Si parva licet componere magnis
In realtà, il capitolo 16 non c’è. Il libro finisce con il capitolo 15, laddove il papà interrompe il suo racconto il 1° gennaio 1943, mentre sta cercando di rientrare in Italia per la tanto sospirata licenza licenza, portando con sè il Quaderno IV che sta compilando e che, presumibilmente, lascerà a casa della sorella Rosa, insieme ai tre quaderni precedentemente spediti.
Il racconto non riprende più o, almeno, nulla ci è più pervenuto e il papà non ha mai parlato di parti dei diari andate perdute o dei motivi che lo hanno avrebbero indotto ad un’interruzione: su di ciò si possono fare solo ipotesi.
La prima è che, al ritorno al fronte, a febbraio, egli abbia ripreso a scrivere almeno fino all’8 settembre e che poi il manoscritto sia andato perso nel viaggio verso l’internamento o durante lo stesso. Più improbabile che egli abbia proseguito il racconto anche durante la prigionia e che questa parte non ci sia poi pervenuta: di quel periodo, direttamente dal papà, abbiamo solo alcune forgrafie, scattate prima dell’8 settembre e conservate durante l’internamento e i documenti d’archivio, riprtati nell’apposita pagina.
La seconda ipotesi, per la quale propendo, a sensazione, è che il papà, al ritorno in Croazia, non abbia più scritto: oltre ad apprendere della morte del suo più caro compagno, probabilmente gli viene meno lo spirito positivo con il quale aveva fin lì affrontato le fatiche, i pericoli, le paure e deve constatare che ciò non era servito a niente, così come vane erano state la sua umile obbedienza e il leale senso della Patria ed infrante le speranze per “la vittoria”. Semplicemente perché, quindi, erano venuti a mancare la voglia di raccontare un periodo di stanchezza e di delusione, di tirare a campare tra imboscate e rappresaglie, dell’attesa di una fine che si avvertiva, ma che impossibile da immaginare nel suo concretizzarsi, anche dopo il 25 luglio. E, in effetti, andò come andò, ben al di là di ogni aspettativa: nessun paese e nessun esercito in guerra si trovarono in una situazione così complicata come quella italiana, che a sua volta si riversò sugli oltre seicentomila soldati italiani che finirono internati in Germania per quasi due anni.
In assenza del racconto del papà, possiamo in ogni caso avere testimonianza di ciò che, nel prosieguo del conflitto, accadde a lui, al suo battaglione e al suo reggimento attraverso diverse fonti dirette.
Oltre che con le immagini e i documenti accennati al punto precedente, un’idea di ciò che accadde e dei relativi contesti, possiamo farcela ricorrendo ad ulteriori stralci dei già noti diari di Quaglino (che offre un focus particolare proprio sul XXVI battaglione) e di Scalone (che, però, a causa della costante separazione operativa, riporta un contesto solo in parte coincidente con quello del papà). Anche per questo periodo è poi, comunque, disponibile una vasta pubblicistica in merito. della quale si riporta in questa pagina qualche stralcio e/o la fonte consultabile.
Il papà rientra dalla licenza il giorno 17 febbraio, ma, quasi sicuramente prima di potersi agregare al suo reparto, impegnato in combattimento, il giorno 20 viene ricoverato in ospedale per malattia e ne sarà dimesso il successivo giorno 27. Ciò gli consentirà, con ogni probabilità, di evitare i sanguinosi scontri di quei giorni, descritti nel diario di Quaglino, che vedranno tra le vittime l’amico Pissinis, della cui morte il papà apprenderà quindi al rientro dall’ospedale.
La trascrizione dei diari, come già si può vedere dai contenuti sinora pubblicati, non si limita a “mettere in bella” e in stampatello il racconto scritto dal papà, ma comprende, da un lato, ricerche sul contesto storico nel quale gli eventi sono accaduti, dall’altro approfondimenti particolari su singole persone, fatti e luoghi presenti nel racconto o ad esso collegati.
Entrambi i tipi di ricerca si prestano a percorsi ramificati, tanto interessanti e sorprendenti quanto senza fine, ma il secondo, quello che insegue il singolo nome, il preciso evento, il luogo sconosciuto e che impegna naturalmente di più, offre poi la scoperta di dimensioni storiche, sconosciute e illuminanti, di un mondo al quale non si può certo accedere solo con i libri di storia, per quanto di approfondimento: un microcosmo storico svelato attreverso successive lenti di ingrandimento poste lungo la traccia iniziale.
Nel racconto del papà ci sono nomi di persone, eventi e luoghi cui mi sono dedicato, anche e ben oltre la normale esigenza di trascrivere un diario di guerra e di dotarlo di adeguati riferimenti. Ciò perché, già dalle prime pagine, a guidarmi non era più tale scopo, ma il desiderio, il piacere, il bisogno di conoscere, di sapere tutto quanto possibile di quei nomi, di quei fatti, di quei luoghi. E così sono iniziati i viaggi negli elenchi, negli albi, nei libri, nelle mappe, nei documenti più impensabili, perso dentro i rimandi senza risultato, incredulo all’apparire di riscontri insperati e di inimmaginabili coincidenze, rattristato all’evidenza di tristi scoperte.
Una di queste piste mi ha portato sulle tracce di Giovanni Pissinis, che è più volte nominato dal papà. Erano probabilmente molto amici, se la moglie vedova ha voluto inviare una foto ricordo del marito a Dante e se ancora oggi il figlio Gian Carlo ricorda di aver sentito spesso, da bambino, questo nome citato dalla mamma come amico del suo povero papà.
Gian Carlo Pissinis conserva tre lettere, che la mamma aveva ricevuto da fonti ufficiali in risposta alle sue reiterate richieste di informazioni circa la morte del marito: esse, oltre a darci la testimonianza dolorosa e diretta di una circostanza purtroppo così “normale” in guerra, ci consente di conoscere gli atti, i sentimenti, le storie personali che vi facevano da contorno. Dal punto di vista storico, poi, ci danno lo spunto per tante prese di coscienza e osservazioni.
La lettera ricevuta dalla madre di Giovanni Pissinis dal cappellano militare.
Sopra: la lettera del 19 giugno 1943 del tenente Franch alla signora Pissinis.
Sotto: il biglietto postale del 23 luglio 1943, sempre da parte dello stesso.
La cartolina-ricordo inviata dalla vedova Pissinis a Dante, con la dedica a nome del piccolo Gian Carlo. La cartolina porta impresso il timbro del campo di concentramento: ciò significa che essa non fu spedita dal papà alla sorella Rosa, ma conservata al fronte sino all’8 settembre e poi in prigionia.
A metà gennaio del 1943 il colonnello Verdi rientra dalla licenza a Dernis e riassume il comando del reggimento.
Ma, col suo arrivo, giunge anche un ordine di movimento per i bersaglieri della compagnia comando reggimentale e del XXVI battaglione, i quali sono nuovamente destinati ad effettuare operazioni di rastrellamento, di rinforzo e di difesa di nostri presidi, attaccati questi in modo sempre più incalzante dalle forze partigiane, rese baldanzose dallo sfavorevole corso degli eventi bellici per le nostre armi.
Il 17 gennaio il comando di reggimento ed i reparti anzidetti si mettono quindi in movimento, raggiungendo in serata la località di Knin, ove pernottano. Il giorno seguente si riprendono i movimenti di trasferimento con destinazione Gracac. L’arrivo dei bersaglieri trova il paese piuttosto malconcio, con cadaveri di partigiani, di cetnici e di civili (anche donne), sparsi per le vie e nelle case, ed ancora insepolti.
Si apprende che un giorno o due prima vi era stato un avvicendamento nel presidio di Gracac, tra reparti di fanteria e CC. NN., durante il quale i partigiani, evidentemente al corrente del fatto, avevano approfittato del temporaneo allentamento nell’apparato difensivo, inevitabile in simili circostanze, dovuto al sia pur breve disorientamento dei reparti in arrivo che ancora non conoscono bene la situazione che troveranno e quelli che stanno per lasciare le posizioni occupate, per attuare un attacco in forze al paese. La reazione immediata dei cetnici aveva provocato quindi aspri combattimenti, con numerosi morti e feriti da ambo le parti.
