I DIARI DI DANTE

QUADERNO II - Da agosto 1940 a Aprile 1941

Indice

Il testo dei Diari è affiancato a da contenuti e immagini di contesto e complemento (“riferimenti”). In particolare, sono riportati ampi stralci di due testimonianze “speciali”, lasciateci da due persone che hanno condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende e che ne hanno voluto, come il papà, lasciarne testimonianza e ricordo: sono quelle del tenenete Sergio Quaglino e del bersagliere Luciano Scalone. Il primo ha scritto un libro di qualificata valenza memorialistica e storica, descrivendo fatti, luoghi e persone in un perfetto equilibrio tra il mito patriottico, la passione determinata dagli eventi e il succedersi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo, un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia,  ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione ad essa, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.

La ricerca prima e la disponibilità poi di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari  ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze, oltre ad aver dato spunto ad inaspettati approfodimenti e consentito sorprendenti scoperte storiche, che altrimenti sarebbero andate perse. Almeno per me.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone, i “riferimenti” appaiono alla fine di ciascun blocco contenitore.

[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.

Testo tratto dal diario del Ten. Sergio Quaglino

Testo tratto dal diario del bers. Luciano Scalone

Capitolo 10 - L'OFFENSIVA GRECA E LA DIFESA SUI MONTI

IL RACCONTO

Lo seguiamo, tutti i carichi con armi, cassette e porta-mantellina, con dentro la coperta-telo e altra roba di vestiti, tutti stanchi, brutti, la barba lunga: guai se qualcuno dei miei cari mi avesse visto! Erano le 14, si camminava su di una stradetta che sempre saliva, ma già dopo 4 o 5 chilometri eravamo lontani dai compagni degli altri due battaglioni. Sentiamo una scarica di mitragliamento da un apparecchio e un rombo acuto, tutti pensavamo al nostro presente. Di tanto intanto arrivavano motocarrelli che portavano materiale e munizioni e ci dicono che quel mitragliamento dell’apparecchio ha preso in pieno la decima compagnia che stava prendendo il rancio: 5 morti, 17 feriti e 2 ufficiali molto gravi. Anche lì l’amico Maggi di Broni fu salvo. Sempre avanti e di tanto in tanto ci davano qualche minuto di riposo perché sapevano che le forze ormai erano esaurite. Mentre passavano i motocarrelli, ci buttavamo tutto sopra, perfino il porta-mantellina. Viene il tramonto e ancora si cammina: sono le 21 sempre del 23 novembre e la notte è buia. Viene un portaordini a farci coraggio, preannunciando che presto sarebbe arrivata la pastasciutta: coraggio sì, ma le forze erano perdute. Ci fermiamo giù, in fondo a una montagna e dopo una mezz’ora arrivò il rancio: una guerra e in breve tempo tutto fu divorato. Il capitano ordina che possiamo metterci giù a dormire al meglio: per fortuna ci siamo tenuti la mantellina, così ci siamo messi in tre vicini e dalle 22 abbiamo riposato fino alle sei del 24 novembre.

Sono le sei, siamo più morti della sera prima, ma bisogna andare avanti e anche i motocarrelli venivano a prendere i bersaglieri che più faticavano ad andare avanti. Sono le otto, arriviamo dove tutto il nostro materiale era a terra, ognuno si cerca tutta la sua roba che aveva in consegna, tutti i porta-mantellina sono mischiati, io me ne sono preso uno e va’ là che vai bene! In poco tempo tutto fu trovato: arma, treppiede, cassetta e canna di ricambio. Ci sbattono su di una mulattiera e sempre avanti; tutte le altre compagnie erano già avanti e alle 11 siamo tutti insieme. Alle 14 arrivò il nostro colonnello con un generale, hanno visitato tutta la cima e poi sono scesi. Il tenente ci assegna il posto e il settore, facendoci fretta nel preparare la postazione. Vado alla terza compagnia in cerca di un piccone, lo trovo e mi sbrigo a fare la postazione. Non ho ancora finito del tutto e giù acqua, poi si fa notte e il tascapane è vuoto, pazienza! La notte passò e il 25 novembre mattino, alle 10, arrivò un po’ di caffè e il cuciniere ci dice che alla sera avrebbero portato gallette e scatolette. Il fronte è calmo, la giornata passò, tutta con tempo brutto, acqua e nebbia.

Passò il 26 novembre, siamo al mattino del 27 novembre e tutti siamo in attesa di qualche cosa per scaldarci la pancia. Da più di due ore stava passando il 208º reggimento fanteria[1], dopo arrivò il caffè, ma ormai era freddo: qua c’è da stare allegri! Coraggio! Il 28 novembre mattina, piove e c’è una nebbia fitta fitta, bisogna spiantare tutto e ancora bisogna salire: per fortuna abbiamo i muli che ci portano su le armi. Avanti e giù acqua, sono le 16 e tutto il battaglione è riunito, il nostro maggiore vuol farci una predica e per una bella mezz’ora ne ebbe da dire: con lui non si andava mai bene abbastanza e la pancia era sempre vuota. Anche lui si calmerà, lascia che gridi! Il primo plotone deve andare con la prima compagnia, i muli hanno lasciato le armi lì da noi e sono scesi. Armi in spalla e avanti, ormai è notte. Il tenente ci dà un punto così alla bell’e meglio e piazziamo l’arma; intanto l’amico Formica si allontana e dopo dieci minuti arriva con una bella carga[2] di fieno: facciamo la tenda e sotto. Chi fa la guardia allarma, ma speriamo non voli via. La notte passò.

Il 29 novembre mattino, il tenente viene ad assegnarmi il posto dove fare la postazione e il settore, in fretta tutto è fatto, l’arma è a posto, nel caso eventuale che un’altra postazione soffra8. È notte, non piove, ma è nuvolo, bisogna fare attenzione alle piante[3]. La buca non era tanto alta. Per paura che i greci vengano a portarci via l’arma, ci dormiamo sopra. Ci svegliamo al mattino e abbiamo il telo sulla pancia: c’era stata una bella nevicata, più di 30 centimetri! Da qui incomincia il bello: in qualche modo ci siamo arrangiati ad alzarci un po’ la tenda, ché levarci la neve sarebbe stato un errore, era come farci scoprire, meglio lasciare tutto bianco. Che bei giorni!

Il 30 novembre niente rancio e tutte le scarpe rotte. Il mattino del primo, del 2 e del 3 dicembre ci furono diversi squilli di tromba e grida che venivano da lontano, con i greci che avanzavano: qua la si fa bella la faccenda! La barba era stata tagliata l’ultima volta il 15 novembre e ricominciava ad allungarsi, acqua per lavarci non ce n’era e bisognava lavarsi con la neve, il freddo incominciava a farsi sentire. La sera del 3 dicembre arrivò un po’ di rancio e, là vicino al fuoco, in poco tempo tutto fu divorato. Il nostro aiuto era proprio il fuoco e, sebbene scalzi e in mezzo alla neve, il coraggio di andarci a prendere la legna nei boschi c’era sempre. Più era il tempo che si stava vicino al fuoco che sotto la tenda. Sono le due del 4 dicembre, Dante se ne va sotto la tenda con i piedi asciutti e caldi e subito si addormenta. Si fa giorno, un bel sole che brilla contro la neve, tutti quei giorni così tranquilli, chi lo va a pensare? Ma quando nessuno se lo aspettava, arrivava una scarica di lanci di mortaio: fischiavano sopra che era un piacere sentirli! Chi sono? I nostri no, sono i greci? Ma chi ne sa qualche cosa? Non sono ancora le dieci quando il tenente mi fa avvisare di sbrigarci e portare via tutto. In un attimo questo fu fatto, nessun’altra novità, ma i colpi di mortaio cominciavano ad avvicinarsi sempre più a noi. Il tenente segna un altro posto per piazzare l’arma alla sinistra delle altre due armi del plotone, lì vicino c’era una squadra di mortai nostri e sbracavano tutto. Dante diceva ai suoi amici di squadra: «Qua l’andiamo a vedere bella per la seconda volta!» Non ho ancora detto questo che il tenente comanda di preparare tutto, mentre si vedevano i greci sulla montagna opposta che avanzavano a gran forza. Arriva il tenente con tutti gli altri. I bersaglieri hanno i materiali in spalla, quelli dei mortai scendono giù e noi dietro. Mulattiere ce n’erano dappertutto, chi li va a pescare? Passiamo accanto al comando del nostro battaglione e non c’è più nessuno, si scende un po’ a piedi e un po’ per terra, a ruzzoloni, Dante si accorge che ha smarrito la mantellina, le pallottole fischiavano dentro nei prati, colpi a gran forza, tric, trac e c’è il bersagliere Elli, il porta-arma, che non ha più la forza di andare avanti (già da qualche giorno non si sentiva bene). Prende allora l’arma il bersagliere Barbero, lascia la cassetta accessori a Elli e avanti! La fila cominciava ad allungarsi, Dante si legava la scarpa con dello spago, altrimenti la perdeva. Andiamo di qua e di là, la cassetta porta-mantellina va per terra, tutto era lasciato per scappare: il tenente aveva dato proprio l’ordine di lasciare tutto fuorché la cassetta delle munizioni, ma le cassette erano pesanti e di fiato non ce n’era più. Dante si ferma, stacca il tascapane dalla cassetta e poi giù per la montagna a seguire gli amici. La cassetta e la canna scendevano da soli nel profondo canalone e quell’idea di Dante fu la sua salvezza: le forze ormai erano tutte esaurite e tenersi ancora quel peso sulle spalle voleva dire il rischio di rimanere prigioniero. Ormai la fila si era allungata, il tenente era lontano, Dante, sfinito, riesce a raggiungere gli amici ed è il momento di dover mettere i piedi nell’acqua se non vuoi essere prigioniero: davanti un canalone largo 12 metri, con dentro 60 o 70 centimetri d’acqua e per cavarcela l’abbiamo attraversato tre volte. Forse siamo fuori dal pericolo e ci fermiamo a riposare un po’ e ad aspettare i ritardatari.

Dante cadde per terra, già tutto bagnato e per quasi una mezz’ora rimase sulla neve e gli sembrava di essere a letto che riposava, ma era un gran male per la sua salute. Mi sento di alzarmi, vedo l’amico Barbero con l’arma che aveva preso in consegna e il bersagliere Elli, che aveva preso gli accessori: anche lui faceva pietà, vestito in qualche modo, non aveva le forze per camminare. Accanto a noi, il tenente ci fa coraggio e andiamo avanti: erano cinque ore che si camminava con la forza più tenace che una persona potesse avere. Tutti eravamo sfiniti, ma per salvarci la pelle si fanno degli sforzi proprio esagerati. Ormai è sera e qua forse viene il bello: noi eravamo con la prima compagnia e non si sapeva che fine avesse fatto il comando di battaglione. Arriviamo vicino a sei o sette capanne da albanesi[4], ma non si sa cosa fare perché sono abitate; c’è neve dappertutto e non abbiamo più nessun attrezzo perché avevamo smarrito tutto. Il tenente chiede ai capi squadra se le armi e le cassette ci sono tutte: la prima squadra una, la seconda una e la terza per fortuna ne aveva tre. Il tenente rimase molto contento di Dante, perché la sua squadra teneva più munizioni che le altre due.

