Il testo dei Diari di Dante è riportato su una colonna principale, affiancata a destra da due colonne di raffronto e complemento, nelle quali sono riportati gli stralci di due testimonianze “speciali”: sono quelle lasciateci da chi ha condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende: in particolare con quelle di Sergio Quaglino e di Luciano Scalone. Il primo è stato un ufficiale che ha scritto un libro di assoluta valenza memorialistica storica, descrivendo fatti, luoghi e persone coniugando in un perfetto equilibrio la passione determinata dagli eventi con il manifestarsi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, che ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.
La disponibilità di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari di Dante ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone le note appaiono alla fine di ciascun blocco.
Nelle colonne di raffronto e complemento, il racconto di Dante è affiancato e correlato a destra anche da:
– Cronologia essenziale internazionale
– Note esplicative o a commento del testo
– Collegamenti esterni o ad altri articoli interni sullo stesso tema (Categoria “EXTRA”, per esempio)
– Immagini e mappe
Il collegamento tra il contenuto dei Diari e quello dei due testi principali di raffronto è segnalato con una nota (in apice) solo se il nesso è specifico e circostanziato, altrimenti il raffronto è lasciato alla cura ed all’interesse del lettore con l’ausilio delle date, evidenziate all’uopo in grassetto su tutti e tre i testi.
Il collegamento tra parti del contenuto del testo dei Diari ed elementi presenti nelle colonne di raffronto e complemento (comprese parte delle immagini) è segnalato da una sottolineatura. Alcuni elementi presenti nella colonna di complemento (comprese alcune altre immagini) hanno invece solo un riferimento generico con il racconto e sono quindi privi di un collegamento specifico.
[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Le immagini con bordo e didascalia di color cremisi provengono dalla raccolta pesonale di Dante.
Qui di seguito sono riportati ulteriori formati utilizzati per ulteriori contenuti.
Cronologia essenziale
Note relative al testo dei Diari.
Testo tratto dal libro del Ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal libro del Bers. Luciano Scalone
All’alba del quarto giorno, al campo, invece della sveglia si sentì suonare il “caffè”. Di questo non si sapeva nulla. «Dove andremo? Cosa faremo?» Le reclute specialmente si davano da pensare. E così fu tutto pronto e tutto caricato: si parte, si incomincia a pedalare, giunge la sera, sappiamo che erano stati fatti 118 chilometri e ci fermiamo a Condove, un paese a nord di Torino. Dover passare vicino a Torino e non potersi fermare! Diedi a tutti la notizia, pure alla giovane Elvira, che subito mi rispose e pure alla Gilda. Come fu destino nella vita, ci tolgono il cappello piumato e ci danno l’elmetto: «Già andiamo bene!» Per diversi giorni facemmo istruzioni e lì, oltre alla posta che io aspettavo, mi giunge notizia della Giuditta, che aveva avuto il mio indirizzo da un bersagliere imboscato alla Casa dei Bersaglieri e mi scrisse. Qua poi avvenne che le tre, Gilda Giuditta e Rosetta, si sono incontrate ed ebbero a bisticciarsi loro tre per Dante, ma, ben compreso che la Gilda sapeva di aver ragione e mi spiegava tutto, le altre due qualche volta mi davano loro notizie, ma, della bisticciata tra loro, nulla mi fecero sapere.
Qua la sorella Rosa incomincia a pensare a suo fratello: già si parlava della Francia e così avvenne che la sera del 10 giugno 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Francia e dopo alcuni giorni avvenne la nostra partenza. La compagnia era comandata dal tenente Racchi, che troppa era la sua bontà.[1]
Il giorno 16 giugno 1940, adunata in piazza e si parte. Alla partenza si sente il colonnello Scognamiglio che ci dice che a mezzanotte bisogna essere a Susa. Avanti e pedala, si marciò tutta la notte; ma la maggior parte della strada era in salita e troppa era la fatica: un collega del XXXI battaglione moriva per la strada. Giunti al Moncenisio, subito a fare la tenda in una pineta, mentre pioveva che Dio la mandava. Fatte le tende, trovammo il posto dove accantonarci. Già stavamo a riposare, nemmeno mezz’ora, poi bisogna bagnarsi per disfare le tende, dove già avevamo steso la paglia che avevamo dovuto prendere in una soffitta buia. Intanto giù acqua, eppur dovemmo prendere le armi che stavano sul motocarrello e farci la pulizia, come poi alle bici.