I bersaglieri ristabiliscono la situazione e rimangono a presidio di Gracac, senza essere molestati, sino al 21 gennaio, quando il XXVI battaglione riceve l’ordine di occupare quota 616, un colle ad una dozzina di chilometri di distanza, con in cima gruppi sparsi di case e zone di bosco, da dove è facile aspettarsi pericoli ed insidie. Infatti, appena raggiunta la quota stabilita, i bersaglieri vengono fatti oggetto di un concentramento di fuoco, proveniente da più parti.
Il battaglione, organizzatosi subito a difesa, stacca immediatamente la 3a e la 4a compagnia (tenenti Guida e Foresio) col compito di fronteggiare e controbattere in punti diversi l’attacco avversario, mentre un’altra compagnia (tenente Arduino) rimane in quota insieme al posto di medicazione, apprestato celermente in una casa.
Purtroppo, infiltrazioni di forti nuclei di partigiani riescono tosto a circondare, isolandoli dagli altri, questi ultimi reparti, i quali con fatica cercano di contenere e controbattere il fuoco nemico, ormai vicinissimo e proveniente anche dalle case circostanti. Poiché la posizione di questi bersaglieri si sta aggravando, il tenente medico Ligorio prende l’iniziativa di render noto, via radio, al comando di reggimento (che è rimasto a Gracac), la situazione critica in cui si trovano i reparti, e richiedendo rinforzi per sbloccare il sanguinoso accerchiamento. L’intervento assai sollecito di un gruppo di carri armati leggeri riesce alla fine ad allentare e ad allontanare la pressione nemica, che pur tuttavia ha causato complessivamente al battaglione la perdita di due morti e quindici feriti.
Respinti così tutti gli attacchi, il XXVI battaglione rimane in sito sino alla mattina del 23 gennaio, quando un altro ordine di movimento fa impegnare nuovamente in combattimento i reparti per la conquista di un’altra collina, sempre oltre Gracac, occupata tenacemente dai partigiani. Dalle ore 10 del mattino alle 16 del pomeriggio durano i continui incalzanti assalti per raggiungere la quota 734, con combattimenti particolarmente aspri, dato che i bersaglieri si trovano in posizione di svantaggio dovendo attaccare dal basso verso l’alto. Fra i feriti di questa giornata, uno risulta molto grave: è il sottotenente Cavalli che, smistato subito all’ospedale da campo più vicino, morirà entro lo stesso giorno.
Merita qui ricordare che questo giovane ufficiale, già ferito in precedente combattimento e dimesso dall’ospedale, aveva poche settimane prima rinunciato alla licenza cui aveva diritto per tornare al reparto fra i suoi bersaglieri.
Intanto, raggiunta la quota 734, i reparti del XXVI battaglione si apprestano a pernottare, naturalmente all’addiaccio, fra la neve ed il gelo. La sosta però ha breve durata, poiché nel cuor della notte un colpo di mano riaccende i combattimenti su tutta la quota. La reazione dei bersaglieri è immediata e violenta, ma viene pagata con nuovo tributo di sangue: due morti e tre feriti.
La giornata del 24, iniziata così sanguinosamente, trova i bersaglieri pronti ad un altro movimento in avanti. Verso sera, infatti, da quota 734, i reparti si mettono in marcia verso le alture di Bruvno, tentando di raggiungere anche la località di Malinolovici. La notte sopraggiunta ed il percorso attraverso i boschi inducono il comando a far sospendere l’operazione e ad ordinare il rientro a quota 750 di Bruvno. Da questa quota, ove i bersaglieri sosteranno alcuni giorni, vengono effettuate varie azioni di rastrellamento e puntate su posizioni circostanti, validamente presidiate da forti nuclei nemici. Queste azioni si sviluppano in modo violento e sanguinoso, ma gli attacchi avversari, sempre improvvisi e condotti con grande decisione, incontrano subito l’immediata reazione dei nostri reparti, che strenuamente contrattaccano e respingono il nemico.
Particolarmente aspra e contrastata è l’azione del 26 gennaio per la conquista di quota 926 di Bruvno, ove i bersaglieri della compagnia comando reggimentale sono impegnati in duri combattimenti, durante i quali dimostreranno tutto il loro slancio offensivo ed il loro ardimento, tanto che a sera ben 11 feriti e 3 dispersi rappresentano il triste bilancio di questa giornata.
Il 28 gennaio altro spostamento: la nuova località da raggiungere è Mazin, un villaggio situato in una valletta con ai lati e sul davanti, sulle alture circostanti, ampie distese di boschi, ora coperti di neve e pieni di insidie, boschi che dovranno fra breve essere attraversati per proseguire il trasferimento sino alla località di Kulen-Vacuf.
Per tre giorni i bersaglieri rimangono a Mazin, per prepararsi alla successiva azione di rastrellamento. Anche il comando operativo del reggimento raggiunge Mazin, per essere a contatto diretto con la compagnia comando reggimentale ed il XXVI battaglione.
Il 2 febbraio, alcuni reparti del battaglione, portatisi sulle alture a sinistra di Mazin, ai margini del bosco, giunti in prossimità delle case di Bajci a quota 980, vengono attaccati da forze nemiche, naturalmente nascoste fra gli alberi e ben dissimulate fra la neve. Questo primo assaggio delle possibilità di attraversare la zona boschiva termina con il ferimento di ben 8 bersaglieri, fra cui il tenente Campigli.
Dopo un’altra puntata a Bajci, effettuata l’8 febbraio, i reparti si apprestano ad affrontare il proseguimento dell’azione offensiva, predisponendo, data la presenza continua di importanti forze nemiche, tutte le misure di sicurezza per favorire la marcia. Le alture sopra e attorno a Mazin, sempre ai margini del bosco, a quota 1064, vengono occupate da reparti del XXVI battaglione che, dall’alto, assicurano intanto una linea di protezione per i reparti rimasti in basso nel paese.
L’11 febbraio ha inizio l’azione vera e propria. Il XXVI battaglione comincia a muoversi da Bajci, quando subito deve accorrere a quota 1064 di rincalzo ai bersaglieri del battaglione “Zara”, che già sono stati attaccati e sono impegnati in duri combattimenti. Poiché all’indomani si dovrà proseguire il trasferimento attraverso i boschi, si pernotta in sito, sistemandosi all’addiaccio in mezzo alla neve.
Al mattino si effettua un altro tentativo di avvicinarsi ulteriormente a questi boschi, che presentano così tante possibilità di difesa e di attacco per chi vi è dentro, e così tanti mortali pericoli per chi deve andare loro incontro attraverso una zona completamente priva di vegetazione, essendo in tal modo facile bersaglio per i cecchini avversari. Tuttavia, i bersaglieri, che oggi hanno anche l’appoggio di un piccolo pezzo d’artiglieria, dopo reiterati combattimenti riescono ad occupare la quota 1132, lasciando però sul campo, in questa giornata, ben 4 morti e 24 feriti, fra i quali il tenente Arduino ed il tenente Chioino. La notte, poi, che trova i reparti nuovamente all’addiaccio nella neve, non concede né riposo né tranquillità. Alle due, nel pieno delle tenebre, la prima compagnia è messa in allarme per un improvviso attacco nemico, che purtroppo causa la morte di 2 bersaglieri ed il ferimento di un terzo. Questi è un sergente che, pur avendo la mascella spezzata, trova la forza di raggiungere in piedi, pur barcollante e sanguinante, il comando di battaglione, farfugliando imprecazioni e chiedendo di essere avviato al posto di medicazione. Alle sei del mattino (siamo al giorno 13) il XXVI battaglione e la compagnia comando reggimentale riprendono la marcia e questa volta riescono ad attraversare il bosco senza essere attaccati, giungendo a sera al di là, alla località di Lapac.