È sera e il capitano Palazzo, comandante della prima compagnia, dà l’ordine di seguirlo e si raccomanda che nessuno rimanga indietro, perché, se no, sono guai. Ci si incammina uno dietro l’altro, avanti e avanti su per una montagna, dappertutto neve, cammina e cammina, siamo tutti sfiniti. Dante non fumava e teneva con sé le sigarette distribuite, mentre tutti gli uomini erano rimasti senza. Mi dicevano che a loro una sigaretta avrebbe dato la forza come se avessero mangiato una pagnotta e così Dante dava sigarette a tutti. Noi camminavamo, ma chi ne sapeva dove andavamo a finire? Sono le due del 5 dicembre, con un freddo da cane arriviamo tutti bagnati sul Bregu i Bresaves: era questo il nome della montagna. Qua il tenente ci segna il posto e ci dà il settore, perché bisogna fare la postazione per l’arma: che bella notte! Ma con pazienza la postazione è fatta. Dante si teneva ancora il porta-mantellina con qualche paio di calze, così mi sono seduto su di una roccia e mi sono cambiato le calze: i piedi sembravano in paradiso, ma la mantellina, Dante l’aveva perduta; per fortuna aveva ancora il telo da tenda, se lo buttò in testa e l’amico Martinelli, vedendo che io avevo il telo, anche lui s’infilò sotto; la squadra sparisce tutta, un bersagliere qua, l’altro là, ma Barbero non si trovava: pazienza!  

La notte del 6 dicembre passò e il giorno dopo, al tenente, la postazione non va più bene: cerca e cerca, mi segna il posto e il settore e anche questo fu fatto. Arriva il bersagliere Barbero che alla sera, sfinito per aver tenuto con sé l’arma, si era fermato nella capanna dei Giargianesi[5], dove si era anche sfamato di carne di mulo morto. Il bersagliere Elli veniva ricoverato all’ospedale, Dante era con una sola scarpa, il tenente dà l’ordine di fare la tenda e un solo bersagliere rimane a turno vicino all’arma, ma teli non ce ne sono: come si fa? Qua c’è un telo solo, quello di Dante, che per il momento non si sa quanto può valere. Dante mise il suo telo sopra l’arma e attorno un bel muro di sassi: così un pochino si era riparati. Il telo ci ha la larghezza di due metri, ci mettiamo l’arma, tre cassette di munizioni, quella grossa piena dei pacchi che al mattino avevano mandato su coi muli della fanteria, ma rancio niente. Nel pomeriggio arrivò il nostro maggiore tutto sconvolto, perché il suo battaglione era tutto sperduto, un bel numero di bersaglieri fatti prigionieri, in particolare la maggior parte della terza compagnia ed il quarto plotone della quarta compagnia. Sapeva che eravamo vestiti a malapena e che c’era bagnato dappertutto, ma di ritirarsi niente da fare! Il colonnello aveva fatto domanda al generale per il cambio dei vestiti, ma la roba era lontana. Si pensava alla posta, ma chissà dov’è e chissà quando potremo scrivere! E quanta pazienza: dal freddo non si poteva resistere. Poi viene la notte dell’8 dicembre, con acqua, vento e una tormenta tremenda. Il tenente teneva la tenda poco lontano dalla nostra postazione e il vento gliela portò via, l’acqua gliela allagò tutta e così venne a ricoverarsi nella tenda che tenevamo su, un cento metri dentro nel canalone, ma c’erano diversi bersaglieri delle altre due squadre e figuriamoci: acqua e vento, c’erano solo due teli, c’era sotto il fuoco, che dopo una mezz’ora si spegneva perché la legna era verde e bagnata e poi nel canale cominciava a scorrere l’acqua. Si fa giorno, sotto la tenda non ci si può più stare e siamo tutti bagnati.

Il 9 dicembre il tenente pensa di andarsi a cercare un posto sotto le rocce della montagna che si trovava alla nostra sinistra: là, così, si fece la sua grotta e meno male che se ne va un po’ lontano. Teneva con lui tre porta ordini, l’attendente e in più il caporale Fava, lui pure assegnato alla mia squadra. «Qua andiamo bene! Cosa facciamo?», mi fa il bersagliere Barbero. «Cosa vuoi fare?», gli rispondo. «C’è da pensare di accendere il fuoco, ma come facciamo, come facciamo? Ecco, qua c’è la zappa del tenente e, col coltello, facciamo i ricci e vedrai che il fuoco si accenderà. Coraggio, tu fai un bel mucchietto di ricci!» «Ed ora i fiammiferi!» Dante non fumava, ma una scatola di fiammiferi ce l’aveva sempre in tasca e così verso le dieci il fuoco andava a tutta forza: ci siamo asciugati un po’ e poi con un po’ di volontà abbiamo rinforzato il muro attorno all’arma. A dover andare a cercare i sassi sotto la neve venivano dei pensieri nella testa che non si possono neanche spiegare, cose da piangere, eppure si sopportava tutto. Verso sera bisognava pensare di procurarsi la legna per tutta la notte, però tutti eravamo con le scarpe rotte e pensare di dover lasciare il fuoco e andare in mezzo a mezzo metro di neve c’era da mettersi le mani nei capelli; ma per essere un po’ tranquilli nella notte, con un po’ di coraggio ci si riusciva e, un ramo qua e l’altro là, ci preparavamo la legna. Il rancio arrivava ogni tre o quattro giorni.

Alla sera del giorno 9 dicembre ci portarono due gallette e mezza scatoletta per uomo. Figuriamoci! Appena a vederli non ce n’erano più. Per sentirsi la pancia un po’ piena si faceva sciogliere la neve, si faceva bollire la galletta con la mezza scatoletta e veniva fuori una bella gavetta di zuppa. Ma Dante ormai era preso da dolori di ventre e non poteva mai riposare, specialmente nella notte. La barba si allungava, per lavarsi bisognava adoperare la neve, coperte da coprirsi non ce n’erano: era veramente una compassione, vedersi uno con l’altro, lo sguardo sconvolto. Figuriamoci! La sera del 9 dicembre passò, passarono giorni 10, 11 e 12 dicembre e, finalmente, si ricordarono di portarci da mangiare. Dopo tre giorni senza mangiare non c’era neanche la forza di stare in piedi. Fortuna vuole che ci fossero quattro pagnotte e due scatolette per uno e riuscimmo a sfamarci. C’era il bersagliere Gagliardini che in dieci minuti si mangiò tre pagnotte e poi una la mise nella gavetta per fare la zuppa: rimase con la vista che l’indomani guardava in bocca a noi tre[6], Barbero, Martinelli e Dante.

Ma da quel giorno i cucinieri avevano imparato per bene la strada e verso sera di tutti i giorni qualche cosa arrivava; poi lì attorno avevamo delle piantine che avevano come loro frutto delle palline nere come le olive, ma aspre, eppure diverse volte si mangiavano anche quelle. Giunse il giorno 18 dicembre, con un po’ di sole e con piacere si usciva da quella capanna, diciamo, a prendere un po’ d’aria sana e buona. Arrivò il furiere, chissà a fare cosa… Sapendo che di soldi non se ne poteva spendere, arriva per fare i vaglia, o meglio per prendere l’indirizzo dove sarebbe stato indirizzato il vaglia: e qui Dante spediva lire 300 alla sorella Rosa. Intanto che il furiere prendeva tutti gli indirizzi, Dante, che teneva nel tascapane qualche cartolina in franchigia, decise di dare sue notizie alla cara sorella, dicendo che lui stava bene. Di questo, Dante era contento, perché era dal 10 novembre che non dava più notizie a nessuno, tutto per mancanza di possibilità: chissà la sorella mia Rosa quanto pensava a suo fratello e veramente era così. Scritte le cartoline, Dante le consegna al furiere, assicurandosi che sarebbero partite, e lo ringrazia del gran favore, ma la posta in arrivo per noi? «Chissà dov’è e quando la vedrete…», il furiere diceva a Dante. Ebbene pazienza, basta essere vivi e che per le feste di Natale abbiano avuto quella cartolina, tanto per dare un po’ di tranquillità a casa e poi, per il resto, pazienza, tanti saluti e auguri.

Il mattino del 19 dicembre viene il tenente a farci una visita, facendo la nota delle scarpe e dei teli mancanti, ché avrebbero fatto il prelevamento nella giornata stessa. Il giorno 20 dicembre Dante veniva avvisato di scendere dal tenente con la nota che il giorno prima aveva fatto con lui: due o tre maledizioni, ma se ci fossero le scarpe non mi sarebbe dispiaciuto andare giù. Arrivato là, c’è un mucchio di scarpe e di teli, Dante voleva prendersi un paio di scarpe; cerca e cerca, ma fu costretto per forza a prendere un paio di scarpe strette, ché meglio non ce n’erano, ma sarà meglio che essere scalzo. Poi prende in consegna i teli per i bersaglieri della squadra che ne avevano bisogno e per ultimo ci sono anche tre o quattro giubbe: Dante chiede al tenente e riesce ad averne due, una per il Gagliardini e l’altra per lui, poi saluta il tenente e parte su per la mulattiera. Si facevano tre passi avanti e due indietro e con tanta fatica Dante riusciva in mezz’ora ad arrivare alla sua tenda, avvisando gli amici che avevano bisogno delle scarpe di scendere dal tenente. Poi subito a rinforzare la tenda con i nuovi teli, per essere riparati dal vento e dalla neve. Dante si lamentava della scarpa sinistra che gli stringeva il piede e così taglia un po’ la scarpa, ma l’indomani il tenente sale alla squadra a fare una visita e vede la scarpa nuova tagliata: così dà il cicchetto a Dante, ma uno scrollo di testa basta e tutto passa. «C’ho una bella notizia», fa il tenente, «il giorno 23 vengono a darci il cambio!». Nemmeno sembrava vero, perché di tanto in tanto si sentiva la voce ma mai non avveniva, speriamo questa volta che ce l’ha detto il tenente!

