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Tiremm innanz!

«Tiremm innanz… Così, con cuore di romano antico, incamminato a morte, Antonio Sciesa milanese, all’austriaco gendarme che vita e denaro gli offriva a patto di delazione, sprezzante e sdegnoso rispondeva. Questo marmo sulla casa ch’egli abitò lungamente consacri alla riverenza dei presenti e dei venturi la memoria del cospiratore popolano fucilato il 2 agosto1851».
http://gianlucamargheriti.com/parole/lib101storiec3.php
(In realtà il suo nome era Amatore, ma un cancelliere sbagliò la registrazione!)

Nell’immagine: Gaetano Previati – Fucilazione di Antonio Sciesa – litografia – ca. 1875. (da Wikipedia)

Quanto appena scritto ne “Il Placito Capuano” ha probabilmente convinto quelli che “i dialetti derivano dall’italiano corrotto dalle invasioni straniere” ad abbandonare la loro teoria e ad accettare la realtà delle cose così come sono andate veramente. Ho ricevuto però qualche osservazione, qualche quesito o richiesta di chiarimento che andavano oltre la specifica questione, allargando la vista su ulteriori aspetti insiti nella materia trattata o a questa collegati. Ora, io non sono un esperto, né voglio passare per tale, e quello che scrivo è solo frutto e sintesi di ciò che, spinto solo dai ricordi, dalla passione e dalla curiosità, ho appreso da chi la materia la conosce veramente e la diffonde. È solo facendo ricorso a tali elementi in mio possesso, quindi, che provo a completare il discorso iniziato con “Il Placito Capuano” e a rispondere a quelle osservazioni e a fornire quei chiarimenti che vanno un po’ oltre i dialetti e a ciò che mi stava inizialmente a cuore di spiegare. Il primo dei quesiti cui ho fatto cenno in premessa suona più o meno così:

“Ma allora, abbiamo fatto quel po’ po’ di Risorgimento, dai moti del 1820 e fino a Porta Pia, senza che il popolo potesse parlare e riconoscersi in un’unica lingua? Com’è stato possibile sentirsi fratelli d’Italia parlando dialetti così diversi?”

In effetti, se penso alle mie scuole elementari e medie, quello del Risorgimento fu un apprendimento mitico. Sarà stata la retorica di allora, ma mi entrarono nel cuore e nella mente i nomi di tanti personaggi-eroi, da Silvio Pellico a Garibaldi, da Mazzini a Cavour, i luoghi e i fatti, come le Cinque Giornate, i bersaglieri a Sebastopoli, Magenta, Montebello, San Martino e Solferino. Nel 1959, poi, cadeva il centenario della Seconda guerra d’indipendenza: celebrazioni, bandiere, libri e mappe che conservo ancora, visita al Museo del Risorgimento e al monumento di Porta Vittoria e altro ancora. Quale lato affettivo della nazione di cui ero cittadino e che avevo sino ad allora amato più che altro per via della maglia azzurra, si formò in me, così, risorgimentale, il mio mito di patria, laddove non erano riusciti, confinati in simpatia e “tifo”, i sentimenti di partecipazione per i fasti di Roma antica, per le glorie di Comune e Signoria, per la vicinanza ideologica della Repubblica Cisalpina, anche per il fatto nessuno di essi si riferiva ad un ambito territoriale corrispondente all’Italia di oggi. Riandando a tutto ciò, allo studio e alla metabolizzazione del Risorgimento, in effetti intendo meglio il quesito posto, in quanto, se allora proprio non potevo pensarci, adesso mi si offre l’occasione per ripassare quel primario apprendimento dei fatti e rivisitarlo alla luce del quesito posto. Ebbene, quando ascoltavo o studiavo le lezioni, il mio pensiero andava a quei personaggi e li immaginava parlare senza ogni dubbio in italiano, sia nei loro palazzi, sia ove si compivano le loro gesta: tutti, dal re Vittorio Emanuele II, padre della Patria, che parlò il piemontese verosimilmente anche tra i muri del Quirinale, fino alle centinaia di eroi il cui nome è oggi ricordato solo dalle targhe toponomastiche e compresi anche i Mille, antenati di quei bergamaschi che ancor oggi tenacemente conservano l’uso del loro dialetto. Non feci molto caso allora al celebre “Tiremm innanz!” di Amatore Sciesa, forse perché egli citato nei libri come “popolano”, era un tappezziere, quindi da considerare rappresentativo né dell’intera cittadinanza milanese, né, tantomeno, dell’élite risorgimentale…

Prima di proseguire occorre però fare un po’ di chiarezza sul binomio-sinonimo ”patria-nazione”: in modalità brutale, ma realistica, possiamo anche affermare (da una citazione di cui al momento non ricordo la fonte) che ogni uomo, per sua natura stolto, è portato a considerare come patriottismo un valore quando è il proprio e come  nazionalismo una colpa  quando è degli altri. Più benevolmente e in accordo all’approccio risorgimentale sopra accennato, possiamo anche considerare “patria” come il sostanziale ed amorevole sinonimo di “nazione”, pur dovendo porre molta attenzione nell’accostare i due termini, se pensiamo alla profonda differenza tra i significati dei due termini che rispettivamente ne derivano ad indicarne il movimento sottostante, la tendenza, l’indirizzo: “patriottismo” e “nazionalismo”. Il significato tra le due parole è molto diverso e in certi casi assurge addirittura ad opposto, anche solo pensando proprio ai nostri eroi del Risorgimento: patrioti per antonomasia, non erano certo nazionalisti, aspirando essi solo all’indipendenza ed all’unità degli italiani e non aspirando certo, una volta raggiunte quelle, di volersi espandere verso altri stati europei, un giorno dichiarando loro guerra.