All’indomani, la colonna, continuando il trasferimento, giunge nella tarda mattinata a Kulen-Vacuf, ove si incontra con alcuni reparti tedeschi, anch’essi operanti nella zona. Anche qui, però, la sosta è di breve durata, poiché alle venti viene dato nuovamente un ordine di movimento: i bersaglieri, che si stanno apprestando al pernottamento, devono accorrere subito in soccorso ad un battaglione di fanteria, impegnato in duri combattimenti con forze nemiche ed in situazione piuttosto pericolosa. Data l’urgenza dell’intervento, e poiché per raggiungere il reparto accerchiato occorre attraversare ancora una volta una zona boscosa, il colonnello Verdi ordina che i reparti si mettano in marcia col solo armamento leggero, lasciando tutto il resto del materiale sul posto, in consegna alla prima compagnia del tenente Vatteroni, la quale rimarrà in sito di presidio. La notte e la neve rendono molto difficile la marcia nel bosco: i bersaglieri camminano nel buio tenendosi, se così si può dire, a vista d’occhio, per rimanere uniti e pronti ad ogni evenienza. Alle ore 2,30 del 15 febbraio si prende contatto con la fanteria e ci si attesta in quota a ridosso delle sue posizioni fino all’alba. Tuttavia, l’azione si conclude positivamente e la situazione viene sbloccata.
Perdite tra i fanti, ma nessuna fra i bersaglieri, i quali, senza alcun riposo, riprendono il cammino di ritorno rientrando a Kulen-Vacuf. Per quanto stanchi ed affaticati da questi continui spostamenti di giorno e di notte, i bersaglieri sono sempre pronti all’azione: infatti nella stessa mattinata del giorno 15 arriva al comando l’ordine di un ulteriore Trasferimento di tutta la colonna del gruppo bersaglieri: comando di reggimento, compagnia comando reggimentale, XXVI battaglione, muli e salmerie al seguito, gruppo di carri armati leggeri di appoggio. Oggetto del movimento: rientro a Mazin attraverso la località di Lapac (Gori e Dornie Lapac), che i bersaglieri già ben conoscono. La strada da Kulen-Vacuf a Lapac, che solo il giorno prima era stata percorsa con relativa tranquillità, diventerà oggi una trappola micidiale per la colonna in marcia. Essa si snoda incassata nella valle con ampie zone boscose sulle pendici laterali. Un monticello ad un certo punto sembra sbarrare la vallata, e la strada deve aggirarlo, impedendo la vista al di là del colle. È un luogo ideale per chi voglia preparare un’imboscata e attaccare dall’alto chi transita in fondo valle. Ad evitare questa evenienza, pattuglie di bersaglieri vengono inviate in alto sui margini dei fianchi della valle, col compito di avanscoperta e protezione alla colonna che, al completo, si è messa in marcia alle ore 13. Ma, purtroppo, l’accorgimento non risulta efficace poiché i partigiani, lasciate sfilare le pattuglie, alle 15 attaccano improvvisamente e duramente la colonna in marcia. Anche dal monticello, che ora i bersaglieri hanno di fronte, viene aperto un nutrito fuoco di sbarramento, che concorre ad aumentare la drammaticità della situazione e le perdite di vite umane, nonché dei quadrupedi al seguito, così preziosi in questi spostamenti in zone montagnose.
Per far fronte a questo attacco concentrico da più parti, viene dato l’ordine di lasciare sulla strada le salmerie ed attaccare con tutti gli uomini il monticello, onde trovarsi in posizione di maggior difesa. È ormai sera quando, a prezzo di altre perdite, la cima del monticello viene raggiunta, ricacciando le forze nemiche che l’occupavano. I bersaglieri si attestano così in quota per trascorrere la notte alla meglio, dato che buona parte delle salmerie sono state catturate o distrutte, ma gli attacchi dei partigiani sono incessanti, facilitati anche dal fatto della loro conoscenza dei luoghi ed anche dalla particolarità delle loro calzature che, essendo più che altro babbucce di pelle di capra, permettono loro di muoversi ed avvicinarsi senza il minimo rumore. I bersaglieri, pur nelle tenebre della notte, contrattaccano furiosamente, anche se i morti ed i feriti aumentano di numero.
Fra i feriti gravi vi è anche il tenente Guida che, quando all’alba si tenta di farlo trasportare via su una barella, si preoccupa insistentemente non di sé stesso, ma della sorte del suo piumetto, che vuole con sé.
Con le prime luci dell’alba, è il 16 febbraio, gli attacchi nemici si affievoliscono ed i reparti dei bersaglieri si riorganizzano per riprendere il cammino. Nel tardo pomeriggio, mentre la neve cade incessantemente, si raggiunge finalmente Lapac, da dove la marcia dovrebbe proseguire subito per rientrare a Mazin.
Però, l’abbondante nevicata, che ostacola i movimenti delle truppe, consiglia di rimandare lo spostamento. Ma all’alba del giorno 18 i bersaglieri sono pronti a riprendere il trasferimento. Il tratto da percorrere si presenta come una strada di montagna, a tornanti, passante come il solito attraverso zone di folto bosco. Ma dallo stesso percorso, fatto pochi giorni prima in ben altre condizioni, non ci dovrebbero questa volta venire sorprese pericolose, poiché sono state date ripetute assicurazioni che questi boschi sono sgombri da forze nemiche e tenute sotto controllo da truppe italiane, fanteria e CC. NN. La colonna di marcia è costituita, oltre che dalle varie compagnie di bersaglieri, anche dal gruppo dei carri armati leggeri, da alcuni autocarri, da poche salmerie (quelle che sono rimaste dopo l’attacco del giorno 15). Preceduto dai carri armati, marcia in testa un plotone del XXVI battaglione, al comando del tenente Boffano. Sulla torretta di un carro armato sta seduto, forse imprudentemente, il tenente Svircic. Questa azione di trasferimento, che dovrebbe svolgersi con tranquillità e sicurezza, viene improvvisamente troncata da una realtà ben più terribile. La colonna ha appena cominciato a snodarsi lungo la strada a tornanti, quando viene inaspettatamente attaccata da più parti da notevoli forze nemiche in agguato. I bersaglieri contrattaccano energicamente il fuoco avversario, ma non possono impedire, data anche la lunghezza della colonna, che questa venga spezzata in due tronconi, con minaccia di accerchiamento per entrambe le parti.
Fra le perdite di questo primo attacco vi è il tenente Svircic, colpito a morte sul carro armato dove stava seduto. La parte di testa della colonna, costituita dai carri armati, dal comando di reggimento (colonnello Verdi, aiutante maggiore in 1°, dirigente il servizio sanitario), dal reparto del tenente Boffano e da parte dei reparti della compagnia comando reggimentale e del XXVI battaglione, cerca di difendersi dall’attacco tentando di proseguire la strada nel bosco, ove per arginare l’accerchiamento costituisce una specie di caposaldo. Per più giorni questi reparti dovranno difendersi da altri attacchi di forze partigiane, che causeranno altre perdite in morti e feriti (sarà ferito anche il colonnello Verdi ed il capitano medico Vigliani), prima di poter ricevere soccorsi e poter raggiungere così la destinazione di Mazin.
La parte restante della colonna, cioè il troncone di coda comprendente il comando di battaglione, l’infermeria, parte della compagnia comando reggimentale e del XXVI battaglione, pur combattendo aspramente, si trova nella impossibilità di proseguire e ricongiungersi colla testa che si sta allontanando. Poiché il fuoco avversario è sempre più incalzante e numerose sono già le nostre perdite, il comando di battaglione dà ordine a questi reparti di ripiegare nuovamente su Lapac, dove, al riparo delle case, ci si può difendere meglio e riorganizzarsi, in attesa di poter riprendere il cammino verso Mazin. Ed è in questa fase di ripiegamento che il tenente Zamarioli, colpito da una fucilata al cinturone ove teneva appese le bombe a mano, muore squarciato dallo scoppio di quest’ultime.