E passò anche il giorno 17 giugno, poi, la notte entrando nel 18, abbiamo riposato tranquilli. Subito il mattino a chi aveva le scarpe un po’ rotte ne fu dato un paio di nuove, come pure tutti gli altri oggetti di corredo. Tutti si aveva la stessa idea: «Qua forse andiamo bene!». Intanto giunse l’ordine che il battaglione doveva ripiegare verso la metà della salita da noi fatta la notte prima. Sempre giù pioggia, tutti bagnati si scendeva per la lunga discesa e la notte passò proprio tutta sotto l’acqua lungo la strada.
Al mattino del 19 giugno, il comandante di battaglione, maggiore Mennuni, raduna tutto il suo battaglione e poi ci fu una predica, ma proprio al togo[2] Lì vicino a noi c’era una batteria della nostra artiglieria, che sparava da matti, mentre lungo la strada ne passava di tutte le parti: fanteria, alpini, artiglieria, carri armati e noi. È un viavai che c’era da aprirsi bene gli occhi. Viene la sera del 19 giugno, si parte e ancora si sale. Giunti prima del Moncenisio, il portaordini del maggiore rimase ferito dalle schegge da un colpo di artiglieria francese e, poi ho saputo, dovettero tagliargli la gamba destra. La cucina del XXXI battaglione fu raggiunta in pieno da una cannonata lì vicino, che la buttava per aria, con due cucinieri morti e qualche ferito: proprio si cominciava ad andar bene! Pensarono di cambiare strada dal punto dove il battaglione si trovava e con gran fatica la notte passò sempre camminando.
Al mattino del 20 giugno, siamo al Piccolo Moncenisio e lì eravamo: 40 bersaglieri, 10 Nizza cavalleria e 10 reggimento carristi. Bisogna scendere ma i carri non passano, il Nizza nemmeno e c’era da caricare tutti i cavalli. I bersaglieri si prendono le loro armi e le cassette, le bici a mano e giù. La nebbia fitta, quella tutta nostro favore, altrimenti guai alle cannonate, e giù e giù. Già tre ore che si camminava e Dante strappava la catena della bicicletta: niente di male, l’annodo sul manubrio e sempre avanti, per fortuna eravamo in discesa e Dante si arrangiava a stare assieme ai compagni. Verso le 10 siamo nella vallata e tutti salgono in bici. Di colpo incontriamo un povero fante che si teneva ancora in mano la briglia del suo mulo, ma, poveretto, era morto lui e anche il mulo[3] e poi, più avanti, tanti altri ai lati della strada, chi feriti e chi morti. Coraggio, viene il bello! Avanti un mezzo chilometro c’è il tenente che mi avvisa: «Il primo ponte che trovate, passatelo uno per uno e di corsa». E avanti! Dante arriva sul ponte e gli cade la catena dalla bicicletta: altro che prenderla! Avanti più forte e dopo pochi minuti arrivò una cannonata sul ponte, che saltava tutto per aria. La strada incominciava ad essere bella, viene l’ordine di fermarsi ed intanto la fame aumentava. Diedero l’ordine di mangiare le scatolette di carne che avevamo nel tascapane e fu un lampo. Dante pensava di più alla bici, perché era come essere senza gambe. Ebbe un’idea e decise. A poca distanza c’era una bici da meccanico, Dante si avvicina, fa finta di niente e apre la borsa: dentro c’è una catena, la prende e via! Era rotta anche lei, ma si prende un pezzo di filo di ferro e la catena andava molto bene: il proverbio dice «Arrangiati!» Intanto le cannonate fioccavano sulla montagna che avevamo di fronte. Erano le tre sempre del giorno 20, bisogna andare avanti con la prima compagnia e il primo plotone mitraglieri, e giù per la strada tutta piuttosto in discesa. Si facevano domande ai conducenti della fanteria, che tornavano indietro impauriti e dicevano che non si poteva andare avanti, che non c’è stato mezzo. Il colonnello prende l’idea di cambiare strada e così si fa dietrofront e avanti! Siamo al tramonto, di mangiare non se ne parla e il tascapane è ormai vuoto. Il nostro pensiero era di ritirarsi e riposarsi un po’, ma altro che riposarsi: si prende una stradicciola a destra di quella maestra, che penetrava nelle altre montagne. Il tempo era brutto, con nebbia e acqua; cammina e cammina, la strada è diventata una mulattiera e incominciava a farsi buio. La bicicletta non si può più condurla a mano e ci dànno l’ordine di piegare la bici e di proseguire “a macchina in spalla”. Qua andiamo bene: 35 chili di bici e 10 della canna dell’arma, il tascapane contenente quattro pacchetti di munizioni, la maschera e la bestia era carica abbastanza. Il bello era che si scivolava, si facevano quattro passi avanti e due indietro, ormai era buio e non si vedeva niente; dopo dieci passi mancava il fiato. Dopo due ore di cammino, i tre battaglioni erano tutti mischiati. Dopo la mezzanotte dalla voce riconobbi l’amico Pierino di Casteggio e Franchini di Broni: ci salutammo e ci facemmo coraggio. Colpo per colpo si fece giorno, sempre veniva giù acqua, tutti bagnati, il tascapane vuoto, le compagnie erano tutte mischiate, non si trovavano più i compagni e nemmeno gli ufficiali.