Tra gli autori che si studiavano a scuola e che immaginavo parlassero in italiano c’era Alessandro Manzoni (e chi se no?), il quale, se da un lato ben incarnava e incarna lo spirito risorgimentale, dall’altro rappresentava e rappresenta la milanesità e l’italianità di cittadino, di linguista e di scrittore, ponendosi così come faro ideale di sintesi, che può, meglio di chiunque e con inarrivabile cognizione di causa, illuminarci sul quesito posto e provare a darvi una risposta, anche se non credo che ce ne possa essere una sola e semplice: come sempre avviene quando si cercano le ragioni di qualcosa, di un fenomeno, di un problema, occorre partire da lontano, esporre fatti e opinioni diverse e proporre analisi, per poi cercare nel tutto, se ci si riesce, di capirci qualcosa e di trarne una conclusione ragionevole, da suffragare eventualmente poi con nuove considerazioni e ulteriori conferme. Ebbene, la centralità polivalente del Manzoni, dunque, nel tema che stiamo trattando ci consente di ricavare dai versi di “Marzo 1821” l’idea che di nazione-patria, lui in verità la chiama “gente”, che aveva l’autore de “I Promessi Sposi” e prenderla come esempio dell’idea ottocentesca di patria e di Italia. Egli agognava l’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”. Quindi un solo esercito, un’unica lingua, una sola religione, le medesime tradizioni, la stessa stirpe e infine un proprio sentimento nazionale.

Gli elementi proposti da Manzoni, estratti dal loro contesto ed alla luce delle successive evoluzioni storiche e morali, sono un invito alle obiezioni. Vediamo quali, nell’ordine in cui essi sono indicati e fatto salvo il primo, ancor oggi indiscusso, aspetto militare.

1. La lingua, l’elemento principale del nostro focus, che stiamo trattando in abbinamento con il concetto di patria/nazione: era forse una, sì, ma solo scritta; quella parlata era frammentata in cento dialetti, che, raggruppati alla buona, si riducevano a circa dieci, come circa dieci erano i frammenti territoriali cui era ridotta l’Italia di allora. Di quanto sia ulteriormente durato e abbia faticato l’unificazione linguistica dopo l’unificazione territoriale si è parlato ne “Il Placito capuano”. Ancora: quattro lingue diverse non hanno impedito agli svizzeri di farsi carico di un’unità nazionale che dura dal Cinquecento ad oggi e che ha garantito loro un’indipendenza assoluta. Inoltre: la stessa lingua, il serbo-croato, non ha impedito a serbi e a croati di macellarsi a vicenda ad ogni occasione e di vivere alla fine da separati male, come l’inglese non ha impedito a Inghilterra e Stati Uniti di combattersi proprio ai tempi del Manzoni e come lo spagnolo comune dei conquistatori non ha impedito a poveri stati centro e sudamericani di dar luogo a decine di conflitti incrociati, una volta raggiunta l’indipendenza. Infine: abbiamo visto come il plurilinguismo sia stato o sia un fenomeno naturale, nel suo formarsi e nel suo costituirsi come stato naturale delle cose in un territorio, in una nazione, mentre il monolinguismo è stato sempre e solo imposto, con le buone o con le cattive. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove il fascismo, che aveva italianizzato tutto il possibile anche oltre i limiti del ridicolo, tentò di eradicare con violenze e deportazioni le lingue locali di alcune minoranze etniche, come in Slovenia e ciò con esiti purtroppo tragici, la cui eco si trascina ancora oggi, al netto di tristi strumentalizzazioni.
2. La religione come collante dell’unità nazionale : a parte lo spegnersi del sentimento religioso, solo talora evocato a fini elettorali da beceri individui, solo vittime della loro ignoranza, non costituisce affatto una regola, se pensiamo a Stati Uniti o Germania, due stati a forte identità nazionale, per non dire nazionalisti o imperialisti, nei quali convivono religioni diverse.
3. Tradizioni: qui il discorso è molto ampio e soggettivo, potendo spaziare dalle comuni glorie di Roma antica, ai comuni in lotta con l’imperatore, ai fasti delle signorie, al rinascimento, alla cultura, al contributo all’Illuminismo, alla… buona cucina. Tanta roba, Manzoni ha ragione: ma, anche qui, quanto di unitario e quanto di frammentato, in cui cercare l’unità?
4. Sangue: qui proprio zero, ci hanno pensato i biologi: ma non riesco a trattenere un rinvio alle persecuzioni razziali, nostre e altrui, di ottant’anni fa e allo ius sanguinis, nostro, di oggi.
5. Sentimento nazionale: questo avrebbe dovuto seguire poi all’unificazione ottenuta con i quattro elementi precedenti, ma avrebbe in realtà ottenuto notevole impulso soprattutto grazie alla vittorie della Nazionale nei mondiali di calcio.