In Lapac, i bersaglieri rimangono asserragliati tutto il giorno seguente, 19 febbraio, sempre circondati da forze avversarie che, con uno stillicidio di piccoli e micidiali attacchi, tengono continuamente in allarme i reparti. Non vi è neanche collegamento fra i bersaglieri a Lapac e quelli allontanatisi nel bosco, di cui pertanto si ignora la sorte. Non c’è neanche modo di uscire per recuperare le salme dei caduti, alcune delle quali, come quella del tenente Svircic, non verranno successivamente nemmeno più trovate. Intanto, in attesa di rinforzi, si cerca di organizzare una difesa efficace e soprattutto di curare i numerosi feriti, circa una ottantina, il cui numero dimostra chiaramente l’asprezza degli attacchi sostenuti. Un breve bombardamento di mortai, in serata, aggiungerà altri feriti a quelli che già affollano il posto di medicazione del battaglione.
Trascorre un’altra giornata piena di pericoli e di emozioni, prima che ai reparti in Lapac giungano finalmente notizie dell’arrivo di rinforzi con forze italiane e tedesche. Un aeroplano fa la sua apparizione per lanciare viveri e materiali, anche se una parte di essi cade in mano ai partigiani. Si hanno pure notizie dei bersaglieri del primo troncone, ormai liberati dall’accerchiamento, e delle perdite da loro subite. Ristabilita così la situazione, si apprende con sollievo l’ordine di ripresa del trasferimento a Mazin, con nuova assicurazione che la zona boscosa da attraversare è finalmente libera dalle forze nemiche e presidiata da reparti italiani. Occorre pertanto predisporre il movimento non solo degli uomini validi, ma soprattutto dei numerosi feriti che devono essere portati al seguito. Non avendo altre possibilità, il comando di battaglione decide di approntare delle barelle di fortuna, destinando due bersaglieri come portaferiti ed un terzo con il compito di portare le armi di tutti e quattro. Il che significa che per ogni ferito sono impegnati tre uomini validi, impossibilitati quindi a fronteggiare un eventuale attacco, salvo abbandonare il ferito. Ma, considerando le assicurazioni ricevute, della piena sicurezza, cioè dell’attraversamento del bosco, si tenta questo accorgimento.
L’indomani mattina, 21 febbraio, la dolorosa colonna dei feriti, preceduti dai reparti ancora efficienti, si rimette in marcia, affrontando i tornanti che portano al bosco. Fra i bersaglieri che si mettono in cammino vi è anche il sottotenente Belcastro, che nei combattimenti dei giorni precedenti aveva riportato una grave ferita perforante al torace. Pur considerando la gravità del suo stato, ma per non tenere impegnati tre bersaglieri al suo indispensabile trasporto in barella, egli si è fatto rivestire e coprire alla meglio, cercando di rimettersi in piedi e di seguire la colonna in marcia. Pur appoggiandosi di tanto in tanto a qualche commilitone, con grande forza di volontà e sforzo fisico, affronterà così il trasferimento sempre a piedi e tutti gli imprevisti ed i pericoli che ancora si presenteranno fino al ricongiungimento con il resto del battaglione.
Abbiamo detto imprevisti e pericoli poiché, per una tragica fatalità, appena la colonna affronta i primi tornanti, ancora una volta è sorpresa da un attacco nemico. Per fronteggiare sufficientemente questo inaspettato attacco, non rimane che impiegare tutti gli uomini disponibili, compresi anche i portaferiti. Il combattimento è lungo e duro, nuove perdite si aggiungono a quelle dei giorni precedenti: l’attacco viene però respinto e la marcia riprende. E alla sera, mentre i bersaglieri devono affrontare un ennesimo attacco, un nucleo di altri bersaglieri guidati dal tenente Boffano e appartenenti quindi al troncone di testa della colonna, giunge di rinforzo, liberando i reparti da ogni altro impedimento e portandoli finalmente fuori dal bosco. L’indomani l’azione ha termine col rientro a Mazin e col ricongiungimento con gli altri reparti della compagnia comando reggimentale e del XXVI battaglione e col comando di reggimento
Dopo l’azione militare di Gori Lapac, la compagnia comando reggimentale ed il XXVI battaglione tornano a Traù, ove 1’11 aprile si ricongiungono agli altri due battaglioni, che sino ad ora avevano sempre operato separatamente. È la prima volta, si può dire, che dopo due anni il reggimento si trova nuovamente riunito quasi al completo, anche se ciò durerà ancora solo per breve tempo. In Traù il comando di reggimento si installa nel locale municipio ove, nel pomeriggio del 25 aprile, giorno di Pasqua, scoppia improvvisamente un incendio.
[…]
Le successive vicende dei reparti del reggimento non avranno d’ora in avanti più particolare interesse dal lato militare.
Come già altre volte accennato, si cerca in tutti i modi di mantenere i presidi dislocati lungo la costa in modo da permettere i collegamenti con l’Italia, mentre le forze ribelli si fanno sempre più pericolose e combattive. Le notizie dai vari fronti, ove il nostro soldato continua a compiere strenuamente il proprio dovere verso la patria, sono sempre più disastrose e sconfortanti. Si sente avanzare il peggio, ma occorre nello stesso tempo non lasciarsi prendere dallo scoramento. Ufficiali e bersaglieri avvertono questa atmosfera di tensione che aleggia attorno. Si raddoppiano le misure di sicurezza perché si sa che il nemico è pronto a sferrare il suo attacco appena avrà la possibilità di farlo a colpo sicuro, come sempre.
Intanto, il 25 maggio, il comando di reggimento e la compagnia comando reggimentale tornano a Spalato, insieme stavolta al XXXI battaglione. Nel frattempo, il XXIX è staccato a Sebenico ed il XXVI a Pergomet. La compagnia motociclisti rimane a Traù. Pochi giorni dopo ancora uno spostamento: andiamo a Salona, piccolo paese a 6 km da Spalato, importante dal lato archeologico per le vestigia della dominazione romana che ancora vi si trovano.
A Salona trascorriamo i lunghi trepidanti mesi di questa tragica estate del 1943, con ogni giorno maggiori difficoltà a reagire allo sconforto ed all’avvilimento. Gli eserciti alleati anglo-americani sono sbarcati in Italia e iniziano la loro missione liberatrice, che è pur sempre per noi una invasione sul suolo della nostra patria. Il 25 luglio cade il fascismo ed allo scoramento per la situazione militare si aggiunge la confusione degli animi e delle idee. Ma ormai è questione di poco. Ai primi di settembre avviene l’ultimo spostamento per due battaglioni: il XXVI lascia Pergomet e si trasferisce a Sebenico, mentre il XXIX prende il posto del XXVI a Pergomet.
Il pomeriggio dell’8 settembre, una notizia si diffonde rapida fra i nostri reparti a Salona, appresa con ansia e sbigottimento, ma anche in certo senso con sollievo: l’Italia ha chiesto l’armistizio alle forze anglo-americane. Negli accampamenti qualche bersagliere canta “Bandiera rossa”, ma è una voce stonata che subito viene fatta tacere. La tragica realtà è ora per noi questa: che ne sarà di noi, così lontani dall’Italia? Che ne sarà delle nostre famiglie, degli altri stessi reparti del reggimento dislocati altrove?
Mah! Ora siamo soli col nostro destino.
Il diario del tenente Adalberto Spalla, del XXVI btg, ripreso da Quaglino per la testimonianza degli eventi successivi all’8 settembre, costituisce la fonte principale e più diretta della sintesi cronologica che, di essi, propongo qui di seguito.
8 settembre 1943 – Il XXVI a Sebenico
La notizia dell’armistizio sorprese il reggimento diviso, con i reparti dislocati lungo un tratto della costa dalmata, tra Sebenico e Spalato: il comando di reggimento ed il trentunesimo battaglione a Salona, vicino a Spalato, il ventiseiesimo a Sebenico, il trentunesimo a Pergomet e la compagnia motociclisti a Traù.
La notizia si era già diffusa, ma fu confermata dal giornale radio delle ore venti. Parte del XXVI battaglione era accantonato in città, parte schierato sulle alture subito fuori dal centro abitato. La popolazione locale scendeva in piazza a festeggiare l’evento in un tripudio di bandiere rosse, mentre i bersaglieri lo commentavano con allegria e felicità, equiparandolo a tutto gli effetti come la “fine della guerra”. Gli ufficiali, però, invitavano tutti alla calma, avvertendo che, molto probabilmente, il peggio iniziava proprio allora.