Il 21 e 22 giugno si passarono tutto il giorno in un pineto, dove si cercava di ripararsi, ma ormai la gran quantità della pioggia bagnava dappertutto. Si leccavano i tascapani con la lingua, per raccogliere le briciole che rimanevano e tutti erano senza fumare. Quasi sembrerebbe una cosa impossibile che nel mese di giugno, con acqua e neve, sembrava proprio di essere in pieno inverno. Intanto tutte le compagnie si erano riunite e i bersaglieri erano con tutto il loro equipaggio e armamento, ma le forze erano allo zero.
La mattina del 23 giugno bisogna andare avanti: non sembrava vero, eppure siamo andati avanti! E già eravamo alla bella altezza di 2000 metri! La mulattiera era piana ma piena di fango, la bici bisognava portarla in spalla perché non giravano più le ruote nel fango e non c’era più la forza per spingerla. Colpo per colpo siamo nel pomeriggio e ad un bel punto ci troviamo su un pezzo di montagna scoperta, ben vista dal nemico. La nebbia si alzava un pochino e quasi tutto il battaglione è rimasto accanto al torrente, ai piedi della montagna da noi attraversata. Così è la guerra, nessuno si avvisa e arrivarono due cannonate a distanza di 50 metri, cosicché nella bellezza di cinque minuti tutti i bersaglieri erano di là dal torrente o dentro nell’acqua. Ormai eravamo tutti bagnati, ma, quando sì tratta della pelle, dentro con le bici in spalla e sotto l’altra montagna per essere riparati. Intanto appariva qualche ritardatario, mentre al principio della montagna le cannonate fioccavano, destino vuole senza nessun ferito. Il battaglione, tutto riunito, aspettava ordini. Davanti c’era XXXI, poi il XXVI e il XXIX era andato dietro di noi.
Erano le tre del 24 giugno e non parliamo più dalla fame. Da un portaordini sappiamo che nella serata si doveva tornare indietro; sarà vero sì, sarà vero no, ma intanto si riposava, guardavamo lo scoppio delle cannonate e niente altro e quasi non ci sembrava di essere in guerra. Giunge il tramonto e si deve proprio tornare indietro, ma, oheilà,[4] le cannonate sempre arrivavano. Questa è bella: sono le dieci, è notte, un bel numero di noi era già in cammino, ma passano due bersaglieri e ci dicono: «Coraggio ragazzi, che a mezzanotte firmeranno l’armistizio!» Sarà vero, ma chi lo sa? Può darsi. Ed intanto eravamo lì per saltare il torrente, ma, a poca distanza, arriva una cannonata e il sottotenente Tealdo, comandante del plotone, fa due salti indietro e non si vede più. Siamo in due, l’amico Guarneri, mi porta treppiede ed io: cosa facciamo? Con coraggio, aiutandoci, ci siamo arrangiati a portare la bici dall’altra parte del torrente e avanti in silenzio, che sembrava si fosse condotti alla morte, con davanti la montagna scoperta. Ma riuscivamo a passarla e ci fermammo un po’ a riposare. Un cinque minuti di riposo e poi avanti, finché troviamo sulla mulattiera il bersagliere Rubino, un nostro compagno, e gli si domandava ogni cosa, ma non parla; così lo prendiamo e lo mettiamo seduto vicino alla parete della mulattiera e avanti ancora. Dopo un dieci minuti di cammino, troviamo tutti i nostri compagni che erano partiti prima, mentre c’era un’adunata del battaglione. Lasciamo andare per terra la bici e ritorniamo indietro a prendere il povero Rubino, lo mettiamo vicino ad un albero e non si desiderava altro che coricarsi per terra, sebbene fosse bagnato.
