All’alba del quarto giorno, al campo, invece della sveglia si sentì suonare il “caffè”. Di questo non si sapeva nulla. «Dove andremo? Cosa faremo?» Le reclute specialmente si davano da pensare. E così fu tutto pronto e tutto caricato: si parte, si incomincia a pedalare, giunge la sera, sappiamo che erano stati fatti 118 km e ci fermiamo a Condove, un paese a nord di Torino. Dover passare vicino a Torino e non potersi fermare! Diedi a tutti la notizia, pure alla giovane Elvira, che subito mi rispose e pure alla Gilda. Come fu destino nella vita, ci tolgono il cappello piumato e ci danno l’elmetto: «Già andiamo bene!» Per diversi giorni facemmo istruzioni e lì, oltre alla posta che io aspettavo, mi giunge notizia della Giuditta, che aveva avuto il mio indirizzo da un bersagliere imboscato alla Casa dei Bersaglieri e mi scrisse. Qua poi avvenne che le tre, Gilda Giuditta e Rosetta, si sono incontrate ed ebbero a bisticciarsi loro tre per Dante, ma, ben compreso che la Gilda sapeva di aver ragione e mi spiegava tutto, le altre due qualche volta mi davano loro notizie, ma, della bisticciata tra loro, nulla mi fecero sapere.
Qua la sorella Rosa incomincia a pensare a suo fratello: già si parlava della Francia e così avvenne che la sera del 10 giugno 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Francia e dopo alcuni giorni avvenne la nostra partenza. La compagnia era comandata dal tenente Racchi, che troppa era la sua bontà.10
Il giorno 16 giugno 1940, adunata in piazza e si parte. Alla partenza si sente il colonnello Scognamiglio che ci dice che a mezzanotte bisogna essere a Susa. Avanti e pedala, si marciò tutta la notte; ma la maggior parte della strada era in salita e troppa era la fatica: un collega del XXXI battaglione moriva per la strada. Giunti al Moncenisio, subito a fare la tenda in una pineta, mentre pioveva che Dio la mandava. Fatte le tende, trovammo il posto dove accantonarci. Già stavamo a riposare, nemmeno mezz’ora, poi bisogna bagnarsi per disfare le tende, dove già avevamo steso la paglia che avevamo dovuto prendere in una soffitta buia. Intanto giù acqua, eppur dovemmo prendere le armi che stavano sul motocarrello e farci la pulizia, come poi alle bici.
E passò anche il giorno 17 giugno, poi, la notte entrando nel 18, abbiamo riposato tranquilli. Subito il mattino a chi aveva le scarpe un po’ rotte ne fu dato un paio di nuove, come pure tutti gli altri oggetti di corredo. Tutti si aveva la stessa idea: «Qua forse andiamo bene!». Intanto giunse l’ordine che il battaglione doveva ripiegare verso la metà della salita da noi fatta la notte prima. Sempre giù pioggia, tutti bagnati si scendeva per la lunga discesa e la notte passò proprio tutta sotto l’acqua lungo la strada.
Al mattino del 19 giugno, il comandante di battaglione, maggiore Mennuni, raduna tutto il suo battaglione e poi ci fu una predica, ma proprio al togo.11 Lì vicino a noi c’era una batteria della nostra artiglieria, che sparava da matti, mentre lungo la strada ne passava di tutte le parti: fanteria, alpini, artiglieria, carri armati e noi. È un viavai che c’era da aprirsi bene gli occhi. Viene la sera del 19 giugno, si parte e ancora si sale. Giunti prima del Moncenisio, il portaordini del maggiore rimase ferito dalle schegge da un colpo di artiglieria francese e, poi ho saputo, dovettero tagliargli la gamba destra. La cucina del XXXI battaglione fu raggiunta in pieno da una cannonata lì vicino, che la buttava per aria, con due cucinieri morti e qualche ferito: proprio si cominciava ad andar bene! Pensarono di cambiare strada dal punto dove il battaglione si trovava e con gran fatica la notte passò sempre camminando.