I bersaglieri capirono e subito si astennero da qualunque manifestazione di giubilo, intuendo che si sarebbe andati inevitabilmente verso uno scontro con le SS della divisione Prinz Eugen, che si stavano avvicinando, e manifestando con determinazione l’intendimento di voler combattere contro di esse.
Il comandante del XXVI battaglione, che era allora il colonnello Giuseppe Bernasconi, si recò dal comandante della piazza di Sebenico, generale Paolo Grimaldi, per avere ordini precisi circa l’atteggiamento da prendere, ma ne ottenne solo un invito alla calma e all’attesa fiduciosa delle decisioni del comando.
9 settembre – In attesa di ordini
La giornata trascorse tra ordini assenti o confusi, mentre la gente continuava ad esultare e i partigiani si dichiaravano amici.
Il tenente Spalla si lascia andare a questo punto ad un’invocazione disperata, che è la sintesi perfetta dello stato d’animo dei soldati e della situazione: “Possibile che i nostri capi ci abbandonassero così al nostro destino, che non ci fosse un aereo che lanciasse un messaggio con su scritto «Resistete!»? Per noi sarebbe stato sufficiente, perché ci sentivamo in grado di tener testa ai tedeschi.”
10 settembre – Resistenza!
Il 10 settembre, su insistenza degli ufficiali inferiori, il comandante del XXVI battaglione radunò i reparti e dovette constatare che tutti i bersaglieri, senza eccezione alcuna, desideravano opporre resistenza alle truppe tedesche quando esse avessero tentato di entrare in città.
Se avevano combattuto sinora per disciplina, onore, obbedienza e lealtà istituzionale, pur senza lo slancio e l’onore di dover difendere la patria e le proprie famiglie, riservati ai nostri “nemici” aggrediti, adesso anche qui, da questa testimonianza, come nelle decine di situazioni locali in cui i nostri si trovarono l’8 settembre, si ha la conferma di “come sarebbe potuta andare se…” Ma quella porta scorrevole non si aprì e oggi possiamo solo rifugiarci nell’ucronia, con il rammarico delle cose perdute e il disprezzo verso coloro che, vigliaccamente preferirono vendersi, facendo disarmare i propri soldati per poi fuggire, abbandonandoli al loro destino. I nostri soldati, mio papà, avrebbero potuto aggiungere a tutte le doti ammirate sino a questo punto della guerra anche lo spirito vero della patria, della difesa, dell’orgoglio, corroborati da quell’antico spirito antigermanico forzatamente represso dal fascismo, ma che aveva sempre covato nell’animo degli italiani. E invece fu loro imposto di aggiungere solo altro dolore, altra solitudine, altra morte a quelle che avevano sopportato fino all’8 settembre.
11 settembre – Pronti a combattere
Di ordini precisi, però, ancora nulla. Fu fatta nuovamente pressione verso il Comando Piazza affinché fosse assegnato ad ognuno un compito ben chiaro cui ottemperare.
Finalmente il giorno giunse l’ordine di inizio delle operazioni.
Al tenente Spalla vien affidato il compito di assicurare i collegamenti telefonici tra i vari settori e comandi, di suddividere in gruppi vari motocarrelli ed autocarri, per essere pronti a rifornire di munizioni e viveri le truppe dislocate sulle alture, sistemate a difesa della città, cercando allo stesso tempo di evitare di rappresentare l’obiettivo di un eventuale bombardamento aereo.
A gruppi di tre-quattro, i motocarrelli furono dislocati nella congiunzione delle varie strade che adducevano ai caposaldi e, in corrispondenza di tali punti, vennero costituiti depositi munizioni. Fu inviata anche una motocicletta porta ordini al posto di blocco “Zara”, a disposizione del tenente Campigli, comandante della prima compagnia, sistemata a difesa a cavallo della rotabile Dernis-Sebenico, per poter far fronte ad un eventuale guasto telefonico. Tutto era stato predisposto e tutti gli uomini erano al loro posto in stato di allarme.
Ma, appena le truppe tedesche furono avvistate, un’autovettura del Comando Piazza partì verso il posto di blocco “Zara” e, di lì a poco, fece ritorno alla testa dell’autocolonna tedesca cui era andata incontro per fornire accoglienza.
Il tenente Campigli riferirà poi che era giunto al posto di blocco il tenente colonnello Spollaore, il quale aveva ordinato di non aprire il fuoco e invitato poi i tedeschi ad entrare in città e a recarsi al Comando Piazza italiano. Una vera e propria consegna della città. I partigiani, che avrebbero dovuto attaccare l’auto colonna sul fianco, prima che la stessa venisse contatto con le nostre truppe e che, evidentemente avevano intuito la situazione, non si mossero.
I soldati italiani furono vittime di un altro tradimento (e non fu l’ultimo), ben preparato: sì, anche il XXVI battaglione bersaglieri era pronto a combattere, come la Acqui a Cefalonia e come tutti gli altri reparti che si trovarono in situazioni analoghe. Non sono stati i soldati e gli ufficiali di minor grado a cedere, bensì essi furono abbandonati al loro triste destino dai loro superiori di alto grado, che, da complici, vollero farsi servi dei tedeschi.
12 settembre – Il mancato combattimento, il NO, il disarmo, la cattura
Arrivò l’ordine di tenere pronte le truppe per mezzogiorno, per ascoltare ciò che avrebbe detto il generale tedesco. Egli offrì due opzioni: o collaborare o essere inviati in Germania a piedi. Ci fu un solo sì, di un soldato che aveva i genitori in Germania e che temeva ritorsioni per loro. Il generale andò su tutte le furie, come pure il generale Grimaldi, che accordò ancora quattro ore per riflettere e decidere: ma la scelta doveva essere posta per iscritto.
Fu preparato un elenco nominativo di tutti, ufficiali, sottufficiali e soldati ed ognuno di essi appose la firma accanto al proprio cognome, aggiungendovi un NO, che voleva dire (almeno) prigionia. Alle cinque del pomeriggio i bersaglieri del XXVI battaglione consegnano le armi e poi provvedono a sabotare tutti gli automezzi.
13 settembre – Ancora NO!
Nel pomeriggio un maggiore tedesco fece un nuovo tentativo per far recedere il reparto dalla decisione presa, ma senza alcun risultato.
Alla sera fu dato l’ordine di tenersi pronti a partire per le cinque del mattino dopo.
14 settembre – La marcia ha inizio
All’ora stabilita, il reparto era pronto e alle sette si mise in marcia. Gli ufficiali erano in testa, ma con cinque tedeschi coi mitra spianati a separarli dai bersaglieri. Fu presa la strada per Dernis, faceva caldo e la sete si faceva sentire: ma, ad ogni pozzo, i tedeschi, pistola in pugno, impedivano ai nostri soldati di dissetarsi. Pian piano ognuno si liberava dei pesi superflui, per poter resistere più a lungo. Durante una sosta venne offerta una brodaglia che tutti i soldati rifiutarono, almeno per quella volta.
I tedeschi fecero arrivare alcuni camion vuoti e invitarono i soldati a caricare gli zaini, ma quando essi stavano per farlo, glielo impedivano. Fu così che i bersaglieri cominciarono a capire il trattamento che avrebbe atteso i soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi: tutto era studiato per farli soffrire il più possibile.
Ad un certo punto, il battaglione fu superato da un’autocolonna tedesca, con autocarri vuoti e con in testa la vettura del generale Grimaldi, che aveva al suo fianco il tenente colonnello Scollaore: si levò forte una salva di fischi che i bersaglieri rivolgevano a chi, l’8 settembre 1943 li aveva traditi aveva tradito quel che retava della Patria.
Il battaglione si fermò, dopo trentacinque chilometri, a Dernis, e gli uomini passarono la notte all’addiaccio, coperti con il telo da tenda e la mantellina.
15 settembre – La marcia prosegue
Fu percorso il tratto Il tratto Dernis-Knin, in ferrovia, su carri merce.