Ma dormire non si può: caso che mai non mi aspettavo, ad un bel momento, e già eravamo alle due del mattino del 25 giugno, sento la voce del nostro maggiore che dice: «Adesso facciamo sveglia a tutti e andiamo giù sulla strada, così a giorno siamo giù tutti». Dante e l’amico Guarneri erano lì, fra gli altri amici coricati e coperti sotto il telo, tutti eravamo spinti ad alzarci, ma mancavano le forze. Il capitano Mei, comandante della seconda compagnia, trovatosi col maggiore, già da parecchie volte gridava alla sveglia, ma, ripeto, nessuno se la sentiva di alzarsi. Poi cambia e invece di chiamare la sveglia, qualcuno grida: «Allarmi!». Chi sarà stato? Chi lo pescava? Chi non pensava alla morte? Dante, che aveva sentito tutto, era in ginocchio che stava radunando la sua roba vicino all’amico, quando, ad un tratto, fischiarono una decina di colpi di moschetto e delle grida salirono al cielo: erano tre amici, poveri ragazzi, uno morto e due feriti gravi. Questi sono i guai che succedono e Dante non era ancora persuaso di essere in guerra!
Intanto cessò il fuoco e Dante sentì la necessità di sdraiarsi a terra, ché non ne poteva più. Tutto si calmò. Poi ci fu da aiutare i due feriti e da portare giù l’altro poveretto, ma a Dante veniva a mancare anche quella poca forza che ancora si teneva, nel vedere sangue e sentire lamentarsi; i due feriti, dopo essere stati medicati, venivano portati alla strada, così come il poveretto. Intanto anche quelli che avevano avuto paura delle cannonate giunsero tutti lì e si meravigliarono del fatto, ma ormai non c’era più rimedio. Sono così le quattro, tutti ci mettiamo in cammino per scendere, sulla strada trovammo le gallette e le scatolette che ci aspettavano. Sono le undici e la colonna arriva sulla strada: c’era chi era rimasto quattro giorni senza mangiare. Assieme alle gallette c’erano biscotti e zucchero e tutti andavano all’assalto, cercando di farsi una scorta. Coraggio, la guerra è finita, a mezzanotte hanno firmato l’armistizio! La nostra debolezza tutta sparì in pochi minuti. Dante, dopo aver distribuito le scatolette e le gallette ai compagni di squadra, si preoccupava di controllare che tutto il suo materiale avuto in consegna fosse nelle proprie mani, tutto a posto, nessuno mancava e comunicò le novità al tenente. Tutti contenti, seduti sulla riva del fosso, sotto i raggi del sole, asciugavamo i panni. Ormai sembravamo di lamiera, tutti sporchi di fango e con la barba lunga. Poco dopo il battaglione si incamminava sulla strada dove non ci fu mezzo di andare avanti; allora giù un quattro chilometri in una gola di una montagna e proprio vicino alla strada un grosso spavento: un mucchio di poveri ragazzi morti e lungo la strada una lunga fila di feriti, chi sulle barelle, chi per terra, chi si lamentava, chi leggeva e chi guardava le foto che si teneva in tasca. Questo fu per noi un vero dispiacere e non so cosa dire per spiegarmi. Ebbene pazienza, sempre si pedalava, di tanto in tanto qualche buco in mezzo alla strada fatto dalle cannonate. Dove si va? Ma chi lo sa? Siamo verso le tre del pomeriggio e arriviamo alla vista, sotto la strada, a destra, di un paesetto e proprio lì ci siamo fermati: il paesetto si chiamava Bramans, era tutto disabitato e proprio vicino al paese sì piantarono le tende. Qua l’appetito era al cento per cento: uno di qua, uno di là, si va dentro nelle case a far cuocere le patate o a fare la polenta e se ne fecero di tutti i colori. Senza dir niente, l’amico Guerrini si allontanava e dopo una mezz’ora arriva accanto alle tende con un sacco in spalla. Cosa ci aveva dentro? Otto pagnotte, una grossa scatola di tonno da cinque chilogrammi, due pacchi di candele e quattro o cinque pezzi di sapone. Chiama un altro di andare con lui e mi arriva lì con un secchio di cognac e un tino di trenta litri pieno di vino: tutto sotto la tenda e avanti a mangiare e bere e, a dire la verità, ci siamo anche ubriacati tutti e poi giù a dormire.