Le ore non passavano più, siamo al mattino del 23 dicembre, tutto calmo come tutti i giorni passati, solo un breve attacco avvenne il giorno 11, sparando solo cinque o sei lastrine e poi basta. È mezzogiorno e il tenente manda ad avvisare di preparare tutto, ché per le due avremmo avuto lì il cambio. Va bene, Dante dice ai bersaglieri che c’è la cassa delle munizioni da portare al tenente per metterla sopra il mulo, il mulo che il tenente si era trovato per suo servizio e dato in consegna al bersagliere Randazzo, che tutte le mattine andava nei boschi a fare la legna per il tenente. I due bersaglieri Martinelli e Gagliardini attaccano un pezzo di cordicella alla cassa e giù. Sono le due, tutto è pronto, arriva una squadra di fanteria, piazzano la loro arma, Dante dà la consegna al caporale della nuova squadra e parte giù per la mulattiera dietro al tenente. Dove andiamo? Ma chi lo sa! Dante cominciava a sentirsi un po’ bene, ma la forza era poca; coraggio! Arriviamo alle capanne che il giorno 4 dicembre avevamo lasciato: bisogna aspettare il maggiore e presto sarebbero arrivati i cucinieri con qualche cosa da mangiare. Tutti si aspetta, poi arrivano i cucinieri e c’è la Chiarizia[7], meno male! Coi cucinieri c’era da conducente anche l’amico Gatti, che sapendo della poca voglia che quasi sempre Dante aveva di mangiare quello che poteva avere, contento portava sempre qualcosa a Dante e proprio quella sera Dante si avvicina all’amico e lui tira fuori un bel pezzo di formaggio! Dante ringrazia tanto l’amico, dicendogli che da quello avrebbe potuto averne un po’ di forza.

Per quella notte, ci siamo fermati lì due ore e poi arrivò il maggiore: «Avete mangiato?» «Signorsì». «Va bene, io no, ma non importa: materiali in spalla e seguitemi!» Dante si assicura che tutti i bersaglieri siano presenti e seguiamo il nostro maggiore. La notte è fredda, Dante era senza mantellina, ma in quelle due ore aveva aperto gli occhi e si era procurato una coperta, che si legò sulle spalle. La mulattiera era brutta, piena di acqua e neve, una cosa mai vista. Era buio, ma avanti sempre. Il bersagliere Gagliardini, poverino, aveva tutti i piedi gelati e non poteva più camminare. Dante aiuta l’amico levandogli il treppiede e consegnandolo al bersagliere Martinelli. Siamo alle capanne dove c’erano le cucine, entriamo in una di quelle, ci mettiamo dove stavano i conducenti che andavano a prelevare i viveri per noi e lì c’era acceso un bel fuoco: ci siamo asciugati un po’ e intanto Dante si rosicchiava il formaggio, che gli andava in tanto sangue. La bella vigilia del Santo Natale veniva alla più bella! E bisogna partire: per fortuna abbiamo i muli per caricare le armi, carichiamo i muli e un bersagliere rimane dietro il mulo, per osservare che niente si smarrisca. Si parte, giù e giù, dentro le scarpe acqua e neve, i piedi tutti bagnati e bisogna camminare. Cosa vuoi fare! Arriviamo sulla strada di Kukes, tutto il battaglione è riunito appena sopra la strada, in un bosco di querce per non essere visti dagli apparecchi.

Viene dato l’ordine di mangiare la scatola di Chiarizia che prima della partenza ci avevano distribuito e, nel mangiare quella minestra, sembrava che la gola si gelasse, di tanto fredda che era: ma, in mancanza d’altro, era buona sebbene fredda. Lì ci siamo incontrati coi portaordini del battaglione, che con la loro buona volontà e il loro impegno avevano diviso la posta compagnia per compagnia, consegnandola ai rispettivi comandanti. Da quanto tempo non si aveva più posta! Era dal 10 novembre ed eravamo alla Vigilia di Natale, un mese e mezzo. Il tenente consegna il pacco di posta al sergente Fosini, vicecomandante di plotone, dicendogli di chiamare subito i capisquadra per la distribuzione, così prima di partire avrebbero potuto leggerla. C’è la distribuzione e ciascuno aveva il desiderio di avere più posta dell’altro. La prima lettera di Dante è quella dell’Albertina, la figlia del signor Bailo, dove Dante passò due anni da garzone con quella buona famiglia all’età di diciott’anni, la seconda e la terza sono della Gilda, la quarta è della sorella Rosa, la quinta dello zio Amedeo e via dicendo: un’altra della sorella Rosa, qualcuna dai parenti, come la zia Dima, lo zio Camillo, poi una ancora della sorella Luisa e infine due cartoline illustrate, una della Giuditta e l’altra di Rosetta… fine. Dante, tutto contento, apre e legge prima quelle della sorella e via di seguito, man mano venivano. Terminò tutta la posta, contento delle buone notizie ricevute da tutti. Per noi figuriamoci cosa ci poteva essere di più caro che la fine della guerra, ma per il momento si sapeva che entro la primavera non ci poteva essere la vittoria.

Il maggiore si fa sentire: «Coraggio ragazzi, prepararsi, ché si prosegue in fila indiana!» Uno per uno e sempre avanti. Sono le 12 e 30, neanche mezz’ora che si cammina e troviamo il generale nostro comandante superiore e così tutti a cantare “All’armi!”, la canzone dei bersaglieri.[8] Terminata la canzone, con poche parole ci fa coraggio con un “in bocca al lupo!” Bella questa! La maggior parte, poveri ragazzi, tutti con le scarpe rotte e a piedi per terra, la strada è brutta, piove, nevica e senza mantelline: c’era proprio da farsi coraggio. Pazienza, questa è toccata a noi e speriamo di cavarcela. Il generale aveva qualche pacco di sigarette e le offrì ai bersaglieri, distribuite mentre si camminava, non so più di preciso, ma toccarono otto o nove sigarette a testa. Dante le offriva a qualche compagno di squadra: non c’era proprio mezzo per abituarmi a fumare! Quasi tutti i fumatori subito a fare del fumo e molti desideravano di più una sigaretta che qualche cosa da mangiare, perché da parecchi giorni si trovavano senza. Col nostro comandante di compagnia in testa, capitano Sereno, si prosegue. Dove andiamo? A Kukes. Quanti chilometri ci sono? Mah! Si domandava alla truppa che si incontrava sulla strada e uno risponde dieci chilometri, l’altro dodici, l’altro undici: qua ne sanno tanto come noi! Sempre si cammina e si può immaginare una strada dell’Albania, col traffico che c’era, brutta, rotta, buche piene di acqua e di tanto in tanto qualche fosso d’acqua che attraversava la strada e che per forza bisognava passare. C’era il bersagliere Santagata, poverino, che era proprio scalzo, senza scarpe, addirittura in quei casi lo prendeva il capitano in groppa e lo portava di là dall’acqua: nella stagione in cui siamo si dovrebbe aver paura dover di mettere i piedi dentro nell’acqua, eppure, per la paura, dentro e avanti!

Cammina e cammina, si fa sera e sempre piove, maledetto perfino il tempo! «Che bella vigilia», pensava di tanto in tanto Dante, «ma sono ancora vivo, coraggio!» Sempre il pensiero alla sorella Rosa: chissà se avrà ricevuto la mia cartolina, almeno passerebbe un Natale un po’ tranquillo. Dopo tanto camminare arriviamo al desiderato Kukes. Siamo fermi, dopo nove ore di cammino: sono le nove, al buio e con la pioggia che viene giù a gran forza, aspettavamo gli ufficiali, che si erano allontanati per trovare il posto per ricoverarci. Dopo un quarto d’ora si ritorna indietro e ci siamo ricoverati nei capannoni dei lavoratori stradali. Dante cerca tutti i compagni della squadra per mettere tutto il materiale vicino e poi la miglior cosa è cambiarci le calze: poveri piedi, lo desideravo più che mangiare! La fame fa parlare: tutti si domandava agli operai se avessero del pane: così, una pagnotta uno, mezza l’altro, ci siamo sfamati alla bell’e meglio. Poi ci buttiamo giù per terra, con gli occhi che dal sonno non stanno aperti e con tutti i panni bagnati come se fossimo caduti in una fossa. La notte passò.

Il 25 dicembre, il bel Santo Natale, pioggia e neve vengono giù alla più bella. La maggior parte dei bersaglieri sono in giro di qua e di là a cercare da mangiare e tanti sono con le scarpe tutte rotte, senza gavetta e gavettino. Lì trovarono un po’ di tutto, che venne distribuito ai più bisognosi; poi distribuirono le sigarette, un trentacinque “Tre Stelle” per uno. Nella fretta di distribuirle il tenente si sbagliò a fare il conto e Dante, distribuendo le sigarette ai compagni, era rimasto senza. Il caporal maggiore Ansaldi è presente e vede tutto, Dante gli dice: «Non importa, tanto non fumo!» «Cosa c’entra se non fumi, se ne ritirano due o tre per uno e anche tu devi avere le sigarette.» Lo dice al tenente, così Dante ha anche lui la sua parte di sigarette e ne regala un pacchetto all’amico che si preoccupò del fatto. Finalmente arrivò anche qualche cosa da mangiare: scatole di minestra, scatolette, pane, aranci, cioccolati, marmellata; la pancia l’avevamo riempita. L’amico, che sempre girava, mi arriva lì con una gavetta di pastasciutta e una borraccia di vino. Mi fa: «Toh! Mangia e bevi, che io vado a cercare ancora!» Ringrazio l’amico e poi giù tutta la gavetta di pasta e due bei flûte di vino: ora posso dire che ho riconosciuto la festa di Natale!

Dante pensava di spedire qualche cartolina, ma non c’era mezzo. Pazienza, speriamo almeno che la sorella abbia ricevuto la cartolina del 18 e poi ci penseremo. «Ragazzi, fatevi coraggio, preparatevi tutta la vostra roba, ché a mezzogiorno si parte!» Dove andiamo, non si sa: qua andiamo bene e ormai la vita è così! A mezzogiorno si parte, il maggiore in testa e avanti. Un bersagliere, detto “signorina”, il Ferrarisi, si dimentica la cassetta delle munizioni nei capannoni, così il tenente gli dà il reffile[9] e lo manda a prendere la cassetta. Avanti, cammina e cammina, sono le cinque e arriviamo a Perrenjes, un piccolo paesetto con diversi capannoni, ma erano tutti pieni di cavalli e per noi non c’era posto, così ogni comandante di compagnia deve cercarsi il modo di ritirare i suoi bersaglieri. Troviamo una casa, stiamo tutti appiccicati, ma dall’acqua eravamo riparati. Il tenente, una testa matta, non è ancora mezz’ora che siamo lì, entra e dà l’allarme per prepararsi e andare via. Quanti accidenti al povero tenente! Ma subito un contrordine: tenersi pronti, ma non si parte. Alla bell’e meglio ci siamo coricati, già sapevamo che al mattino presto c’era da partire e così fu.

Il 26 dicembre, tutti adunati vicino ai capannoni, squadra per squadra, ci danno il caffè e poi ci incamminiamo sullo stradone che passava da Lin, Pogradec, Corizza eccetera. Dopo aver fatto tre o quattro chilometri, proprio sotto la salita, incontriamo il tenente colonnello, che ci ferma e ci fa tornare indietro nei capannoni. Così ci siamo messi assieme ai cavalli, ci hanno lasciati sul freddo cemento e per tutta la notte ci siamo lamentati. Il 27 dicembre mattino ci danno il tonno, la Chiarizia e il cioccolato e per la fretta si fece un po’ di confusione. Dante distribuisce le scatole di tonno, un tanto alla prima, un tanto alla seconda e il resto alla terza squadra; il caporal maggiore Saglietti, fa cadere una scatola che si perde e Ansaldi, rimasto senza, è andato a reclamare che il tonno lui non l’aveva preso. Questa è bella! Si prendono a parole con il Saglietti, che il tonno non ce l’ha più, perché era già nel tascapane di Dante e quindi basta! L’Ansaldi va dal tenente a reclamare, ma non c’è verso: ormai era studiata così e il tonno è sparito![10]  La distribuzione del cioccolato invece andò bene.