Al mattino del 20 giugno, siamo al Piccolo Moncenisio e lì eravamo: 4° bersaglieri, 1° Nizza cavalleria e 1° reggimento carristi. Bisogna scendere ma i carri non passano, il Nizza nemmeno e c’era da caricare tutti i cavalli. I bersaglieri si prendono le loro armi e le cassette, le bici a mano e giù. La nebbia fitta, quella tutta nostro favore, altrimenti guai alle cannonate, e giù e giù. Già tre ore che si camminava e Dante strappava la catena della bicicletta: niente di male, l’annodo sul manubrio e sempre avanti, per fortuna eravamo in discesa e Dante si arrangiava a stare assieme ai compagni. Verso le 10 siamo nella vallata e tutti salgono in bici. Di colpo incontriamo un povero fante che si teneva ancora in mano la briglia del suo mulo, ma, poveretto, era morto lui e anche il mulo 12 e poi, più avanti, tanti altri ai lati della strada, chi feriti e chi morti. Coraggio, viene il bello! Avanti un mezzo chilometro c’è il tenente che mi avvisa: «Il primo ponte che trovate, passatelo uno per uno e di corsa». E avanti! Dante arriva sul ponte e gli cade la catena dalla bicicletta: altro che prenderla! Avanti più forte e dopo pochi minuti arrivò una cannonata sul ponte, che saltava tutto per aria. La strada incominciava ad essere bella, viene l’ordine di fermarsi ed intanto la fame aumentava. Diedero l’ordine di mangiare le scatolette di carne che avevamo nel tascapane e fu un lampo. Dante pensava di più alla bici, perché era come essere senza gambe. Ebbe un’idea e decise. A poca distanza c’era una bici da meccanico, Dante si avvicina, fa finta di niente e apre la borsa: dentro c’è una catena, la prende e via! Era rotta anche lei, ma si prende un pezzo di filo di ferro e la catena andava molto bene: il proverbio dice «Arrangiati!» Intanto le cannonate fioccavano sulla montagna che avevamo di fronte. Erano le tre sempre del giorno 20,
bisogna andare avanti con la prima compagnia e il primo plotone mitraglieri, e giù per la strada tutta piuttosto in discesa. Si facevano domande ai conducenti della fanteria, che tornavano indietro impauriti e dicevano che non si poteva andare avanti, che non c’è stato mezzo. Il colonnello prende l’idea di cambiare strada e così si fa dietrofront e avanti! Siamo al tramonto, di mangiare non se ne parla e il tascapane è ormai vuoto. Il nostro pensiero era di ritirarsi e riposarsi un po’, ma altro che riposarsi: si prende una stradicciola a destra di quella maestra, che penetrava nelle altre montagne. Il tempo era brutto, con nebbia e acqua; cammina e cammina, la strada è diventata una mulattiera e incominciava a farsi buio. La bicicletta non si può più condurla a mano e ci dànno l’ordine di piegare la bici e di proseguire “a macchina in spalla”. Qua andiamo bene: 35 kg di bici e 10 kg della canna dell’arma, il tascapane contenente quattro pacchetti di munizioni, la maschera e la bestia era carica abbastanza. Il bello era che si scivolava, si facevano quattro passi avanti e due indietro, ormai era buio e non si vedeva niente; dopo dieci passi mancava il fiato. Dopo due ore di cammino, i tre battaglioni erano tutti mischiati. Dopo la mezzanotte dalla voce riconobbi l’amico Pierino di Casteggio e Franchini di Broni: ci salutammo e ci facemmo coraggio. Colpo per colpo si fece giorno, sempre veniva giù acqua, tutti bagnati, il tascapane vuoto, le compagnie erano tutte mischiate, non si trovavano più i compagni e nemmeno gli ufficiali.
Il 21 e 22 giugno si passarono tutto il giorno in un pineto, dove si cercava di ripararsi, ma ormai la gran quantità della pioggia bagnava dappertutto. Si leccavano i tascapani con la lingua, per raccogliere le briciole che rimanevano e tutti erano senza fumare. Quasi sembrerebbe una cosa impossibile che nel mese di giugno, con acqua e neve, sembrava proprio di essere in pieno inverno. Intanto tutte le compagnie si erano riunite e i bersaglieri erano con tutto il loro equipaggio e armamento, ma le forze erano allo zero.
La mattina del 23 giugno bisogna andare avanti: non sembrava vero, eppure siamo andati avanti! E già eravamo alla bella altezza di 2000 metri! La mulattiera era piana ma piena di fango, la bici bisognava portarla in spalla perché non giravano più le ruote nel fango e non c’era più la forza per spingerla. Colpo per colpo siamo nel pomeriggio e ad un bel punto ci troviamo su un pezzo di montagna scoperta, ben vista dal nemico. La nebbia si alzava un pochino e quasi tutto il battaglione è rimasto accanto al torrente, ai piedi della montagna da noi attraversata. Così è la guerra, nessuno si avvisa e arrivarono due cannonate a distanza di 50 metri, cosicché nella bellezza di cinque minuti tutti i bersaglieri erano di là dal torrente o dentro nell’acqua. Ormai eravamo tutti bagnati, ma, quando sì tratta della pelle, dentro con le bici in spalla e sotto l’altra montagna per essere riparati. Intanto appariva qualche ritardatario, mentre al principio della montagna le cannonate fioccavano, destino vuole senza nessun ferito. Il battaglione, tutto riunito, aspettava ordini. Davanti c’era XXXI, poi il XXVI e il XXIX era andato dietro di noi.
