sbagli, ammissioni. Qui no. Qui il caso non deve emergere, qui c’è un delitto che somiglia a un rituale, una foto finta con la vittima, come raccontava Gabriella Carlizzi già nel 2007, un depistaggio sistemico, una difesa permanente dei protagonisti di contorno.
E, soprattutto, una reazione spropositata ogni volta che qualcuno tenta di indagare davvero.
Abbiamo un avvocato – il padre delle gemelle Cappa – che fa pressione a mezzo deputati e istituzioni, abbiamo giornalisti minacciati, come Marco Gregoretti, abbiamo carabinieri che si suicidano in silenzio, operatori sanitari a cui si ordina di non verbalizzare.
Abbiamo Selvaggia Lucarelli che si schiera improvvisamente per il “rispetto delle sentenze” come un giurista navigato e pare sorprendentemente scrivere sotto una non amichevole dettatura… E un giorno, improvvisamente, anche il Corriere cambia tiro: ma quale nuova inchiesta! Le nuove prove? Non servono! Dopo anni di sostegno cieco alla narrazione ufficiale, due articoli smontano le nuove indagini. Perché?
Questo non è un caso giudiziario. È un caso di sistema. Come Ustica. Come Piazza Fontana. Come il caso Moro. Come Via D’Amelio. Siamo dentro un contesto che ha più somiglianze con quei tragici eventi nazionali e internazionali che non con un normale caso di cronaca nera. Il sospetto, fondato, è che il vero movente non sia passionale, ma sistemico. Non un gesto d’impeto, ma un rituale, un messaggio, un passaggio di consegne. Non un killer isolato, ma una rete.
E allora smettiamo di chiederci chi ha ucciso Chiara Poggi. Chiediamoci perché non possiamo scoprirlo. Perché si è mosso un apparato tanto compatto, tanto pervasivo, per impedire che la verità venga fuori? Chi protegge chi? E da cosa? Quale forza può disporre di simili mezzi?
Per rispondere alla domanda su chi possa aver orchestrato un depistaggio così ampio e duraturo, occorre immaginare una forza operativa non semplicemente composta da “protettori” influenti o da qualche amico in divisa, ma da una rete trasversale e professionale. Parliamo di soggetti che conoscono le prassi, dominano le procedure investigative, hanno accesso ai laboratori, alle sale di intercettazione, ai registri di protocollo. Parliamo di elementi dentro le istituzioni, che si muovono nel cono d’ombra delle catene gerarchiche, tanto nella magistratura quanto nell’Arma, nella polizia, nelle procure e nei media. Questa forza riesce non solo a spostare il baricentro delle indagini, ma anche a dettare le narrazioni, a zittire, a screditare, perfino a neutralizzare con la morte chi potrebbe rappresentare un pericolo.
Se qualcuno ha potuto – senza lasciare vere tracce – togliere la vita a Giovanni Ferri in modo silenzioso e “ordinato”, inducendo il silenzio nella moglie e cancellando ogni impulso di verità, se si sono verificati suicidi sospetti senza una vera reazione di stampa o magistratura, allora siamo ben oltre l’idea di un gruppo di giovani complici o di familiari influenti. Qui si tratta di un’entità strutturata, che ricorda da vicino le trame nere della Prima Repubblica, dove servizi deviati e logge coperte si occupavano di pulire, zittire, confondere e mandavano segnali di una pressione insostenibile: lo stato contro le vittime.
Eravamo e siamo di fronte a un sistema capace di soggiogare l’ambiente sociale, investigativo e perfino familiare, che deve avere interessi molto più grandi di quelli personali o locali.
L’effetto più inquietante è che la famiglia stessa della vittima sembri compressa, dissuasa, silenziata, al punto da assumere in alcuni momenti atteggiamenti concilianti, rinunciatari o protettivi verso potenziali colpevoli. Questo ci obbliga a domandarci: che cosa sa questa famiglia? Che cosa ha dovuto accettare o subire? E perché, a distanza di tanti anni, ogni riapertura si accompagna a intimidazioni, smentite, “errori tecnici” e interventi mediatici dettati dall’alto? Non è forse questo un film già visto nei misteri italiani? Non è forse la struttura stessa dello Stato che, in certe sue aree oscure, abbandona il compito di cercare la verità e assume quello di proteggerne il contrario? Chi muove questi fili ha mezzi, obiettivi e metodi incompatibili con una giustizia democratica: non si difende un imputato, si protegge un sistema.