Adunata: ognuno si prende la sua roba e per fortuna abbiamo il camion del XXIX battaglione che passa da Lin e ci porta le armi. Carichiamo le armi, Dante legava il porta-mantellina vicino all’arma per essere più leggero nel fare la marcia, si parte e avanti. Il maggiore si mette in coda per poter prendere a calci in culo i bersaglieri che rimanevano indietro e qualcuno li trattò in quel modo, sebbene, poveri ragazzi, non fosse colpa loro, perché non riuscivano a camminare dal male che avevano. Anche qua, cammina e cammina, sono le quattro, siamo a Lin e, angolo per angolo, squadra per squadra, ci assegnano il posto: «In qualche modo cercate di ripararvi». A Dante viene assegnato il posto in un bell’angolo, riparato dal vento. Con volontà subito furono tirati quattro teli, sembrava una casetta. Il Randazzo, conducente del mulo, va in cerca per trovare qualche cosa per la bestia e mi arriva con una balla di paglia. Subito dentro nella tenda fu sciolta, trovandoci un bel letto soffice, ma non ci hanno ancora detto di andare a prendere le armi e Dante è senza coperta. Non ho ancora detto questo che viene un bersagliere e mi dice di andare a prendere le armi, là, al tal posto. Va bene! Dante prende due bersaglieri e va a prendere le armi, l’interesse mio era per il porta-mantellina, guarda nel mucchio di armi e treppiedi e subito colpisce la vista la sua arma con il suo porta-mantellina attaccato. Prendiamo tutto quanto è nostro e via. Dante si fa il suo bel lettino e poi pensa di mettere qualche cosa nella pancia, ma non sapeva ancora che poco lontano c’era una cucina dell’artiglieria. Infatti, il bersagliere Barbero, che sempre girava, mi vede mangiare la minestra fredda e mi fa: «Ma lì c’è la cucina e mangi la minestra fredda?» Dante ringrazia l’amico, prende la gavetta e mette la minestra dentro; poi va, si presenta dai cucinieri e chiede se per favore gli lasciavano riscaldare la minestra. Tutti quanti: «Sì! Sì!» «Grazie!» e mette su la gavetta sul fuoco. Dante trova un’altra scatola di minestra, la va a prendere e dentro nella gavetta, che era piena e bella calda. Dante si metteva a mangiare e quella minestra andava in tanto sangue. «Ora sono proprio pieno», diceva Dante agli amici che lì stavano a scaldarsi. Dante offriva qualche sigaretta al capo cuciniere e si richiudeva nella tenda a riposare: ormai era notte. Dante si sveglia che è già giorno: che dormiata![11]. Ma si sente un forte vento e non c’è nessuna voglia viene di uscire dalla tenda: lì si stava bei caldi e intanto non si sapeva niente.

Tutto ad un tratto sentiamo il tenente che mi arriva lì e grida come un pazzo: «Siete ancora qua?» e mi dà di tutti i titoli. Dante gli risponde che, se avesse saputo qualche cosa, avrebbe fatto il suo dovere e lui mi dice «Ma Ansaldi non ti ha avvisato?» e io: «No!». Allora si calmò e mi disse di preparare tutto, ché c’era il posto dove andare accantonati e aggiunse: «Va bene, quando passo io con le altre squadre, seguitemi!» «Comandate, signor tenente!». In pochi minuti Dante aveva tutto pronto e poi tutti in cucina a scaldarci. Il cuciniere mi dava una gavetta di caffè per ogni bersagliere di tutta la squadra; il caffè era molto carico di cognac e Dante fece il colmo alla gavetta con una pagnotta del giorno prima, che ancora si teneva nel tascapane: così mi sono fatto una panciata da matti. Poi il cognac si fece sentire e, mentre tutti avevano freddo, Dante invece aveva caldo. Passa il tenente, lo seguiamo e andiamo in una casetta, che non era larga neanche come la nostra tenda che avevamo alla terza squadra, ma ci deve stare tutto il plotone e così, stretti stretti, ognuno si prese il suo posto. Passò il giorno 28 dicembre, siamo al 29 dicembre mattino, un freddo da cani. Viene il tenente a raccomandarci di pulirci, lavarci, spidocchiarci, farci la barba, pulire le armi e compagnia bella. L’idea di Dante era di fare quello che il tenente aveva detto, ma gli mancavano le forze e aveva sempre poca voglia: come si poteva avere della volontà col freddo che faceva e tutta la notte dentro e fuori, su e giù per quella scala per correre al gabinetto? Dante si interessava che l’arma fosse stata pulita e nient’altro; non c’era verso di avere un po’ più di volontà. Tutti avevano la barba lunga, ma solo Dante aveva due macchinette da barba e, in qualche modo, una lametta uno, una lametta l’altro, tutti gli amici si sbarbarono e qui venne la sera del 30 dicembre.

La buona intenzione di Dante viene la mattina del 31 dicembre, l’ultimo giorno dell’anno: vado al bagno a lavarmi, l’acqua è gelata, ma in qualche modo mi sono lavato, il giorno che mi ero lavato l’ultima volta non me lo ricordavo più. Rientro nella casetta, mi scaldo un po’ le mani che erano gelate e poi mi metto un po’ di buona volontà e mi taglio la barba, che ormai sembravo Gesù Cristo in croce: era dal giorno 15 novembre che non me la facevo più. Sono riuscito a tagliarmi la barba, ho ancora i baffi, sono i più buoni, mi salta in mente di non tagliarli e così mi lascio i baffi: la faccia del mio povero papà buonanima! Già Dante sembrava si sentisse meglio e si metteva scrivere qualche cartolina in franchigia alle sorelle e a tutti quelli che Dante sapeva che lo ricordavano. Dante scriveva sei cartoline che nella mattina avevano distribuito: una alla sorella Rosa, poi a Luisa, Albertina, Gilda, zio Amedeo e Concetta, la vicina di casa, dicendo che la salute era ottima e che così speravo di loro tutti.  

Note

[1] 208° reggimento fanteria. – Faceva parte della 48ª divisione di fanteria “Taro”. Il 1º dicembre venne aggregato alla 53ª divisione fanteria “Arezzo” a Pogradec, per poi rientrare nella divisione di appartenenza l’11 dicembre.

[2] Carga. – Termine dialettale lombardo, ad indicare un carico portato a spalla. Dal tardo latino “carricare”, derivato di “carro”: mettere sopra un carro o addosso a una persona, ad un animale un peso da trasportare. La sparizione della vocale atona e la lenizione (settentrionale) da c a g sono simili a quanto avviene nello spagnolo “cargar” – “cargo” e in altre forme italiane o dialettali (laco in lago, -mica in -minga). La “a” finale atona nel dialetto di Dante è pronunciata “ä”.

[3] – Chi fa la guardia… – Nel caso eventuale… – Attenzione alle piante – Tre frasi, curiosamente vicine, che, pur costruite correttamente e composte da parole perfettamente leggibili, ma, in quanto di tono gergale un po’ criptico, possono indurre un’interpretazione un po’ incerta, anche se risulta chiaro il riferimento a situazioni di pericolo incombente.

[4] – Sei o sette capanne da albanesi. – Nonostante le condizioni in cui si trovano e la necessità estrema di un rifugio, non entrano in quelle povere e disprezzate abitazioni. Nonostante il connotato positivo del fatto, ciò può sembrare eccessivo e fuori luogo: si ripete un po’ la situazione davanti alla pasticceria di Corizza.

[5] Giargianesi. – I termini dispregiativi, compresi quelli etnici, si tramandano da secoli in tutte lingue del mondo per riferirsi agli abitanti di questa o quella località, paese o nazione. In questo caso, la parola, riferita ad una fantomatica popolazione, è usata per segnare un certo disprezzo, fatto in realtà di paura e anche di contestuale complesso d’inferiorità, verso l’altro, il diverso, lo straniero… il nemico. La ricerca sull’etimologia del termine ha rivelato (anche solo in rete) una montagna di informazioni e l’uso che ancora oggi si fa del termine, per quanto in parte modificato.

Da notare che gli albanesi sono apostrofati allo stesso modo, anche in memoriali di noti scrittori, come fa Mario Rigoni Stern in “Quota Albania”.

[6] – Guardava in bocca a noi tre. –  Il senso è chiaro per il “guardava in bocca”, ma il “rimase con la vista” è come dire “si vedeva già a…”?

[7] Chiarizia – La Chiarizia è un minestrone in scatola che prende il nome dal suo inventore, il colonnello Ettore Chiarizia, che la brevettò nel 1929 insieme ad altri prodotti alimentari scatolati per le truppe, come la carne in scatola e la minestra di pasta e lenticchie. Tali prodotti costituirono un notevole miglioramento verso la soluzione dell’importante e delicato problema di vettovagliamento delle truppe al fronte, specialmente per il fatto che rendevano possibile la distribuzione di un rancio caldo e, come il papà dimostra, abbastanza gradito dalle truppe che si trovavano in situazioni particolarmente disagiate, dove non era possibile preparare e far giungere in buone condizioni il rancio caldo per i soldati al fronte.

[8] “All’armi!”, la canzone dei bersaglieri. – Una delle tante, nemmeno tra le più… gettonate. Notare che il papà registra l’incontro con il generale (Bonini, probabilmente) e la cantata alla Vigilia di Natale, mentre Pasquino, nel suo Diario, data l’evento al 23 dicembre e cita un’altra canzone: “Il reggimento di papà”: due eventi simili, ma distinti?

[9] Reffile. – Il termine è scritto così, non ci sono dubbi: al massimo potrebbe mancare un accento finale per poterla interpretare come una italianizzazione di un dialettale refilé o simile. Quanto al significato, parrebbe già a prima vista voler esprimere quello di “girata, ramanzina, lavata di testa, aspro rimprovero, sgridata severa” e chi ne ha più ne metta, mentre in quanto all’origine e all’etimologia il discorso non è altrettanto lineare. Una veloce ricerca ha portato a tre diverse soluzioni possibili e compatibili con il contesto interpretativo in cui il termine è utilizzato:

– Al termine di “rifilata”, il Sabatini Coletti concede il significato di una cosa detta a qualcuno tutta d’un fiato (di filato) e ciò potrebbe essere appropriato, ma la desinenza avvicina il termine piuttosto a un francesismo del tipo di “défilé”, parata.

– Ci può forse venire in aiuto (e a parziale conferma della soluzione precedente) il dizionario milanese di Cletto Arrighi, ove al verbo “refilà” viene associato, tra gli altri significati simili a quelli dell’italiano “rifilare”, anche quello di “snocciolare” rapidamente.