Erano le tre del 24 giugno e non parliamo più dalla fame. Da un portaordini sappiamo che nella serata si doveva tornare indietro; sarà vero sì, sarà vero no, ma intanto si riposava, guardavamo lo scoppio delle cannonate e niente altro e quasi non ci sembrava di essere in guerra. Giunge il tramonto e si deve proprio tornare indietro, ma, oheilà,13 le cannonate sempre arrivavano. Questa è bella: sono le 10, è notte, un bel numero di noi era già in cammino, ma passano due bersaglieri e ci dicono: «Coraggio ragazzi, che a mezzanotte firmeranno l’armistizio!» Sarà vero, ma chi lo sa? Può darsi. Ed intanto eravamo lì per saltare il torrente, ma, a poca distanza, arriva una cannonata e il sottotenente Tealdo, comandante del plotone, fa due salti indietro e non si vede più. Siamo in due, l’amico Guarneri, mio porta treppiede ed io: cosa facciamo? Con coraggio, aiutandoci, ci siamo arrangiati a portare la bici dall’altra parte del torrente e avanti in silenzio, che sembrava si fosse condotti alla morte, con davanti la montagna scoperta. Ma riuscivamo a passarla e ci fermammo un po’ a riposare. Un cinque minuti di riposo e poi avanti, finché troviamo sulla mulattiera il bersagliere Rubino, un nostro compagno, e gli si domandava ogni cosa, ma non parla; così lo prendiamo e lo mettiamo seduto vicino alla parete della mulattiera e avanti ancora. Dopo un dieci minuti di cammino, troviamo tutti i nostri compagni che erano partiti prima, mentre c’era un’adunata del battaglione. Lasciamo andare per terra la bici e ritorniamo indietro a prendere il povero Rubino, lo mettiamo vicino ad un albero e non si desiderava altro che coricarsi per terra, sebbene fosse bagnato.
Ma dormire non si può: caso che mai non mi aspettavo, ad un bel momento, e già eravamo alle due del mattino del 25 giugno, sento la voce del nostro maggiore che dice: «Adesso facciamo sveglia a tutti e andiamo giù sulla strada, così a giorno siamo giù tutti». Dante e l’amico Guarneri erano lì, fra gli altri amici coricati e coperti sotto il telo, tutti eravamo spinti ad alzarci, ma mancavano le forze. Il capitano Mei, comandante della seconda compagnia, trovatosi col maggiore, già da parecchie volte gridava alla sveglia, ma, ripeto, nessuno se la sentiva di alzarsi. Poi cambia e invece di chiamare la sveglia, qualcuno grida: «Allarmi!». Chi sarà stato? Chi lo pescava? Chi non pensava alla morte? Dante, che aveva sentito tutto, era in ginocchio che stava radunando la sua roba vicino all’amico, quando, ad un tratto, fischiarono una decina di colpi di moschetto e delle grida salirono al cielo: erano tre amici, poveri ragazzi, uno morto e due feriti gravi. Questi sono i guai che succedono e Dante non era ancora persuaso di essere in guerra!