Insomma, una volta rivisitata e depurata la visione ottocentesca di nazione lasciataci da Manzoni, il resto rimane tutto molto soggettivo: sono italiano perché ho pian piano deciso di esserlo, per le informazioni storiche e culturali progressivamente acquisite, compresi i miti, e in cui la lingua riveste un ruolo essenziale per il suo ruolo di intermediario ai fini dell’unificazione. Si può anche affermare che sì, la lingua comune ha aiutato l’unità nazionale, ma non in maniera scientifica o naturale, piuttosto può averne costituite un non indispensabile catalizzatore, pur riconoscendole il contributo di forza d’animo e di slancio che essa può aver dato nei momenti che lo richiedevano, anche davanti al sacrificio personale. Ciò da un lato: dall’altro, in negativo, l’identificarsi in una sola lingua può spingere gli individui di un popolo a considerare coloro che non parlano la stessa loro lingua come non appartenenti alla loro presunta “razza”, con tutte le conseguenze che sappiamo.

Un’ultima considerazione, a conclusione dell’argomento: gli Italiani hanno fatto il Risorgimento e questo bellissimo termine evoca una nobile aspirazione, una rinascita, una nuova vita, verso una condizione di indipendenza e di unità, le due parole più usate sul tema (guerre d’indipendenza, unità d’Italia, ecc.). Non fu una rivoluzione, ma una serie di processi che andarono dalla cospirazione alla politica internazionale, dai tradimenti agli atti di eroismo, dalle guerre agli armistizi: certo, furono rivoluzionari i moti che costellarono il movimento risorgimentale fino al 1861, ma vi parteciparono in tutto poche decine di persone e finirono generalmente male. Tranne un caso: le Cinque giornate di Milano, cui ho già fatto cenno. Quell’evento fu unico in tutto il Risorgimento: fu popolare, generale, interclassista ed ebbe alla fine successo, almeno fino al tradimento di Carlo Alberto, che espose la città alla vendetta di Radetzky e la costrinse a perdere metà dei suoi abitanti. Ma le Cinque giornate furono un atto rivoluzionario atipico: vi si concentravano aspirazioni diversissime, anche opposte tra loro e su piani diversi: tutti d’accordo sull’indipendenza, ma poi? Stato federale, stato centralizzato sotto il Piemonte, monarchia, repubblica, borghesia, proletariato… Tante cose insieme per poter parlare di sola indipendenza. Ribadito che comunque sia il comitato degli insorti che il popolo sulle barricate parlavano il dialetto…

Possiamo quindi dire, in generale, che tutti gli italiani che parteciparono al Risorgimento o che semplicemente lo vissero parlavano sicuramente i dialetti dei territori dove abitavano, compreso il ceto nobile e borghese che lo promosse e lo guidò, che l’italiano lo conosceva, con il quale spesso scriveva, ma nel quale meno spesso parlava.

Seguiranno altri articoli di risposte ai quesiti…

FONTI
Lezioni online

PRIMA LEZIONE DI FILOLOGIA – Antonio Pioletti – Università di Catania
LETTERATURE IN VOLGARE – NASCITA DELLE LETTERATURE EUROPEE – Maria Strocchia
NASCITA DEI VOLGARI – Lezione 1 – Eni Landi
LETTERATURA ITALIANA – LE ORIGINI: CONTESTO STORICO E CULTURALE – Tiziana Otranto
LE MILLE LINGUE DI ROMA – Luca Serianni
L’ITALIANO DAL LATINO A OGGI – LINGUA E DIALETTO – Le Pillole della Dante – Luca Serianni
IL PLURILINGUISMO MEDIEVALE E LA COSCIENZA DISTINTIVA DEGLI IDIOMI ROMANZI – Scuola di Filologia Patavina – Furio Brugnolo
L’ITALIANO DAL LATINO A OGGI – MANZONI E LA LINGUA ITALIANA – Le Pillole della Dante – Luca Serianni  
QUANDO, COME E DOVE È NATO L’ITALIANO – Università di Siena – Giuseppe Patota
STORIA DEL LATINO: LA VERA PRONUNCIA DEGLI ANTICHI ROMANI – Scripta Manent – Roberto Trizio
LINGUA E IDENTITA’ NAZIONALEI N ITALIA – Lezioni dei maestri della Scuola di Filologia Patavina – Pier Vincenzo Mengaldo

Per la BIBLIOGRAFIA  vedere ne “IL PLACITO CAPUANO”