– Sempre su questo dizionario troviamo anche il termine “Refilé”, con l’accento finale, che rimanda, attraverso l’interposta definizione esemplificativa di “mastegada”, al significato di “masticatura”, intesa come trattamento correttivo di una certa violenza dato a qualcuno (El g’ha daa òna mastegada).

Nessuna delle tre soluzioni è pienamente soddisfacente: forse l’ultima, per la vicinanza dei due termini e dei due dialetti, è quella vorrei scegliere, anche se, alla fine, tutte e tre hanno qualcosa da poter rivendicare. 

[10] Dante distribuisce le scatole di tonno… e il tonno è sparito! – Il periodo in corsivo è stato trascritto allontanandoci leggermente dall’originale, per la difficoltà di rendere in modo organico e con un senso sintattico compiuto le frasi in esso contenute, che appaiono slegate le une a dalle altre collegate. La trascrizione è quindi una interpretazione ricavata del testo originale atta a indovinarne un significato compiuto ed il maggior numero possibile di termini autentici.

[11] Dormiata. – Sta per “dormita”, parziale italianizzazione del termine dialettale “durmiadä”.

RIFERIMENTI

I greci
E puntualmente, nella prima giornata serena e senza pioggia, la tempesta si scatena. I greci, fino a quel momento sfuggenti, si fanno sotto. E picchiano duro. Il primo novembre, alle otto del mattino in Macedonia occidentale lancia i suoi contro il fianco sinistro italiano e una volta nella piana di Corizza, può portarsi alle spalle dello schieramento italiano avanzato in Epiro. Le tre divisioni italiane nella zona di Corizza, la Parma, la Venezia e la Piemonte sbandano e si disperdono. I greci avanzano sui costoni martellando gli italiani con i mortai e lanciando i loro reggimenti di cavalleria. Da un lato gli italiani avanzano in Epiro, mentre dall’altro, i greci dilagano in Macedonia. La Julia, al centro dei due fronti che vanno in senso opposto, gira a vuoto, non regge più e alle sue spalle si infiltrano le forze nemiche. In qualche comando si parla di “Babilonia completa!” 

Che fare?
Siamo sull’orlo della disfatta, scontando ancora gli errori, se non la mancanza, di pianificazione, come avere i reparti di artiglieria inoperosi sulle montagne ad aspettare i cannoni, ancora nel porto di Durazzo. Intanto si reagisce: si interrompe la smobilitazione in atto in Italia e si dà priorità assoluta all’invio disordinato di uomini, armi, materiali, quadrupedi e automezzi, ancora senza quel piano fantasma e senza averne predisposto un altro d’urgenza.  Si mandano gli uomini ora qui e ora là, a tamponare falle e a puntellare cedimenti (vedi il 4° bersaglieri), facendo sì che, divisioni già frettolosamente ricostituite in patria e approdate in Albania senza armi pesanti e senza mezzi di trasporto, che sarebbero arrivati chissà quando, vengano smembrate e in gran parte mai più ricostruite organicamente, a danno delle filiere di comando e dello spirito di corpo.  Una guerra d’attacco, che doveva essere vinta operando con corpi d’armata e divisioni, diventa una disperata guerra di battaglioni e compagnie disperse drammaticamente là ove serve fermare o ritardare il nemico, che avanza dirompente con superiorità di uomini e di cannoni. Il racconto della guerra fatto da Dante, del resto, lo testimonia in maniera emblematica: per tutto il periodo di operazioni (novembre 1940 – aprile 1941) è tutto un disperdersi di battaglioni e compagnie, chi sul camion, chi in bicicletta, chi a piedi, chi a supporto di quello, chi di quell’altro, chi si immola per bloccare l’avanzata, chi si salva come può. Di manovre organiche divisionali o almeno di reggimento, poco o niente (almeno fino a marzo 1941).

I Greci insistono
Il 14 novembre, i greci attaccano di nuovo e affondano nel fulcro strategico di Erseke, dove il 1° reggimento bersaglieri funge da punto di giunzione fra le armate dei due settori. Ci sono malintesi nelle comunicazioni tra i comandi e si apre una voragine. Fa freddo, piove, poi nevica. Qui entra in gioco il 4° reggimento bersaglieri di Dante, per primo il più avanzato (perché trasportato coi camion, vi ricordate?) XXXI battaglione. I mortai martellano senza sosta le  nostre posizioni;  gli ospedali da campo mancano di tutto; l’aeroporto di Corizza è sotto tiro. Esposti  al fuoco nemico,  gli alpini scendono dagli Junker tedeschi:  molti di loro, lordi di sangue,  vengono subito reimbarcati sullo stesso aereo e rispediti indietro. Al fronte gli atti di eroismo sono molteplici e, almeno per quanto riguarda il reggimento di Dante, li conteremo alla fine, i soldati e  gli  ufficiali cercano di tenere duro, si contrattacca alla baionetta e con le bombe SRCM, muoiono anche ufficiali superiori. Resistere? Ritirarsi? Soddu lasciato solo o quasi, decide di ritirarsi.  I greci  si lanciano in avanti  e   affondano  nel vuoto. Davanti a loro,  in lunghe colonne,  gli italiani abbandonata Corizza (Dante tra gli ultimi) ripiegano relativamente in ordine   verso una linea più sicura , di cui uno dei bastioni principali, terminale est del fronte,  dovrebbe essere Pogradec, sulle rive del Lago d’Ocrida, che però è stata appena presa dai greci con una manovra tanto spregiudicata quanto coraggiosa dalle loro truppe scelte, ma soprattutto vincente dal punto di vista strategico. Si profila il disastro. Se passano di qui, i greci vanno direttamente a Tirana e ci buttano a mare.

Intanto, a Roma, ad Atene e nel mondo…
Il 18 novembre la guerra è in pieno svolgimento, le cose vanno male e Mussolini informa i suoi ospiti ad una riunione di partito:  “…Ora con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia. In due o dodici mesi poco importa. La guerra è appena cominciata. Noi abbiamo uomini e mezzi sufficienti per annientare la resistenza greca”.
Un discorso travolgente, una delle tante frasi ad effetto per la storia. Mentre tutti applaudono, mio padre, raggiunto il fronte in bicicletta, è sotto i colpi di mortaio, al freddo, affamato e vede morire i primi compagni. Eppure, come lui, migliaia di poveri soldati fanno il “loro dovere” e, mentre soffrono di tutto ciò, combattono oltre il limite, si difendono, contrattaccano, compiono azioni eroiche fino al sacrificio. Ma a Roma si apre la caccia ai colpevoli del disastro e, secondo Mussolini, non solo i generali, ma anche quei soldati sono delle “pappemolli”. Quei ragazzi stoici, coraggiosi, tenaci meriterebbero ben altro della considerazione vergognosa, sprezzante e razzista del duce (è uno di quei momenti in cui mi sovviene piazzale Loreto…) Meriterebbero invece, se non un encomio pubblico, forse per il contesto storico delle vicende e senza un’ampia disamina delle responsabilità italiane della guerra e delle sue conseguenze, almeno il riconoscimento delle  sofferenze e dei sacrifici che, in condizioni del tutto improvvisate, compiono quotidianamente per tenere in piedi la baracca. Metaxas, il primo ministro greco, proprio in quei giorni, invece, scrive sul suo diario: “Chissà  come  soffrono i miei soldati al fronte!”  Sono i giorni della presa di Corizza: è una cocente umiliazione per noi, un motivo di orgoglio per i greci, un motivo di scherno per i “sudditi” albanesi. La Grecia è imbandierata. Metaxas parla alla radio e ironizza sulla “assoluta certezza” di Mussolini. La notizia fa il giro del mondo e inglesi e americani ci ridicolizzano: “L’ultimo esercito del mondo ha sconfitto il penultimo esercito del mondo!” L’iniziativa, però, è ancora dei greci, che attaccano di nuovo, anche se i bollettini minimizzano. Mussolini se la prende con i suoi gerarchi e li spedisce al fronte a fare passerella e figuracce. (Leggasi a tale proposito, nel riquadro seguente, il brano “Gerarchi al fronte”).

Comandanti
Il generale Pricolo, mandato da Mussolini a informarsi, chiede a Visconti Prasca cosa ne sia della Julia. Risposta: la Julia? Non ho notizie, ma a quest’ora avrà senz’altro raggiunto il passo di Metzovo. Ma non è lui il comandante delle truppe italiane? Se, a cinque giorni dall’inizio dell’invasione,  non lo sa lui dove si trovi la Julia, chi altri deve saperlo? Ma c’è anche di più. Richiesto da Roma  di fare il punto della situazione, Visconti Prasca risponde: “ Situazione Epiro non inquietante”. Non inquietante? Arrivati a Corizza, sfiniti, con le barbe lunghe, le uniformi a brandelli, ma stringendo saldamente  il fucile, gli alpini della Julia, abbandonate le posizioni e ritiratisi dopo essersi aperto un varco fra le forze greche alle loro spalle, chiedono e supplicano, qualcosa da mangiare. Cadono le prime teste. Il 9 novembre, Visconti Prasca viene privato del comando. 


Il primo combattimento con i greci e il ripiegamento su Corizza.

La marcia del XXVI e del XIXX battaglione prosegue come già detto in bicicletta. Lasciata libera si raggiunge la piana di Perrenjes, ove i due battaglioni si separeranno, il XXVI prosegue fino a Pogradec sempre in bicicletta e poi in autocarro sino a Coriza. Successivamente, nuovamente in bicicletta si porterà prima verso Bilisti e poi verso Qafa el Quarrit, ove lascerà le biciclette per continuare a piedi verso la linea del fronte.

Il XXIX battaglione invece lascia subito le biciclette nei capannoni di Perrenjes, poiché i reparti vengono ora caricati anch’essi su autocarri, per raggiungere pure loro più rapidamente la linea di combattimento. Sono gli stessi autocarri che hanno trasportato due giorni prima il XXXI battaglione e che ora continuano a fare la spola tra il fronte e i reparti in marcia per portare in linea più uomini possibile.

i greci intanto esercitano la loro pressione su tutto il nostro settore di fronte, ma le nostre truppe riescono per ora ad arginare l’offensiva, in attesa di ulteriori rinforzi.

Da informazioni ricevute si apprende che il nemico continua a far affluire truppe verso il proprio confine. I greci possono effettuare questi movimenti molto agevolmente, operandoin territorio nazionale, con strade migliori e con l’aiuto e la collaborazione della popolazione della zona.

Dalla nostra parte le cose vanno molto diversamente. Date le condizioni delle strade i rinforzi arrivano molto lentamente. In più, sul nostro settore, la via di accesso alla piana di Erseke è una sola e quindi ogni nostro rifornimento deve transitare solo su di un’unica rotabile, con le difficoltà che si possono facilmente immaginare.

Qui sul fronte occorrono uomini e uomini e purtroppo questi devono arrivare dall’Italia, attraversando un tratto di mare, eccetera. Occorre più di tempo per tutto questo.