16 settembre – Lapac
Su autocarri si raggiunse Lapac, attraversando quei luoghi tristemente noti ai bersaglieri del battaglione per i sanguinosi combattimenti sostenuti nel gennaio e febbraio precedenti (nei quali, com’è noto, perse la vita anche Giovanni Pissinis).
Lungo la strada la popolazione faceva coraggio ai bersaglieri e offriva loro pane e uova.
17 settembre – Bihac
Il 17 settembre il battaglione raggiunse Bihac.
18 settembre – Verso la Germania
Dal giorno 18 il viaggio proseguì definitivamente in ferrovia: Sugna, Zagabria e, via via, fino a Wietzendorf, ove il reparto giunse a mezzogiorno del 23 settembre 1943.
Attraverso diverse drammatiche vicende si compì il destino degli altri raparti del 4° reggimento.
Il destino fu favorevole al XXIX battaglione che a Spalato riuscì, quasi per intero e con i partigiani a protezione del porto, a imbarcarsi a Spalato su due navi inviate dall’Italia e che sarebbe poi stato integrato nel cobelligerante Corpo Italiano di Liberazione.
Buona parte del XXXI si unì invece ai partigiani e sarebbe poi confluita nella divisione Garibaldi, mentre tutti i rimanenti reparti, compresa la compagnia comando del tenente Quaglino, seguirono a breve la sorte del XXVI, affrontando ancor peggiori disagi prima di essere internati in Germania. La compagnia motociclisti riuscì infine a raggiungere la costa marchigiana, non sappiamo con quali esiti finali.
Particolarmente sfortunato fu Scalone, che, pur appartenendo al XXIX e quindi destinato al probabile rimpatrio, si trovava all’8 settembre ricoverato all’ospedale di Zara per le conseguenze di ferite agli occhi e che, forzatamente dimesso, fu fatto prigioniero ed internato anch’egli.
Alla data dell’8 settembre 1943, al comando del 4° reggimento bersaglieri c’era il colonnello Ugo Augusto Verdi, classe 1893, originario di Canneto Pavese, vicino a Stradella. Nel corso dei tumultuosi e tragici eventi che fecero seguito all’armistizio, egli venne catturato con i suoi soldati da reparti della divisione SS Freiwilligen Division “Prinz Eugen”, ma rifiutò, come tanti altri valorosi, ogni tipo di collaborazione e tale rifiuto gli costò la vita.
Egli fu quindi inserito in un gruppo di ufficiali catturati che, con il pretesto del trasferimento in Germania, furono caricati su degli autocarri e infine uccisi a colpi di mitragliatrice. Il massacro, rimasto a lungo ignorato, fu portato alla luce e ricostruito solo a seguito di ostinate ricerche da parte di alcuni parenti dei caduti. Soltanto una parte delle salme fu recuperata e tra quelle non c’era quelle del colonnello Verdi, cosicché e luogo e data della sua esecuzione non sono mai sati confermati con precisione. Anche perché, in tal senso, le testimonianze furono divergenti. Secondo alcuni l’ufficiale fu fucilato dai tedeschi nei primi giorni dell’ottobre del ’43, direttamente nell’attuale capitale croata o nei suoi pressi. Secondo altri, le cose si svolsero in altro modo: il comandante del 4º bersaglieri fu prelevato dai nazisti, condotto in un campo di concentramento nei pressi di Vienna e qui impiccato la mattina del 25 ottobre 1943, insieme ad altri tre ufficiali italiani. (Quaglino verificare)
Per saperne di più: https://issuu.com/rivista.militare1/docs/dalmazia-1943-44-3
Il capitano Giuseppe Conti comandava l’ottava compagnia del XXIX battaglione, che fu sorteggiato, tra altri reparti, per il rientro in patria su una imbarcazione di fortuna. Visto che non tutti i suoi uomini avevano potuto trovarvi posto, decise di non abbandonarli e di rimanere a terra. Catturato dai tedeschi, fu fucilato il 25 settembre 1943.
La lettura e la trascrizione dei fatti di guerra narrati dal papà mi hanno naturalmente appassionato ed emozionato, ma quello che accadde dopo l’8 settembre, pur in assenza dei suoi scritti e con il solo ricordo di certi suoi brevi racconti, mi ha commosso ancora di più e mi ha portato ad analizzare e ad approfondire quegli avvenimenti, avvenuti attorno a Spalato nel settembre 1943, nei quali il papà fu coinvolto. È stato un salto “emozionale”, dovuto alla presa di coscienza del fatto che tutti gli orrori di guerra raccontati dal papà fino a tutto il 1942, erano stati, alla luce degli eventi post armistizio, un male tutto sommato sopportabile, in quanto inquadrato in un contesto bellico convenzionale, nel quale i soldati dovevano mostrare lealtà istituzionale, onore e valore, fino al sacrificio della vita, in un uno schema tutto sommato riconosciuto ed accettato.
I nuovi orrori, al contrario, furono procurati dalla mancanza di ordini e dalla codardia dei vertici politici e militari, da comportamenti ancor più sciagurati in quanto i soldati italiani non furono abbandonati nelle mani di un nemico convenzionale, che li avrebbe “solo” fatti prigionieri (anche con tutti i rischi relativi), ma, insieme, di un ex-alleato, sanguinario di suo, in cerca di vendetta, di popolazioni aggredite e vessate in cerca di rivalsa e di partigiani che, a lungo combattuti dai nostri, si lasciarono andare talora ad esecrabili brutalità (anche se, di queste ultime e limitatamente alla zona e al periodo in questione, non ne ho trovato notizia, almeno nei nostri confronti).
All’armistizio eravamo arrivati cercando la conquista di terre altrui, violando il diritto internazionale, ignorando le convenzioni, commettendo crimini e soprusi su popolazioni indifese: una miscela esplosiva che avrebbe scatenato poi altre violenze e vendette su ampia scala.
I nostri soldati furono abbandonati In quella funesta miscela, privandoli addirittura delle armi proprio nel momento in cui avrebbero voluto usarle, finalmente non per eseguire ordini spesso scriteriati, ma per dignità e sopravvivenza. Né avevano una guida cui ispirarsi, un simbolo cui guardare, un ideale cui aggrapparsi: il duce era caduto, il Re ed i comandi militari si erano messi al sicuro e Badoglio chi? Uomini soli, reduci da anni di dovere e di battaglie e lasciati al loro triste destino, soldati spinti allo sbando tra nemici, ex-nemici, ex-alleati e gente ostile, umiliati per una Patria che rischiava di scomparire e che essi non potevano difendere, così lontani da casa e dalle famiglie.
La notizia dell’armistizio fu accolta come la fine della guerra, come la liberazione dall’incubo, come l’inizio del ritorno a casa e fu invece l’estrema beffa, in poche ore divenuta una maledizione.
Per i militari italiani sparsi sui vari fronti e lasciati in quell’inferno, il peggior nemico si rivelarono i tedeschi, che ne uccisero complessivamente circa venticinquemila, la più parte proprio nei Balcani, ove erano di stanza oltre 600.000 soldati, dispersi in avamposti isolati ed esposti agli attacchi dei partigiani.
Quanto avvenuto nella zona di Spalato nel settembre 1943 rappresenta l’ennesimo capitolo del libro della “grande rimozione nazionale”, un capitolo ignorato, noto ai pochi che hanno incrociato le rare testimonianze dei sopravvissuti o dei parenti che volevano sapere avere notizie sui loro cari mai tornati.
L’8 settembre 1943 segnò quindi per l’esercito italiano la fine della guerra convenzionale e l’inizio del suo completo dissolvimento, ma non cessarono, laddove poterono compiersi, gli atti di eroismo e di sacrificio, che, anzi, brillarono di una luce nuova, più gloriosa, in quanto non scaturivano più da scellerate direttive politiche e da ordini dei vertici militari, ma, in assenza degli uni e degli altri, si sprigionavano da un impeto individuale e collettivo di dignità e di riscatto, proprio nel mezzo di quelle tenebre morali e materiali in cui la Patria era precipitata.