E per farlo si può anche zittire con la morte chi, come i ragazzi suicidatisi, era forse solo testimone marginale, ma sapeva troppo per restare in vita. Serve una lucidità nuova, capace di non inseguire il colpevole tra le ombre, ma di accendere la luce sulle mani che hanno disegnato l’ombra stessa.
Qualcuno ha scritto che Chiara non è morta per amore, né per soldi. Ma forse è morta perché ha visto, saputo o capito qualcosa. E in quel mondo chi sa troppo è un pericolo. Chi parla viene fermato. Chi cerca la verità viene deriso, screditato, ridotto al silenzio.
Il caso Garlasco non va risolto. Va letto. Va interpretato come si interpreta una pagina del potere, non una cronaca giudiziaria. Perché forse Chiara non è solo una vittima. È un codice, un simbolo, una chiave. Non dobbiamo trovare un colpevole. Dobbiamo trovare il perché ci è vietato cercarlo.
E allora smettiamo di chiederci chi ha ucciso Chiara Poggi, chiediamoci perché non possiamo scoprirlo. Dietro c’è un sistema che si protegge, un sistema che non ammette che si scoperchi la verità.
Chi lo protegge davvero? Chi muove la stampa, la magistratura, la reticenza istituzionale? Chi ha certezze? Forse sensazioni? Massoneria, apparati, protezioni ecclesiastiche, forse vaticane? Non nel senso banale del complotto, ma nel senso vero del potere che tutto può… e che ha interesse a non far parlare certi nomi. Perché un caso “di paese” genera una reazione istituzionale degna di un delitto di Stato? Chi teme la verità su Garlasco? E, soprattutto: cosa può accadere se la verità venisse a galla oggi, dopo 18 anni di menzogne?
Ci vengono in mente due scenari.
Nel primo, cinematografico, Garlasco, così come lo conosciamo, è un’illusione scenica. Potrei riferirmi a “The Truman Show” (1998), con Jim Carrey. La vita di Garlasco è interamente costruita come uno show televisivo: ogni persona che si incontra è o può essere un attore, ogni luogo è un set, ogni villetta o sito istituzionale una location, e tutto è orchestrato da un regista onnipresente che osserva e manipola ogni evento dall’alto. Una messa in scena totale, sotto una cupola che simula il cielo della Lomellina.
Il vero caso è altrove. E forse riguarda anche noi.
Il secondo scenario, realistico, risponde ad una domanda, alla quale può provare a rispondere solo chi ha ricordi di Tangentopoli: e se Chiara Poggi fosse il nostro Mario Chiesa?
Nel 1992 un oscuro dirigente del Pio Albergo Trivulzio, un certo Mario Chiesa, venne arrestato per una tangente tutto sommato modesta. Pochi righi nei giornali, nessuna reazione nel Paese. Ma da quella scintilla apparentemente insignificante si sollevò l’incendio di Mani Pulite, e l’Italia non fu più la stessa. Non fu migliore. Solo diversa. I corrotti furono rimpiazzati dai corruttori, i partiti da cartelli personalistici, e il crimine organizzato imparò a mimetizzarsi meglio. Ma qualcosa cambiò davvero: si scoperchiò un vaso che nessuno voleva più richiudere, fino a quando qualcuno decise che era ora di farlo: cambiò l’aria e i giudici finirono per essere quelli da giudicare o da eliminare.
E se il delitto di Garlasco, femminicidio tra i tanti che meritava giustizia come ogni altro, fosse il Mario Chiesa dei nostri tempi? Un caso minore solo in apparenza, che dietro una normale finestra di villetta borghese nasconde invece una ragnatela di poteri, silenzi, insabbiamenti, depistaggi, disinformazione, morti sospette e paure imposte? E se, come allora, tutto dovesse iniziare da un dettaglio storto, da un giornalista non allineato, da un dubbio che non vuole morire? Che cosa accadrebbe se questo caso si aprisse per davvero, se i nomi, i mandanti, le reti, le coperture, i complici silenziosi venissero a galla?
Non cambierebbe nulla. Ma nulla sarebbe più come prima.
Forse stiamo esagerando e, sinceramente, lo speriamo. Ma quello che veniamo a sapere giorno dopo giorno su Garlasco non ci lascia altra scelta.