Se i greci eserciteranno la loro pressione in misura contenibile, con le attuali nostre forze possiamo attendere con una certa fiducia; in caso contrario, la faccenda diventa molto seria. Intanto gli automezzi del reggimento il giorno 15 novembre sono stati imbarcati a Bari e oggi, giunte a Durazzo, proseguiranno subito per cercare di raggiungere i reparti in linea.

Il 17 novembre i greci iniziano il loro attacco con ingenti forze e forte preparazione di artiglieria. Il tentativo di sfondamento su questo fianco sinistro dimostra chiaramente l’intenzione del nemico di tagliare la strada per il Lago d’Ocrida e aggirare alle spalle gran parte delle nostre truppe che operano in quel settore di fronte.

Bisogna resistere. I bersaglieri 4° non vengono meno alle loro tradizioni di ardimento,  di coraggio e di eroismo. Morti e feriti cominciano a lasciare il loro sangue in terra d’Albania, iniziando il lungo e glorioso elenco dei valorosi  che, a prezzo della loro vita, difendono e tengono alto il prestigio del soldato italiano. Non facciamo nomi perché presto purtroppo saranno tanti. Troppi, e non desideriamo dimenticare nessuno. Ma i bersaglieri del 4° sanno chi sono i loro compagni d’armi caduti, feriti e dispersi in Albania ed il loro ricordo sarà d’esempio e di incitamento per i giorni che verranno.

L’autodrappello, intanto, giunge nel tardo pomeriggio a Coriza. La cittadina è in fermento perché l’attacco dei greci non fa presagire nulla di buono.

Le artiglierie nemiche hanno già centrato la strada che porta verso il fronte. L’autodrappello attraversa così la piana a velocità sostenuta e con automezzi notevolmente distanziati l’uno dall’altro.

A sera il comando di reggimento era raggiunto, ma, effettuati i rifornimenti di munizioni, viene dato l’ordine per gli automezzi di portarsi subito indietro in posizione meno esposta, tanto più che ora essi sarebbero solo d’impaccio per qualsiasi movimento dei reparti.

Nei due giorni che seguono i greci attaccano senza soste con forti masse di uomini; la loro forza numerica è valutabile assai superiore alla nostra ed è continuamente alimentata da truppe fresche. Inoltre attaccano da posizioni più elevate, con efficace appoggio di artiglieria e di mortai, quei morti terribili mortai da 81 che saranno il nostro incubo in tutta questa guerra.

Bisogna tuttavia resistere il più possibile. I bersaglieri continuano a contrattaccare il nemico, mentre il numero dei morti e dei feriti aumenta. Particolarmente provato rimane il XXXI battaglione di cui diremo più avanti.

I greci insistono nel loro sforzo di sfondamento verso le montagne che circondano Coriza per il previsto aggiramento delle nostre posizioni. Ma la resistenza delle nostre truppe non può continuare senza l’arrivo di ulteriori rinforzi.

Le autombulanze non fanno altro da due giorni che portare verso le retrovie feriti e feriti punto i morti hanno sepoltura sul posto.

Intanto il comando d’armata a Coriza ha ritenuto opportuno predisporre un ripiegamento dei vari settori su posizioni meno esposte.

Il 20 novembre è una giornata delle più tragiche. La battaglia infuria da diversi giorni si inasprisce ancor di più, mentre quota 1914 e quota 1461 sono un inferno.

I bersaglieri contrattaccano con furore, ma la superiorità nemica è soverchiante.

I greci frattanto, intensificando ancor di più i loro attacchi, riescono, nonostante il valore delle nostre truppe, ad aprirsi lentamente un varco, sempre con l’obiettivo di raggiungere Coriza. L’ordine per i bersaglieri del 4° è quello di ripiegare e portarsi sulle alture di Drenova, davanti a Coriza, per concorrere a tamponare la falla e fermare il nemico. A sera i reparti, pur duramente provati con grandi vuoti nelle file causati dalle forti perdite subite, iniziano il movimento di ripiegamento.

La notte coprirà col suo velo questa manovra, che viene effettuata con ogni mezzo disponibile, pur di raggiungere più celermente l’obiettivo stabilito.


L’eroismo del trentunesimo battaglione nelle parole del colonnello Scognamiglio
 

Prima di continuare ad esposizione dei fatti bellici della terza decade del novembre 1940, culminati con lo sgombero di Corizza e con il definitivo sbarramento del fronte sulle alture di Pogradec, vediamo di seguire le vicende del XXXI battaglione dal momento in cui si staccò dal reggimento per raggiungere, autocarrato, più rapidamente la linea del fronte. Queste vicende furono riassunte personalmente dal colonnello Scognamiglio in una “Relazione sull’azione svolta dal XXXI battaglione nel periodo 12- 20 novembre e nella giornata del 21 novembre 1940”, relazione che egli dettò qualche giorno più tardi al sottotenente De Cecco, allora ufficiale di collegamento tra il comando di reggimento ed il XXXI battaglione, affinché fosse successivamente inoltrata ai comandi superiori. 

La realtà inenarrabile del fronte
Talvolta le testimonianze dei soldati sul fronte greco-albanese vanno oltre i diari di Dante, Scalone e Quaglino. Vanno oltre il narrabile. Ci danno un’idea di quanto al fronte si soffra moralmente, tra la paura della morte, la lontananza dagli affetti, l’abbrutimento del vivere quotidiano, e fisicamente, con il gelo, il freddo, la fame, l’immobilità dei giorni e delle notti passati nelle buche, sotto la neve e le cannonate.  Ma, se possibile, c’è anche di peggio. Se si pensa che montagne d’Albania nevica quasi ogni giorno, che il vento gelido getta in faccia ai nostri soldati ghiaccio e brina, che le gambe e i piedi diventano insensibili e gelano irreversibilmente. Negli ospedali si amputa e si producono migliaia di invalidi nello spirito e nel corpo.
Si legge sui libri e sui diari dei nostri soldati al fronte che ricorrono a ogni mezzo possibile per evitare le temuta e subdola “morte bianca”, quella provocata dal gelo, di come si avvolgano con pelli di ogni animale possibile, dei guanti di lanital che si inzuppano d’acqua, gelano e immobilizzino le mani fino al congelamento. Quegli uomini in grigioverde si scaldano il capo con le carni ancora calde dei muli morenti e poi se le mangiano, crude. Quel grigioverde che si irrigidisce (Dante, sulle Alpi, ricorda ad un certo punto che “sembravamo di lamiera”), non riparando dal freddo e non conservando il calore corporeo. Le barbe stanno incolte per mesi (ce ne parla anche qui Dante, che nella sua vita che ho visto si radeva puntualmente tutti i giorni, fino all’ossessione e fino all’ultimo giorno). Le armi si bloccano per il freddo. La neve copre valli e sentieri sconosciuti, rendendo difficile trovare sulle carte i luoghi assegnati: alcuni reparti si perdono e finiscono diritti in bocca al nemico.  
Le convinzioni cominciano a sgretolarsi. Si pensa sempre alla vittoria finale, come Dante, del resto, ma non si possono nascondere la confusione, l’approssimazione, l’incoscienza con cui è stata preparata e condotta l’invasione. Si parla di arrivare ad Atene in due settimane, ma il tempo passa, e le settimane diventano mesi.  Ci si comincia a chiedere il perché e il per chi. Intanto gli albanesi restano increduli di fronte a tanto disastro e cominciano a disprezzare quell’esercito che credevano di una grande potenza e che invece viene messo in fuga e quasi umiliato dai soldati di una piccola nazione, perdi più loro storica nemica. E ciò fa male al morale dei nostri soldati, che già devono sopportare il freddo, la fame, la sete, i mortai, i pidocchi e la sporcizia. Ma tengono duro. Altro che soldati italiani imbelli!
Fino a qui un disastro, da qui in avanti andrà meglio, già prima dell’aiuto della Germania che, comunque sarà facilitata nell’affrontare un nemico fiaccato da cinque mesi di guerra e posizionato da tutt’altra parte, sul fronte albanese, per fronteggiare gli italiani.


Riassunto cronologico degli eventi dal 21 /11/1940  al 27/12/1940
(dal libro di Quaglino)

 21 novembre  

  • Ultimato il ripiegamento, il XXXI battaglione si ricongiunge quindi al resto del reggimento ed insieme fronteggiano il nemico incalzante forte pressione del nemico, che vuole raggiungere Corizza e proseguire verso Elbasan.
  • Il XXIX battaglione (maggiore De Martino) contiene validamente, a cavallo della rotabile per Qafa Quarrit, un tentativo di infiltrazione nemica e raccoglie anche i resti di un reparto di alpini, guidati da un ufficiale, e lo rifornisce di viveri e munizioni. Gli alpini, isolati a causa dell’infiltrazione di un forte reparto greco, collaborano con i bersaglieri e poi cercheranno di a rientrare nel loro reparto “per provare a fare qualcosa”.
  • Nuovo ripiegamento del XXXI battaglione.
  • Al XXIX vengono portate, di notte, le biciclette. Quindi, a scaglioni di plotone e nel massimo silenzio, si sgancia, raggiunge Corizza, dove trova un camion carico di pane dopo due giorni di penuria alimentare, e procede verso il Lago d’Ocrida. Il XXIX battaglione si attesta sulle alture di Veliterni, con due plotoni lasciati come punto di retroguardia a cavallo di due piccole rotabili.
  • Nell’abitato di Corizza è tutto in movimento, in quanto lo spostamento del fronte che si è avvicinato ha determinato un orgasmo ed un fermento non controllabili.
  • Da Corizza a Pogradec, a Lin, a Qafa Tane ed oltre, una colonna continua di militari, di civili, di autocarri, di autombulanze che si spostano verso le retrovie, sgomberando materiali, munizioni, servizi e rifornimenti. La strada è unica e quindi continuamente si creano ingorghi con intralcio nei movimenti.
  • Gli ospedali da campo, che erano stati costituiti lungo la rotabile, vengono smontati frettolosamente.
  • Molti feriti in barella e non gravi non gravi giacciono sull’erba sul ciglio della strada, attendendo di essere smistati in ospedali più arretrati, utilizzando qualsiasi mezzo di trasporto che transiti. Sono molti i feriti di questi ultimi giorni, le autoambulanze sono cariche, occorre stringere i denti dal dolore e adattarsi a salire su qualsiasi mezzo in transito.
  • Mentre questa massa di uomini si sposta verso l’immediato retro del fronte, in senso contrario salgono verso Corizza altri soldati: sono truppe fresche che vengono a rinforzare la linea per tentare di colmare, sia pur parzialmente, i vuoti che nelle file dei reparti a contatto col nemico (probabilmente reparti della divisione Arezzo).