Qua passava il giorno 25 giugno e poi, il 26 mattino, tutti ci siamo fatti la barba e un po’ di pulizia. Verso mezzogiorno fanno adunata del battaglione: cosa c’è? Ma chi lo sa? Come mai adunata? Tanti andranno attorno al paese a fare rastrellamento e un bel numero, fra i quali anch’io, andiamo a fare le buche per quei poveri ragazzi che il giorno prima avevamo visto. Coraggio, anche questo fu fatto! A un povero artiere, prima di coprirlo, gli hanno levato le scarpe perché erano nuove. Nello stesso cimitero furono coperti pure i due bersaglieri. Verso sera ritorniamo alle nostre tende per mangiare e ognuno si arrangia da sé sotto la tenda. Il bersagliere Barbero ancora dormiva dalla sbornia presa la sera prima. Verso sera arriva un portaordini: cosa sarà venuto a fare? Era venuto a portare l’ordine che l’indomani mattina si doveva partire per rientrare nella nostra Italia.
Così, il 27 giugno, tutti si preparano la loro bicicletta affardellata, sono le sette e si parte. Siamo sulla strada maestra, bellissima, tutta asfaltata, ma quasi tutta in salita. Tre paesi furono passati e un ponte che i francesi avevano fatto saltare per aria. Alle undici ci siamo incontrati con i cucinieri che ci hanno portato il caffè e tutti i moto carrelli per caricare le armi e le cassette. Un’ora di fermata e poi avanti, la strada sempre più bella ma sempre più ripida: coraggio e avanti. Dopo tante salite ci siamo: si vede la caserma dove ci siamo fermati quella notte che siamo scappati giù. Lì ci fermiamo e ci dànno pane, pastasciutta e formaggio e ci siamo riempiti per bene. Erano le quattro e si riprende la bicicletta e giù per quella bella discesa che mai non finiva. Quasi dopo due ore, sono le sei, siamo a Susa, ma non è ancora basta, sempre avanti, la strada era piana ma eravamo stanchi. Passiamo Bussoleno e ancora si pedala; si fa sera, si gira a destra, la strada cambia e si sale, ma a poca distanza c’è un paese che abbiamo attraversato tutto. Ebbene appena fuori dal paese c’è un bel bosco e lì abbiamo fatto la nostra casa. Ormai erano le nove, il rancio non c’è, neanche la paglia, ma si dorme lo stesso.
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[1] – Troppa era la sua bontà. – Evidentemente il carattere di quest’ufficiale deve aver colpito particolarmente Dante, che ribadirà due anni dopo il giudizio sul retro di una fotografia in cui sono ritratti insieme. Di questo ufficiale non ho trovato traccia né tra i caduti, né tra i decorati.
[2] – Al togo. – Termine per me nuovo, mai sentito, nemmeno da parte di mio padre, che invece qui lo usa correttamente, stando almeno al vocabolario Treccani, che recita: tògo, agg. [dall’ebr. ṭōb «buono, eccellente»] (pl. m. -ghi). – Voce scherzosa in uso in varî dialetti o gerghi come attributo generico di cosa o persona che si giudica ottima, eccellente, di gran classe: è stato un pranzo togo; che toga, quella ragazzina!
[3] – Un povero fante… – Un’immagine che ha colpito tanti soldati, che la annotano altri soldati nei loro diari, come fa anche il bersagliere Scalone nel suo diario.
[4] – Oheilà – Dialettale, nell’uso di certe zone lombarde: corrisponde ad ohilà ed esprime sorpresa, stupore, meraviglia, accompagnati da un richiamo di attenzione altrui; di grafia non codificata (ohè + ehilà?).
Giorno
8 giugno:
alle prime luci dell’alba, fu dato l’ordine di disfare le tende di affardellare le biciclette. Si parte in direzione di Torino, ma, quando stavamo per arrivare, deviamo a destra, per fermarsi poi a Caprie, dopo aver percorso circa 125 km di strada in bicicletta in assetto di guerra. Caprie si trova a 40 km dal confine italo francese, in Val di Susa.