Se Cefalonia fu l’episodio di eroismo e di sacrificio più noto e più triste, che vide i soldati italiani combattere contro i tedeschi e questi assassinare i sopravvissuti che si erano arresi, e se la vicenda degli IMI, seppur tardivamente, ha avuto adeguate eco e attenzione, non dobbiamo dimenticare le migliaia di episodi della stessa matrice, la maggior parte dei quali passati sotto silenzio o dimenticati.
Per primi, visto che riguardano luoghi e reparti vicini alle vicende del papà, dobbiamo ricordare i 47 ufficiali trucidati dai tedeschi, a seguito della inaspettata resistenza loro opposta dai reparti italiani di stanza nella zona ove, in particolare, con la divisione Bergamo si trovava proprio ad operare il reggimento di papà. Ed infatti, tra quegli ufficiali, due erano del 4° bersaglieri: il colonnello Ugo Verdi, ultimo comandante del reggimento, ed il capitano Giuseppe Conti, del XXIX battaglione (in questa pagina le sintesi delle circostanze in cui avvenne la tragedia).
Li dobbiamo ricordare insieme ai loro soldati, ai loro bersaglieri, che, con il loro senso del dovere e spirito di abnegazione con essi vissero quei drammatici momenti e che, nel giro di pochi giorni, la sorte spinse su strade differenti: chi in prigionia, chi in Italia, al di qua o al di là della linea gotica, chi ancora in Jugoslavia, a combattere nella divisione Garibaldi.
Il 25 luglio 1943, quarantacinque giorni prima dell’8 settembre, in un contesto meschino e in palese contrasto con la vanagloria del ventennio e dell’impero, era caduto Mussolini. L’evento era stato salutato dalla gente come una liberazione finale dalle sofferenze, dalla vergogna e dalla guerra, mentre i militari, al fronte, ebbero modo di meditarvi sopra e di percepire nettamente gli inganni e le menzogne sin lì loro propinate: dal punto di vista militare un vero e proprio tradimento, perpetrato dal governo fascista italiano attraverso ed al prezzo di lunghi anni di inutili sacrifici, sofferenze e morte. Qui è nata la prima stella della resistenza, la scelta fatta dai militari militari in Jugoslavia e ovunque, che si concretizzò in un immenso e travolgente NO ai tedeschi, scegliendo o di combatterli o di esporsi alla prigionia, piuttosto che non la collaborazione con essi. Fu una scelta di lotta contro un nemico forte e spietato, al quale l’Italia si era lanciata in folli aggressioni e ignobili crimini, e per la libertà dei popoli, un nemico esterno ben individuato, contro il quale lottare per il riscatto e l’onore del popolo italiano e dei soldati italiani, i quali avrebbero potuto finalmente supportare il loro valore con un nuovo e onorevole valore morale. Leggendo le storie, i racconti, le memorie di quei giorni dei militari italiani, si percepisce chiaramente come la scelta delle armi o del rifiuto contro i tedeschi costituì principalmente per la stragrande maggioranza di ufficiali e soldati costituì l’affermazione e la difesa della propria dignità di militari e di uomini obbedienti agli ordini ricevuti, pur contraddittori e tardivi, ma fieri nel non voler sottostare agli ordini e alle minacce a mano armata da parte dei tedeschi (SS, nel caso specifico). Il NO ai tedeschi fu un atto di guerra motivato da un forte senso unitario e patriottico verso un nemico che, come tale, ci risultava anche storicamente congeniale: nessuno, comunque, pensava ad una rivincita contro qualcuno, ad guerra civile tra italiani, anche perché gli italiani tutti e i militari più di tutti si sentivano in qualche modo corresponsabili, se non complici, della situazione cui eravamo giunti e dell’assuefazione alla dittatura. Se guerra civile poi fu, essa fu quella parte di lotta armata che si svolse tra milizie o bande armate di un governo fantoccio contro militari e partigiani italiani che stavano combattendo un nemico invasore della Patria.
Il tenente Ilare Mongilardi, classe 1915, era del XXXI battaglione del 4° reggimento bersaglieri ed aveva già ricevuto una medaglia di bronzo per una coraggiosa azione di combattimento compiuta in Croazia il 17 maggio 1942.
Immediatamente dopo l’armistizio, visti gli indugi negli ordini, le incertezze della situazione e il pericolo di finire nelle mani dei tedeschi, egli raccolse un gruppo di bersaglieri del suo battaglione e si unì con altri reparti italiani, la maggior parte costituita da carabinieri di stanza a Spalato, al comando del capitano Francesco Elia. Nacque così il battaglione “Garibaldi”, del quale diventerà poi egli stesso comandante e i cui uomini ebbero modo di distinguersi in più occasioni nel corso di aspri combattimenti contro i tedeschi, in qualche occasione determinanti per la protezione del grosso delle forze jugoslave in difficoltà. Il reparto si trasformerà poi in Brigata d’assalto “Italia”, prima di confluire nella divisione “Italia”, cooperante a tutti gli effetti con gli Alleati, che ne apprezzeranno l’estremo valore.
Mongilardi si divise incessantemente tra una costante opera di raccolta, integrazione e addestramento dei militari italiani sbandati e la conduzione di ardite azioni di combattimento, in una delle quali, il 2 ottobre del ’44, rimase ferito. Fu ricoverato in ospedale, trasferito in Italia e, una volta guarito, chiese di tornare in Jugoslavia. Portò con sé una radio per attuare un collegamento costante tra la sua unità combattente e lo Stato Maggiore italiano. Durante un successivo viaggio verso l’Italia per procurarsi il cifrario necessario all’attivazione delle comunicazioni, l’aereo su cui viaggiava, con alcuni elementi alleati in missione, precipitò vicino a Belgrado, senza la possibilità di un suo riconoscimento ufficiale tra le vittime.
Qui sotto sono riportate le motivazioni delle due decorazioni ottenute per il suo coraggio, dimostrato su fronti opposti di combattimento, un binomio emblematico della lealtà e dell’onore di un soldato e un simbolo dell’assurdità di certe guerre.
Vedere sotto il riquadro ISSUU dedicato a questo paragrafo e a quello seguente.
Nel capitolo 7, il papà racconta della tappa ferroviaria di Jesi nell’avvicinamento alla guerra di Grecia: era il 28 ottobre 1940 e il reggimento vi sfilò a passo di corsa coi suoi tre battaglioni ed il cagnolino Bramans.
Quasi quattro anni dopo, i bersaglieri sopravvissuti del XXIX battaglione, sfuggiti a Spalato dalla cattura da parte delle SS, combattono e vincono contro il nuovo nemico la battaglia per la liberazione della città, pagando un consistente tributo di sangue.
Di seguito è riportato un breve estratto delle memorie del capitano Giuseppe Moiso, ove racconta la liberazione di Jesi. Il brano è riportato sul libro del tenente Quaglino.
Il 18 luglio 1944, il Corpo Italiano di Liberazione, schierato sulla sinistra dei polacchi, con un ampio settore da coprire, con soldati stanchi e logori, ma galvanizzati da una inesauribile volontà di volontà di battersi, ha il duplice compito di svolgere un attacco concomitante in direzione di Santa Maria Nuova e di fissare il nemico, schierato ancor più ad occidente, per garantire il fianco del complessivo schieramento.
A tarda sera, superando un tenacissimo fuoco nemico e incuneandosi in ampie zone minate, il XXIX battaglione bersaglieri si congiunge con il battaglione alpini “Piemonte” ed alcuni elementi del 68° reggimento fanteria alla periferia sudorientale di Santa Maria Nuova.