 22-24 novembre 

  • Sono i giorni dello sganciamento dal nemico.
  • Ancora durissima lotta con perdite di sensibili nei ranghi dei nostri reparti, sono giorni giorni d’inferno e di orrore. La morte ha falciato a piene mani nella massa dei combattenti sia italiani che greci. Numerosissimi feriti e i dispersi.
  • Nonostante l’eroismo di questi ultimi dieci giorni e le pagine di gloria scritte, ogni ulteriore tentativo di resistenza si infrange di fronte alla superiorità di uomini e di mezzi del nemico.
  • Tutto l’arco del fronte ha resistito il più possibile, ma troppe falde sono state aperte, troppe infiltrazioni nemiche sono state effettuate e non vi è possibilità di tamponarle senza sguarnire altri centri di centri vitali dello schieramento. Occorre evitare ancora una volta di essere aggirati alle spalle lungo il fronte sinistro, occorre ripiegare ancora.
  • I reparti, per quanto sfiniti dai combattimenti di questi giorni, iniziano così una seconda manovra di ripiegamento per dare modo di costruire una linea di resistenza più efficace. E alla fine Corizza viene abbandonata. Incendi divampano qua e là, mentre i greci saccheggiano i depositi e proseguono la loro avanzata. I bersaglieri, pur ripiegando, cercano di contrastare la marcia del nemico. Ed è ora al XXIX battaglione che viene affidata la copertura di tutto il settore. Gli ultimi reparti di questo battaglione, con in coda il tenente medico Pietra, che accompagna tredici motocarrelli carichi di morti e di feriti e il plotone del tenente Conti come estrema retroguardia, lasciano Corizza, mentre le prime pattuglie greche sono già entrate in città.
  • Il XXXI battaglione, già decimato, subisce un durissimo colpo dell’aviazione greca mentre sosta per consumare il rancio
  • La stessa cosa succede al XIX battaglione che, attestatosi al diciassettesimo chilometro sulla strada di Corizza viene attaccato da un aereo greco, il maggiore De Martino si sottrae miracolosamente agli effetti del bombardamento.
  • Il XXVI battaglione riceve intanto l’ordine di sospendere il ripiegamento lungo la strada di Pogradec e di spostarsi subito alla sua sinistra, per costituire una linea di resistenza della zona di Bregu i Breshave, ove la presenza di altri reparti di fanteria non è ritenuta sufficiente per fermare l’avanzata del nemico.
  • Nelle retrovie a Perrenjes due aerei greci scendono a bassa quota mitragliare uomini e quadrupedi e anche l’autodrappello viene colpito.

     

27 novembre

  • Il ripiegamento ha termine a Pogradec
  • Il reggimento si appresta si appresta a resistere sul Kalase, mentre i greci che hanno rallentato l’avanzata si sono attestate sulle alture sulle alture prima di Pogradec e da lì possono dominare le nostre posizioni ma finalmente siamo faccia a faccia e non stiamo retrocedendo.
  • Si scavano buche perché gli alberi sono pochi
  • Sul Kalase i combattimenti sono diminuiti e si fanno i conti dei morti e dei feriti che sono parecchie centinaia Il XXIX battaglione si attesta all’estrema sinistra di quel settore con a fianco il XXXI battaglione.
  • Il comando di reggimento con la compagnia motociclisti si sistema a Lin sulla sponda del lago.
  • Il XXVI battaglione si sistema a Bregu i Breshave, raggiunta dopo una marcia infinita in montagna.
  • La zona brulla non presenta alcun riparo, occorre scavare buche e trincee in mezzo alla neve e al fango.
  • Inizia periodo di isolamento: la mulattiera è quasi irraggiungibile per fango e neve e non ci sono contatti con retrovie; si è oltre 1000 metri di altitudine, su un costone della catena del Guri i Topit, che troneggia alla nostra sinistra e che è occupato dai greci.

     

1 – 8 dicembre

  • I greci riprendono l’offensiva con continui attacchi alle nostre posizioni sul Monte Kalase: qui inizia l’epopea del reggimento, con la resistenza tenace e serrata contro un nemico che vorrebbe addirittura marciare su Tirana ma che non riuscirà a sfondare.
  • Tutti i giorni sono attacchi sotto attacchi sempre appoggiati da una grandine di colpi di mortai e di granate cominciano i morti e feriti.

     

9 dicembre

  • I greci dopo per forte preparazione di artiglieria sferrano un attacco massiccio contro l’arco di fronte in cui si trovano i bersaglieri del 4°
  • I greci non riescono a passare e andare verso la strada di Lin.
  • Durante l’attacco del 9 dicembre il XXIX battaglione ha perso circa la metà dei propri effettivi
  • I bersaglieri sopravvivono nelle proprie buche scavate nel fango e nella neve
  • Il XXVI battaglione, sul Bregu i Breshave, deve fronteggiare le azioni di pattuglie e disturbo dei greci contro il fronte di questo settore.
  • Il vero problema è il rifornimento di viveri e munizioni, poiché non ci sono mezzi di trasporto adatti; si procede a requisire asinelli albanesi e andare a prelevare i viveri sino a Kukes, al comando di corpo d’armata, ma sono cinque ore di marcia, nella neve e nella fanghiglia, che ogni giorno bisogna percorrere per assicurare al battaglione una scarsa provvista di gallette e scatolette e per tutto il periodo di permanenza breve e bresaole sarà così tutti i giorni senza alcuna variante.

 
23 dicembre

  • Giunge al XXVI battaglione l’ordine di lasciare Bregu i Breshave e, passando alle spalle dello schieramento del fronte, di raggiungere gli altri reparti del reggimento.
  • I bersaglieri del XXVI, con le barbe lunghe e le scarpe a prezzi, scendono in basso e dopo parecchie ore raggiungono Kukes
  • È la Vigilia di Natale e nei cuori di ognuno c’è grande nostalgia, ma il morale è alto.
  • Il maggiore Mennuni presenta il battaglione al generale comandante della divisione: l’aspetto fisico dei bersaglieri non è confortante, ma lo sguardo è sempre quello di un bersagliere e allora ci si dimentica dalle delle fatiche e dei disagi e si canta il “Reggimento di papà”.

 

25 dicembre

  • Primo Natale di guerra: arriva qualcosa di meglio che le solite gallette ed è una festa

 

26 dicembre

  •  Il XXVI battaglione lascia Kukes e, risalendo per la strada che passa per Qafa Tane, raggiunge Lin, dove i bersaglieri hanno la possibilità di ripulirsi e sbarbarsi (è dal 10 novembre che non si cambiano indumenti).

 

27 dicembre

  • Nella notte da Lin si trasferisce a Memlishta, un villaggio alle spalle del Kalase, in posizione di rincalzo rispetto alle linee tenute dal XXIX e dal XXXI: il 4° bersaglieri è nuovamente tutto riunito o perlomeno coi reparti ravvicinati.
  • Si conclude così questo primo anno di guerra hanno glorioso per il quarto bersaglieri che in tutte le operazioni belliche in cui è intervenuto coi suoi magnifici battaglioni ha sempre dimostrato ad altissimo spirito combattivo il valore l’eroismo di tutti i bersaglieri la capacità ed esemplare comportamento dei suoi comandanti.

     

Ancora un errore?

Con l’avvento al comando di Cavallero, si mette ordine nel  flusso dei rinforzi in Albania, cercando  di mantenere integre le divisioni,  si cerca di acquisire la superiorità numerica e di erigere un muro  difensivo su linee adatte alla difesa. Ma il tempo è poco: Berlino sbuffa, critica e insiste per dare una mano, Roma spinge a sbrigarsi, per poter riportare qualche successo e risollevare il prestigio perduto, al limite, per alcuni aspetti, del ridicolo.
Si valutano due ipotesi per una nuova offensiva: nella zona di Corizza, a nord, oppure a sud in direzione del nodo di Klisura. Il primo caso parrebbe il più logico, sia in quanto in quella zona i greci sono alla fine del loro slancio offensivo, fiaccati dalla resistenza italiana (4° reggimento e Dante compresi) e non ancora pronti a volgersi in atteggiamento difensivo, sia perché avrebbe consentito un congiungimento offensivo con i tedeschi in occasione del loro imminente intervento (come poi avverrà, a seguito dei fatti di Jugoslavia, con il 4° reggimento che li incontra sul Lago d’Ocrida). Invece si sceglie il secondo, ridimensionando l’offensiva a sterile azione locale, fine a sé stessa, senza valenza strategica e andando a sbattere proprio là dove i greci sono più forti e sistemati anche a difesa.
In quell’offensiva di primavera, lasciamo sul campo migliaia di  uomini. Per niente. Mussolini, che era andato lì per assistere al trionfo,  se ne torna a Roma con le pive nel sacco. Alla fine, quei  diecimila e più morti gli consentiranno di celebrare quell’inutile battaglia come una vittoria e  come l’avverarsi della famosa profezia sui reni ellenici.
Hitler non vuole umiliare il Mussolini. Gli scrive: stiamo per intervenire e possiamo vincere, ma a una condizione: che le truppe italiane tengano duro in Albania.  Il duce garantisce. E non si accorge o finge di  non accorgersi  che il suo alleato lo sta prendendo in giro. Il 6 aprile  le divisioni corazzate del feldmaresciallo Wilhelm List attraversano la frontiera bulgara e  entrano in Grecia.
Da questo punto  gli eventi riprendono con l’inizio del terzo quaderno dei Diari di Dante.  

I luoghi delle operazioni del 4° bersaglieri nell'autunno - inverno 40-41
Ingrandimento dell'immagine precedente: sono indicati i monti Furka e Lofka, luoghi di combattimentoove ove sono stati decorati, rsipettivamente Dante e ilmaggiore Mennuni, suo comandante di battaglione.
Da questa prosepettiva si può anche provare a disegnare il percorso fatto da Dante da Guri i Bresavet a Kukes e Lin di fine dicembre


L’inverno sul Kalase nel racconto di Scalone

Il giorno 2 dicembre 1940 i greci fecero la prima apparizione, prendendo le misure alle nostre postazioni. Ci fu una lunga sparatoria da ambo le parti, poi, senza insistere ulteriormente, si ritirarono e si appostarono anche loro in una collina di fronte a noi.

[…]

L’indomani mattina giorno 3 dicembre cannoni e mortai greci presero di mira le nostre posizioni, un fuoco di sbarramento che lasciava presagire un attacco imminente. Il 4 dicembre, verso le 10, la fanteria greca venne all’assalto, ma toccarono duro, le beccarono maledettamente e non ci provarono più. Anche nelle nostre file ci furono morti e feriti.

[…]

I mesi di dicembre e gennaio furono terribili, la neve venne abbondante, fino a superare il metro. Si montava di guardia 8 ore consecutive, che sembravano non passare mai. Nei camminamenti facevamo lunghe corse per tenere il sangue in circolazione, specialmente ai piedi, che rischiavano il congelamento.

[…]

Le condizioni erano davvero pessime: il ghiaccio si formava sul telo della tenda e sugli scarponi; l’acqua scorreva sotto il giaciglio e, quando la notte nevicava e ricopriva interamente la tenda, la mattina si faceva fatica a uscire fuori. Un complesso di cose che fecero di noi delle figure inutili: si mangiava male, si dormiva malissimo, sporchi, spesso infestati dai pidocchi. In quelle condizioni, campare o morire, per noi, non aveva più alcuna importanza. La nostra squadra era composta da 12 elementi, ma ora, nei primi giorni di gennaio, eravamo rimasti solo in 5, piuttosto malandati. La stessa cosa accadeva dappertutto nel nostro battaglione.