Giorno
10 giugno 1940:
Mussolini parlò agli italiani e disse che l’ora del destino era scoccata e che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia. Proprio mentre Mussolini stava parlando, noi da Caprie sentivamo già il rombo dei cannoni. Gli occhi di noi bersaglieri erano lucidi, ci guardavamo in faccia come per affermare: «Ci siamo!» Mussolini aveva chiesto alle piazze: «Volete la guerra?» E le masse rispondevano di sì. La stessa notte aeroplani francesi a vennero bombardare la città di Torino. Noi ci trovavamo a circa venti chilometri ed eravamo nel cerchio di tiro della contraerea. Fu la prima notte di paura, sia per il fracasso delle bombe, sia nel pensare a quello che ci aspettava nei giorni futuri.
La giornata del
16 giugno
fu molto movimentata: controllo della funzionalità delle armi, accertamento delle munizioni in possesso da ogni singolo bersagliere, rafforzamento dei viveri di scorta. Tutti i mezzi e gli apparati del reggimento erano in movimento e si notava chiaramente che ci si preparava ad andare al fronte. Infatti, la mattina del
17 giugno 1940,
mentre pioveva intensamente, il 4o Reggimento bersaglieri lasciò Caprie e si diresse verso la frontiera passando per Susa, dove arrivammo in sella alle nostre biciclette. Passata Susa, ci troviamo di fronte ad una grande salita dove c’era una robusta strada che serpeggiava inerpicandosi nella montagna, chiamata “Strada del Moncenisio”. Eravamo tutti zitti, nessuno parlava o chiedeva alcunché, tenevamo le orecchie aperte e le bocche cucite. Orecchie aperte per percepire le tante notizie che rimbalzavano continuamente e per sentire gli spari che provenivano dalla frontiera, che più andavamo avanti e più vicini e violenti sentivamo. Eravamo di fronte a quella lunga e dura salita, con le biciclette in mano, spingendo con la forza delle braccia: quando partimmo da Susa pioveva, ma, giunti in cima al Moncenisio, nevicava. Sì, il giorno
17 giugno 1940
sul Moncenisio nevicava. Arrivati al primo castello del Moncenisio, ci fermammo: eravamo tutti bagnati fino alle ossa, ci sparpagliarono per compagnia in lungo e in largo per la montagna e la notte la passammo lì. Fu la prima notte che si trascorreva dormendo sopra la neve, mentre ogni tanto un colpo di cannone veniva a svegliarci. Le mitraglie e i fucili, al fronte, strepitavano continuamente, mentre dalla strada, per tutta la notte, continuarono a passare mezzi e soldati che andavano verso il fronte.Tutto questo infondeva paura e non potevamo che pensare al pericolo verso il quale stavamo andando incontro e i nostri cuori si facevano piccoli, in mezzo alla neve fragrante.
La mattina del
18 giugno
fu per noi una grande sorpresa sentire dal nostro ufficiale che si ritornava indietro. Questo ci ha messo di nuovo in allegria, andare giù è stato un vero piacere: diciotto chilometri, otto ore per salire, per scendere è bastata mezz’ora. Correvano tante voci in merito alla nuova destinazione del nostro reggimento, ma la verità fu chiara solo il
20 giugno 1940,
quando arrivo un’autocolonna di autocarri in autobus ci misero a bordo e ci portarono l’altra volta sul Moncenisio, nello stesso posto dove ci trovavamo due giorni prima.
La mattina seguente proseguimmo verso la frontiera; alle sei avevamo passato il confine, dove i due eserciti, due giorni prima, avevano combattuto la prima battaglia. Sul terreno, oltre al filo spinato, c’era tanto altro materiale. Dopo la frontiera si profilava una grande vallata. Noi scendemmo da una mulattiera che calava a picco dal Moncenisio fino a valle, dove c’era il fiume da attraversare. Far transitare tutto il reggimento non fu un problema da poco, trascinandosi dietro le biciclette con tutto il fardello, passò tutta la giornata … una faticaccia!
Passato il torrente l’ordine era di montare in sella quanto più presto possibile, attraversare un tratto di strada in pianura e raggiungere in fretta i margini di un grande bosco, perché quel tratto di strada era battuto dai cannoni francesi che sparavano dal forte di Bramans.