All’alba del 19 luglio, entrano in paese, ma gli sguardi di tutti cercano ansiosi Jesi. La cittadina si nasconde dietro ad una delle ultime propaggini collinose che scendono dall’Esino. Alle 10 e 30, il XXIX battaglione bersaglieri inizia l’avvicinamento. Un giorno e una notte di continuo movimento, con pasti molto sommari, la tensione continua del combattimento, le insidie delle mine, il calore torrido del luglio infuocato non hanno ancora piegato i bersaglieri. Il battaglione, che da 24 ore marcia e combatte con le armi in spalla, perché le proprie salmerie sono indietro in attesa che i guadi siano bonificati dalle mine, punta su Montegranaro procedendo cautamente e lentamente. Il comando di battaglione distacca sul primo costume la settima compagnia, che viene duramente impegnata con molte perdite, tanto che, su iniziativa suggerita dal generale Utili (*), sul secondo costone viene inviata la quinta compagnia, che raggiunge di slancio la cima del monte. Purtroppo, questa è rappresentata da un pianoro che il nemico ha disseminato postazioni protette o mimetizzate e i bersaglieri sono presi sotto il fuoco incrociato di armi automatiche, mentre contemporaneamente le artiglierie nemiche, piazzate sulla sinistra dell’Esino, aprono un fuoco tambureggiante e spaventosamente preciso. Il combattimento si accende e i bersaglieri, a gruppi, rigando il terreno di sangue. incominciano a snidare ad uno ad uno i nuclei avversari.
Mentre la quinta compagnia è così impegnata frontalmente con tedeschi, il comando decide di aggirare con il resto del battaglione le pendici nordorientali del Monte Granale per prendere alle spalle il nemico in corrispondenza dei ponti di Jesi, ben sapendo che il battaglione non potrà avere nessun rapporto dall’artiglieria non ancora adeguatamente posizionata. Così il XXIX battaglione gioca da solo la sua carta e, a sera, si ricongiunge con l’eroica quinta compagnia, che ha combattuto per nove ore consecutive. Il tiro delle artiglierie nemiche si attenua col buio e i bersaglieri si abbattono al suolo, fulminati dal sonno.
Tocca così ad un battaglione di alpini, trovato il terreno sgombro da qualsiasi esistenza ed informato dalle proprie pattuglie esplorati che nemico ha lasciato Jesi nella notte, entrare in città alle sei del mattino.
Umberto Utili (Roma, 18 luglio 1895 – Milano, 27 ottobre 1952), generale di divisione, fu comandante del Corpo Italiano di Liberazione.
Jesi – Lastra a ricordo del XXIX battaglione del 4° reggimento bersaglieri.
(Pietre della Memoria – 8695)
Il papà e la zia raccontavano spesso della sorpresa, della gioia, del commosso abbraccio nel quale essi si strinsero, in quel 30 agosto 1945, a Milano, quando il papà fece ritorno a casa, per sempre. Ma della liberazione da parte degli inglesi e del lento e lungo viaggio di rientro in Italia egli non disse mai nulla.
Sono rimaste solo tre fotografie che il papà ha conservato (sono le ultime riprodotte nella “galleria”): le ho trovate molto tardi, conservate a parte rispetto alle fotografie e alle cartoline precedenti, che invece mi fu consentito di vedere fin da bambino, al prezzo di qualche scarabocchio sulle prime e dell’asportazione, tanto accanita quanto maldestra, di tutti i francobolli dalle seconde.
La prima fotografia, non legata al ritorno, presenta più di un interrogativo. Essa riporta sul retro il timbro dello stalag: quindi è stata scattata prima (ma in Croazia no di certo) o durante l’internamento nel campo. La ragazza, ripresa in periodo estivo, ha, in effetti, un cognome (Nerz) chiaramente tedesco, ma la dedica alle sorelle è in italiano: un’amica di Stradella, col cognome tedesco (ma dubito, mai sentito né della ragazza né del cognome), della quale portò con sé una fotografia ricordo al ritorno dalla licenza? O un’amica tedesca che sapeva l’italiano, conosciuta durante la prigionia, nell’ultimo periodo, quando il nuovo status di lavoratori civili consentiva agli IMI dei contatti esterni? Ma, anche in tal caso, perché la dedica alle sorelle e perché in italiano? Non quadra neanche così.
Le altre due fotografie si riferiscono invece a due momenti successivi alla liberazione e rappresentano molto bene le situazioni e le atmosfere descritte nei numerosi libri, di testimonianza o di ricerca, che hanno raccontato di quella fase della dolorosa storia degli IMI.
Ho sempre creduto che Carlo Carini, ritratto in una delle forografie conservate dal papà (riportata sotto), fosse stato un compagno d’arme del papà, anche se mai citato nei diari, caduto in battaglia, come, ad esempio è stato per Pissinis: ma nessuna ricerca negli elenchi dei caduti, dei decorati, o altro, ha dato risultati.
Solo in tempi recenti, in occasione di una visita al cimitero di Stradella, dove si trovano ancora tumulati i miei nonni materni, e soffermatomi davanti al monumento ai partigiani, ho trovato il suo nome scolpito tra quelli di ventiquattro caduti per la libertà e ho potuto così attribuirlo, finalmente, a quel volto, a quell’immagine così a lungo rigirata, senza risposta, tra le mani.
Carlo Carini, nato a Stradella nel 1924, entra, giovanissimo, nella resistenza e combatte tra le fila della divisione Matteotti “Valle Versa – Dario Barni”.
Il 1° gennaio 1945, in un combattimento in località Costa di Montecalvo Versiggia, un suo compagno, Ennio Chiesa, di Arena Po, viene ferito da militi della Sicherheit e Carini prova a portarlo in salvo, ma rimane a sua volta ferito, insieme ad un altro partigiano, Andrea Fusi (divisione Masia). Tutti e tre vengono torturati e poi fucilati.
A Carlo Carini venne intitolata la prima brigata della divisione Matteotti “Valle Versa – Dario Barni”, a lui il comune di Stradella ha anche intitolato una via e, a suo ricordo e dei suoi compagni, un monumento è stato eretto a Montecalvo Versiggia.
Non è nota la traccia precisa che ha portato il papà a possedere quella foto: ovvio che si potessero conoscere, ed essere amici, anche se c’era un certa differenza d’età, ma non è dato sapere quanto fosse stato spesso il loro legame (o tra le loro famiglie), tale da spiegare il possesso di un ricordo così personale e significativo.
La foto era conservata insieme a tutte le altre del periodo militare e, per certi aspetti, con esse stridente, in un accostamento ricco di simbologia e di riflessioni: il papà combatte con i tedeschi contro i partigiani, divenendone poi prigioniero, il suo amico e compaesano partigiano combatte e muore per mano di sicari dei tedeschi. E le loro foto finiscono insieme…
Notizie tratte da: ANPI.it (Lombardia, Voghera, Centro documentazione resistenza – Ugo Scagni, La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po, ed. Guardamagna, Varzi, 1995) – www.casadellaresistenza.it/ – www.luoghidelricordo.it.
Per saperne di più sul XXIX battaglione del 4° reggimento bersaglieri nel contesto della resistenza dei militari italiani all’estero e del Corpo Italiano di Liberazione.
Le tre fotografie del riquadro sottostante sono state conservate ciascuna in triplice copia. In quella qui in alto è indicata la data del 7 giugno 1943, mentre è in atto il trasferimento da Traù a Pergomet. Sul retro delle immagini comincia ad apparire il timbro dello stalag XA: il papà non ha fatto in tempo a spedirle prima dell’8 settembre e le ha portate con sè in prigionia.
Sul retro di una delle tre copie della foto in alto, ci sono dei conteggi relativi a generi alimentari (meliga, riso…). Siamo abbondantemente nel dopoguerra (Stradella, 13 aprile 1947), il papà è gia sposato e io ero in arrivo. Probabilmente si trattava di attività legate all’assistenza ai reduci e mancava un foglio su cui fare i conti.
In questa fotografia Dante non appare, ma la calligrafia sul retro è la sua. Il timbro dello stampatore consente di localizzare l’immagine a Lubecca (o nei suoi dintorni). L’annotazione non aggiunge nulla.
In questa fotografia, del 26 luglio 1945 (poco più di un mese prima del suo arrivo a Milano), Dante ritrova il ballo e le conseguenti compagnie femminili: eccolo che, pantaloni perfettamente stirati, osserva attentamente gli orchestrali e le ragazze sul palco. La località indicata potrebbe a prima vista far pensare a Innsbruck, compatibile in generale con il percorso di rientro di molti internati provenienti dal nord della Germania), ma la grafia non corrisponde esattamente: più probabile trattarsi comunque di una località con la radice proveniente dal fiume Inn, ma con desinenza tipo …erich.