Il 15 gennaio 1941 arrivarono circa 400 bersaglieri, che, sufficienti solo a rimpiazzare le perdite subite tra dicembre e le prime due settimane del mese di gennaio, furono distribuiti in tutti i reparti del battaglione, virgola in rapporto all’ammanco di uomini nelle varie compagnie. I nuovi arrivati, vedendoci in quelle condizioni, ci guardavano a bocca aperta. Erano quasi tutti piemontesi, tutta gente che a casa aveva lasciato moglie e figli e che, vedendo noi in quelle condizioni e pensando che in poco tempo anche loro si sarebbero ridotti allo stesso modo, provavano un forte scoramento. Tre nuovi arrivati in forza alla nostra compagnia morirono lo stesso giorno, dentro una tenda colpita da una granata di mortaio. Noi, di fronte a loro, sembravamo appartenere ad un’altra razza: ormai non notavamo più le pallottole che fischiavano e le bombe che scoppiavano non ci facevano né caldo né freddo. Loro invece, alla prima esperienza di guerra, ad ogni piccolo pericolo erano sopraffatti dal terrore.

[…]

Il 28 gennaio la nostra compagnia, la settima, fu tolta dalla prima linea per passare di rincalzo.

[…]

Nelle giornate soleggiate del mese di marzo avevamo la possibilità di toglierci di dosso i panni per raschiare con la lama del coltello il sudiciume di pidocchi, ma di lavarli o di lavarci noi stessi non c’era alcuna possibilità. Era l’emblema della vergogna dello stato fascista, che si proponeva di vincere la guerra con un esercito ridotto a una massa di straccioni, dalla testa ai piedi. Io mi adattavo a rattoppare con ago e filo, chi non ne era capace rimaneva con la divisa a penzoloni.

[…]

In questo periodo tutte le mattine allo spuntare del sole veniva a farci visita a un aereo nemico, spuntava da dietro il monte e si lanciava sella nostra linea a mitragliare e bombardare. Era impossibile colpirlo con i fucili o con le mitragliatrici. Una mattina, era il 3 marzo, arrivò come sempre a bassa quota e mitragliò le nostre postazioni, poi virò per continuare a mitragliare ancora, ma questa volta, da sopra un ponticello, una mitraglia antiaerea che era stata fatta arrivare apposta, poté sparargli. Sparò solo tre colpi, al terzo tiro lo centrò in pieno e l’aereo andò subito in fiamme.

[…]

Negli ultimi giorni del mese di febbraio mi ero ammalato e per 5 giorni consecutivi mi recai dal medico di campo con la febbre a 38. Alla fine firmò il foglio di ricovero per l’ospedale di Elbasan.

[…]

Dopo 8 giorni fui dimesso con una licenza di 5 giorni che passai al secondo reggimento di Marcia sempre a Elbasan.

[…]

Il giorno 19 di marzo rientrai un’altra volta al fronte sul Monte Kalase, dove trovai i miei compagni là dove li avevo lasciati.  


Pianificazione romana e logistica di guerra

Mentre i nostri ragazzi sono mandati a morire, a Roma i decisori di guerra si sacannano nel rimplallo di responsabilità per il disastro che si profila. Quaglino accenna al problema con fatalismo, ma Mario Cervi descrive per intero la situazione nel suo libro, del quale sono riprodotti qui sotto ampi stralci delle pagine da 190 a 210, che servono anche ad inquadrare compiutamente gli eventi narrati nei memoriali che stiamo trascrivendo.


Dalle prefazioni delle edizioni 1986 e 2001 del libro “STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA” di Mario Cervi.

Mi ero inserito da accusatore nel racconto perché, mentre buttavo giù a macchina le righe del dattiloscritto, avevo ancora vive nella memoria le immagini del giorno in cui, subito dopo l’8 settembre del 1943, una pattuglia tedesca venne a prelevare le armi del mio plotone – il comando d’armata aveva ordinato ad Atene di consegnarle – e il giorno successivo un’altra pattuglia venne a prenderci prigionieri. Quelle immagini si sovrapponevano alle altre della guerra vera e propria. La frustata bruciava ancora e veniva da lontano, dalla decisione appunto di spezzare le reni alla Grecia.

 


Posizionamento e attività del 4° reggimento bersaglieri all’inizio del 1941

Il reggimento è attestato per una guerra di posizione non congeniale per la specialità, ma si adatta ad un’attività tipica degli alpini, pur non disponendo dei loro scarponi, ma degli stivaletti da bicicletta.

A Librashd c’è l’ufficio amministrazione, l’equipaggiamento e le biciclette (al momento inutilizzabili).

A Lin i servizi della compagnia comando reggimentale, l’autodrappello e i motomezzi della compagnia motociclisti e dei battaglioni.

A Memlishta è dislocato XXVI btg, di giorno nascosto in qualche casolare o nelle buche scavate di notte.

Ai piedi del Kalase, defilati presso il tristemente famoso ponticello di bersaglieri, di cui parleremo più avanti, c’è parte della compagnia comando reggimentale e la compagnia motociclisti.

Sul Kalase, in prima linea, fronteggiano i greci i bersaglieri del XXIX e del XXXI, anche se in realtà si tratta dei resti di questi due battaglioni, perché le perdite sono state elevate, con altissimo contributo di sangue.

Le buche dei bersaglieri si riempiono di neve, di fango e di pidocchi, l’acqua da bere o è neve sciolta o è sporca di terra.

Giunge anche una circolare del comando di Tirana, a richiedere di segnalare eventuali buoni elementi per la formazione di un’orchestrina per la prefata sede del comando.

Ha più successo la circolare che dispone la creazione di reparti di arditi: nonostante gli scarsi vantaggi promessi, si formano rapidamente dei nuclei di ragazzi straordinariamente in gamba che, al comando di alcuni ufficiali, come il tenente Rocca, saranno protagonisti di numerosi e purtroppo non sempre felici, episodi di valore.

Su questa linea difensiva si ferma l’offensiva dei greci, che i soldati vivono come premessa di vittoria.

Di notte c’è soltanto qualche breve scambio di colpi di arma da fuoco e di bombe a mano di pattuglie in avanscoperta a Pogradec, che rientrano all’alba stanche e mezzo congelate fra il fango e la neve e sovente incomplete.

 


L’uccellaccio non vola più

Quasi ogni mattina viene sollazzare sulle nostre linee uno strano uccellaccio: è un ricognitore greco di vecchio modello. Pur rendendo omaggio l’ardimento del pilota nemico virgola che si abbassa a spazzolare le nostre linee a bassissima quota, incurante delle raffiche delle mitragliatrici Breda calibro 8 in funzione antiaerea, una per battaglione, i bersaglieri lo maledicono cordialmente. Ma una mattina c’è una sorpresa: una sezione di mitragliere da 20 mm entra in azione e lo spericolato volatile viene centrato in pieno alla prima raffica, precipitando presso Memlishta. Grande entusiasmo tra gli occupanti del Kalase e anche tra i bersaglieri del XXVI btg, che escono dai loro rifugi. Purtroppo una precisa salva di artiglieria greca fa rabbiosamente vendetta su di loro della perdita del valoroso vecchio ricognitore. 

Il percorso di dante col 4° rgt.bersaglieri dallo sbarco a Durazzo al fronte oltre Corizza (Rehove - Erseke per il XXXI btg).

I prospetti e gli schizzi riprodotti sono tratti da “L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA” (v. fonti in calce alla pagina).

Nel titolo dello schizzo c'è un errore: trattasi della 9a armata, con la divisione Arezzo "in affluenza". I pallini rossi indicano le posizioni raggiunte in tutta fretta dal XXIV e dal XXXI btg, mentre il XXVI, con Dante, in bicicletta, è ancora nei pressi di Corizza.
I due battaglioni del 4° rgt, inviati avanti a tappare le falle, sono snch'essi vittima del frammischiamento tra i battaglioni di unità diverse.
nel ripiegamento da Corizza, il XXVI si separa dagli latri due battaglioni del reggimneto e devia verso siniostra, per attestarsi sul Guri i Bresaves, dopo una marcia faticosissima.
Il XXVI sul Guri i Bresaves, gli altri due battaglioni sul Kalase, all'estrema ala sinistra dello schieramento italiano, dove i greci sosterranno il massimo sforzo per passare sulla strada costiera e avere via libera verso Elbasan e Tirana.
Un ingrandimento dello schizzo precedente.
In questo schizzo il XXXI btg non risulta ancora posizionato.
Qui i tre battaglioni compaiono attestati nelle posizioni concordemente riportate da tutte le fonti.
Il fronte è stabilizzato e resisterà ai successivi attacchi dei greci.
La motivazione della ricompensa al maggiore Mennuni per i fatti del novembre 1940.
L'onerificenza concessa a Dante per i fatti del novembre 1940 sul Monte Furkes
Il colonnello Scognamiglio davanti alla sua "grotta-comando" sui monti attormo a Pogradec. Le note a corredo dell'immagine indicano la località di Bregu-i-Ferres, quota 1328.

Approfondimenti

  • F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani (a cura di), L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, FrancoAngeli Editore, Milano 1988;
  • Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Oscar Mondadori, Milano 1996;
  • Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. Guerre e Fascismo, Laterza Editore, Roma-Bari 1998;
  • Piero Melograni, La guerra degli Italiani 1940-1945, Istituto Luce, Roma 2004;
  • Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943 Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, G. Einaudi Editore, Torino 2005.

Bibliografia – Fonti (in revisione)

  • CON IL 4° BERSAGLIERI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Sergio Quaglino – 1985
  • MEMORIE DI UN BERSAGLIERE – Luciano Scalone – 2011
  • LA GUERRA FASCISTA – Gianni Oliva – Le Scie – Mondadori – 2020
  • LE OPERAZIONI DEL 1940 SULLE ALPI OCCIDENTALI – (Autori vari, esegesi storica a cura dell’Ufficio Storico dello SME, 1994 Roma
  • DIARIO STORICO DEL COMANDO SUPREMO VOL I TOMO 1 – Autori: Biagini e Frattolillo, dal 11.6.1940 al 31.8.1940 – DIARIO- Edizione Ufficio Storico, 1986
  • IMMAGINI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE   Ufficio Storico dello SME, anno 1995
  • L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Autore Mario Montanari, Studio Monografico, Ufficio storico dello SME, 1995
  • STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA – Mario Cervi – Oscar Mondadori 1969
  • GUERRA D’ALBANIA – Gian Carlo Fusco – Feltrinelli 1961
  • SOLDATI, GENERALI E GERARCHI NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Francesco Casati – Prospettiva Editrice 2008
  • QUOTA ALBANIA – Mario Rigoni Stern – Einaudi 1971-2022
  • FRONTE GRECO-ALBANESE: C’ERO ANCH’IO. – Giulio Bedeschi – Mursia 1977