Dopo aver percorso circa trecento metri oltre il ponte, la strada era sbarrata da soldati e muli morti. Passando non potevo che guardare quello scenario. Mi impressionò la vista di un mulo, con tutto il carico ancora addosso e del suo conducente, entrambi morti: il soldato, faccia a bocconi, teneva ancora le redini del suo mulo con tutte e due le mani. Erano italiani! Mi chiesi perché il soldato tenesse ancora le redini del mulo: pensai che fosse stato forse il dolore, una volta colpito a morte o perché temeva che il suo mulo potesse andarsene per conto suo, abbandonandolo in quel luogo. Un interrogativo che rimase senza risposta, visto che i protagonisti erano entrambi morti, legati l’uno con l’altro attraverso le redini: a noi che passavamo, lasciava un’impressione strana e misteriosa. Quello che avevo colpito la mia attenzione era stata la disposizione plateale e commovente dei due corpi senza vita.
Fu il primo incontro con la morte in quell’odiata e inutile guerra! Non nascondo il vero nel dire che quei due esseri rimasero per sempre impressi nella mia mente, anche se, più avanti nella guerra, avrei visto ahimè ben di peggio.Quello che mi aveva colpito […] era stata la disposzione plateale e commovente dei due corpi senza vita. […]
Ed in quelle condizioni ci mettemmo in cammino. La mulattiera saliva diritta attraverso il bosco, in direzione Bramans, da dove provenivano le cannonate.
Per saperne di più sulle variazioni dei Confinia seguito del Trattato di pace del 1947.
Il reggimento stabilì il campo estivo ad Andorno Micca, zona dimostratasi già negli anni precedenti particolarmente adatta a tale scopo, sia per la possibilità di accantonamenti e accampamenti, sia per la cordiale accoglienza della popolazione del luogo, ed anche perché, dopo tutto, nel Biellese i bersaglieri erano ben visti, trovandosi a Biella, fra l’altro, la tomba del fondatore del corpo, Alessandro Lamarmora. Dopo solo pochi giorni di permanenza ad Andorno, quando appena si era terminata la sistemazione dei reparti ed organizzati i vari servizi, avvenne un fatto imprevedibile.
Una notte, circa alle tre, la tromba suonò improvvisamente l’allarme. Questo era un allarme abbastanza serio, poiché non serviva dare inizio a qualche esercitazione, bensì ad effettuare al più presto il trasferimento del reggimento nella zona di Susa, per avvicinarsi al confine francese. L’ordine lasciò evidentemente tutti perplessi ed anche parecchio preoccupati, poiché, dato il corso degli avvenimenti bellici in Francia, era ormai convinzione generale che i francesi avrebbero ceduto presto le armi, senza in alcun modo costringere l’Italia ad intervenire, cosa che sembrava poi in quel particolare momento, del tutto assurda ed inutile.
Il reggimento lascio così Andorno e, nuovamente in bicicletta, giunse a Torino. Senza attraversare la città, ma passando per la periferia, proseguì subito per la zona di Susa, ove il giorno successivo si attendò. Il
7 giugno,
intanto, arrivò da Torino, ove era stato costituito al comando del capitano Barli, un battaglione di complementi, che fu immediatamente sciolto, andando i bersaglieri che lo componevano a colmare i vuoti che vi erano nei reparti in relazione agli organici previsti.
IL 4° REGGIMENTO BERSAGLIERI ALL’INIZIO DELLE OSTILITA’ (10 GIUGNO 1940)
Comandante: colonnello Guglielmo Scognamiglio
– XXVI battaglione – comandante maggiore Mennuni
– XXIX battaglione – comandante maggiore Ugo Verdi (**)
– XXXI battaglione – comandante maggiore Ferrari
– 12a Compagnia motociclisti – c.te capitano De Martino
– Compagnia comando reggimentale
Ogni battaglione è composto da:
– 3 compagnie fucilieri
– 1 compagnia mitraglieri
– 1 compagnia comando btg.
Forza complessiva: circa 1800 uomini
Armamento:
– Moschetto Carcano mod. 91/38 TS
– Fucili mitragliatori Breda mod. 30
– Mitragliatrici Breda mod 37
– Bombe a mano SRCM Mod. 35
Equipaggiamento: estivo
(**)- Maggiore Ugo Augusto Verdi
Originario di Canneto Pavese, vicino a Stradella, sarà comandante del reggimento nel settembre del 1943 al momento dell’armistizio. Medaglia d’argento al valore militare, deportato in Germania e successivamente ucciso dai tedeschi per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale, dopo aver salvato i suoi uomini da rappresaglie naziste. Torneremo su di lui e su questa vicenda nei prossimi quaderni.