Intanto cessò il fuoco e Dante sentì la necessità di sdraiarsi a terra, ché non ne poteva più. Tutto si calmò. Poi ci fu da aiutare i due feriti e da portare giù l’altro poveretto, ma a Dante veniva a mancare anche quella poca forza che ancora si teneva, nel vedere sangue e sentire lamentarsi; i due feriti, dopo essere stati medicati, venivano portati alla strada, così come il poveretto. Intanto anche quelli che avevano avuto paura delle cannonate giunsero tutti lì e si meravigliarono del fatto, ma ormai non c’era più rimedio. Sono così le quattro, tutti ci mettiamo in cammino per scendere, sulla strada trovammo le gallette e le scatolette che ci aspettavano. Sono le undici e la colonna arriva sulla strada: c’era chi era rimasto quattro giorni senza mangiare. Assieme alle gallette c’erano biscotti e zucchero e tutti andavano all’assalto, cercando di farsi una scorta. Coraggio, la guerra è finita, a mezzanotte hanno firmato l’armistizio! La nostra debolezza tutta sparì in pochi minuti. Dante, dopo aver distribuito le scatolette e le gallette ai compagni di squadra, si preoccupava di controllare che tutto il suo materiale avuto in consegna fosse nelle proprie mani, tutto a posto, nessuno mancava e comunicò le novità al tenente. Tutti contenti, seduti sulla riva del fosso, sotto i raggi del sole, asciugavamo i panni. Ormai sembravamo di lamiera, tutti sporchi di fango e con la barba lunga. Poco dopo il battaglione si incamminava sulla strada dove non ci fu mezzo di andare avanti; allora giù un quattro chilometri in una gola di una montagna e proprio vicino alla strada un grosso spavento: un mucchio di poveri ragazzi morti e lungo la strada una lunga fila di feriti, chi sulle barelle, chi per terra, chi si lamentava, chi leggeva e chi guardava le foto che si teneva in tasca. Questo fu per noi un vero dispiacere e non so cosa dire per spiegarmi. Ebbene pazienza, sempre si pedalava, di tanto in tanto qualche buco in mezzo alla strada fatto dalle cannonate. Dove si va? Ma chi lo sa? Siamo verso le tre del pomeriggio e arriviamo alla vista, sotto la strada, a destra, di un paesetto e proprio lì ci siamo fermati: il paesetto si chiamava Bramans, era tutto disabitato e proprio vicino al paese sì piantarono le tende. Qua l’appetito era al cento per cento: uno di qua, uno di là, si va dentro nelle case a far cuocere le patate o a fare la polenta e se ne fecero di tutti i colori. Senza dir niente, l’amico Guerrini si allontanava e dopo una mezz’ora arriva accanto alle tende con un sacco in spalla. Cosa ci aveva dentro? Otto pagnotte, una grossa scatola di tonno da cinque chilogrammi, due pacchi di candele e quattro o cinque pezzi di sapone. Chiama un altro di andare con lui e mi arriva lì con un secchio di cognac e un tino di trenta litri pieno di vino: tutto sotto la tenda e avanti a mangiare e bere e, a dire la verità, ci siamo anche ubriacati tutti e poi giù a dormire.
Qua passava il giorno 25 giugno e poi, il 26 mattino, tutti ci siamo fatti la barba e un po’ di pulizia. Verso mezzogiorno fanno adunata del battaglione: cosa c’è? Ma chi lo sa? Come mai adunata? Tanti andranno attorno al paese a fare rastrellamento e un bel numero, fra i quali anch’io, andiamo a fare le buche per quei poveri ragazzi che il giorno prima avevamo visto. Coraggio, anche questo fu fatto! A un povero artiere, prima di coprirlo, gli hanno levato le scarpe perché erano nuove. Nello stesso cimitero furono coperti pure i due bersaglieri. Verso sera ritorniamo alle nostre tende per mangiare e ognuno si arrangia da sé sotto la tenda. Il bersagliere Barbero ancora dormiva dalla sbornia presa la sera prima. Verso sera arriva un portaordini: cosa sarà venuto a fare? Era venuto a portare l’ordine che l’indomani mattina si doveva partire per rientrare nella nostra Italia.
Così, il 27 giugno, tutti si preparano la loro bicicletta affardellata, sono le sette e si parte. Siamo sulla strada maestra, bellissima, tutta asfaltata, ma quasi tutta in salita. Tre paesi furono passati e un ponte che i francesi avevano fatto saltare per aria. Alle undici ci siamo incontrati con i cucinieri che ci hanno portato il caffè e tutti i moto carrelli per caricare le armi e le cassette. Un’ora di fermata e poi avanti, la strada sempre più bella ma sempre più ripida: coraggio e avanti. Dopo tante salite ci siamo: si vede la caserma dove ci siamo fermati quella notte che siamo scappati giù. Lì ci fermiamo e ci dànno pane, pastasciutta e formaggio e ci siamo riempiti per bene. Erano le quattro e si riprende la bicicletta e giù per quella bella discesa che mai non finiva. Quasi dopo due ore, sono le sei, siamo a Susa, ma non è ancora basta, sempre avanti, la strada era piana ma eravamo stanchi. Passiamo Bussoleno e ancora si pedala; si fa sera, si gira a destra, la strada cambia e si sale, ma a poca distanza c’è un paese che abbiamo attraversato tutto. Ebbene appena fuori dal paese c’è un bel bosco e lì abbiamo fatto la nostra casa. Ormai erano le nove, il rancio non c’è, neanche la paglia, ma si dorme lo stesso.