I primi giorni di guerra
[10 giugno 1940]
A sera, a mensa, siamo taciturni e pensierosi. Il colonnello, quasi seguendo il corso dei nostri pensieri, ad un tratto dice: – Stasera siamo qui tutti riuniti punto speriamo di ritrovarci ancora tutti a guerra finita! – Augurio spontaneo o triste presentimento? Non saprei. Certo son parole strane che ci lasciano perplessi. Ed è anche strano il fatto che ci troviamo in guerra, all’improvviso, diciamo così senza una preparazione… spirituale.
Questa dichiarazione di ostilità verso Francia e Inghilterra ci sembra quasi una pratica burocratica, di cui però intuiamo inconsciamente un seguito di orrori e di morte, che si fa stringere il cuore.
La stessa notte avviene una incursione di aerei francesi su Torino. La dodicesima compagnia mitraglieri ciclisti, che all’annuncio della dichiarazione di guerra aveva subito sistemato le mitragliatrici, dotate di congegno di puntamento contraereo, in posizione di tiro, occupa le postazioni ma non può intervenire: troppo alti gli aerei, oltre alla città. Dalle alture il comandante di compagnia e gli ufficiali vedono i bengala lanciati su Torino. Sapremo il giorno presso che ci sono stati alcuni morti.
Intanto il reggimento completa il suo equipaggiamento ed armamento, andando a rifornirsi presso i magazzini del deposito chi è comandato ai rifornimenti a Torino può così vedere, a sopraggiungere della notte, la città al buio: si è iniziato l’oscuramento.
Tutto il fronte alpino è in fermento, in attesa del momento decisivo per l’avanzata. Il primo ordine di movimento viene ben presto e riguarda per ora solo il XXVI battaglione, il quale deve effettuare una puntata esplorativa nella piana del Moncenisio, sino all’ospizio.
Il giorno 20,
il XXVI esegue l’ordine ricevuto. In bicicletta, nonostante il tempo inclemente, si spinge verso l’obiettivo stabilito. Appena superate le “Scale”, il battaglione si inoltra nella piana del Moncenisio, ove un’unica rotabile si staglia nettamente in mezzo ai prati. Tutto intorno nella nebbiolina si intravede la cerchia dei monti che segnano il confine e dietro a questa, gli altri massicci montani in territorio francese, ove formidabili apprestamenti difensivi sono stati predisposti sin dal tempo di pace. Veramente sono indicazioni la cui veridicità sarà presa più avanti, durante i prossimi giorni, e a prezzo di sangue dei nostri soldati. […]
Il 21 giugno
il reggimento nuovamente riunito a Susa. Ma oggi è una gran giornata per tutti punto è giunto l’ordine dell’avanzata generale su tutto il fronte.
Il 4o bersaglieri è tenuto di rincalzo e, salvo ordini diversi, seguirà l’avanzata della fanteria e dei carristi per buttarsi avanti non appena effettuato lo sfondamento. Infatti nel pomeriggio deve già raggiungere le “Scale”. I reparti, parte in bicicletta e parte su autocarri messi a disposizione dal 1° autocentro, si trasferiscono nella località stabilità, pronti a proseguire la marcia al primo ordine.
Lo schieramento italiano sul fronte occidentale all’inizio delle ostilità.
La relazione del comandante del reggimento è molto chiara ed esauriente virgola e non ha quindi bisogno di ulteriori commenti. Si può accennare soltanto al fatto che dal 23 al 25 giugno nessun rifornimento giunse ai battaglioni operanti. Fu consumata la razione viveri di scorta il primo giorno, poi si visse di scorza d’albero. […]
Intanto, appena cessate le ostilità, il reggimento si riorganizza e prima di tutto provvede al recupero delle salme dei caduti virgola che vengono composte nel piccolo cimitero di Bramans,, accanto a quelle dei soldati appartenenti agli altri reparti operanti.
Nel paese deserto e quasi distrutto gironzola fra le macerie un cane pastore. Qualche tozzo di pane, datogli dai bersaglieri che hanno trovato qualcosa da mangiare chissà dove, lo rende più mansueto e più docile. I bersaglieri lo prendono con sé e quello li segue. Gli mettono il nome “Bramans”, il paese dove è stato trovato. Ed il cane Bramans seguirà i bersaglieri del 4o per tanti mesi ancora, anche sino in terra d’Albania…
Da ITALIA IN GUERRA (Massimo Sani) – Immagine sovrapposta: https://www.montechaberton.it/