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I DIARI DI DANTE

QUADERNO II
Periodo narrato compreso tra l’agosto 1940 e l'aprile 1941

CONTESTO ED APPROFONDIMENTI

Capitolo 10 - L'INVERNO SUL KALASE E IL FRONTE JUGOSALAVO

10

Contenuti

10.1 – Il quadro degli scontri

Il quadro degli scontri principali sostenuti dal 4°  bersaglieri: 1 - Massimo avanzamento  con il XXXI btg nella zona di Erseke (17/11/40). 2 - Combattimento del XXVI battaglione al Monte Furkes,   (15-22/11/40). 3 - Sganciamento dal nemico nell'abitato di Corizza (ore 7 del 22/11/40). 4 - Battaglia di arresto sul Guri i Bresaves, dopo il ripiegamento (dic. 40). 5 - Difesa dagli attacchi sul Monte Kalase (inverno 40-41). 6 - Offensiva sul fronte jugoslavo (aprile 1941).

10.2 - I combattimenti del marzo '41 e l'attacco sul fronte jugoslavo


Se finora abbiamo sempre parlato di guerra di posizione per indicare l’immobilità della linea del fronte, ciò non significa che durante i mesi invernali tutto sia rimasto tranquillo in attesa del bel tempo. Al contrario, abbiamo già accennato precedentemente alle azioni offensive che i greci hanno continuamente intrapreso contro il nostro fronte, nel persistente seppur vano tentativo di operare uno sfondamento in un qualsiasi punto del nostro schieramento per raggiungere il successo. Ma ovunque, con furiosi contrattacchi, il nemico è sempre stato respinto, fermi restando i nostri soldati sulle posizioni raggiunte ai primi di dicembre. Unitamente a queste offensive, i greci hanno approfittato di questi mesi invernali per prepararsi alla grande offensiva di primavera.

[…]
Poi a poco a poco l’esercito italiano è stato organizzato per l’offensiva in attesa del momento buono. Già alla fine di gennaio i greci avevano tentato di sfondare in modo decisivo il nostro fronte per aprirsi la via verso Valona, ma il nostro comando aveva prontamente reagito con il sanguinosissime azioni offensive di chiusura. Ma ormai marzo è arrivato e c’è qualcosa nell’aria che indica novità. È vero che Mussolini ha detto “A primavera viene il bello”, ma, a parte ciò, effettivamente si sente un intimo desiderio di reazione dopo questi mesi di immobilità.
[…]
Intanto il 5 marzo il XXVI battaglione lascia la sua posizione di rincalzo a Memlishta e si porta in linea sul Kalase, affiancandosi agli altri due battaglioni.
A metà marzo il colonnello Scognamiglio riceve la triste notizia della morte del padre e lascia il comando di settore per una breve licenza per gravi motivi di famiglia.
[…]
Frattanto in Jugoslavia la situazione politica e militare raggiunge una svolta. Per comprendere quanto sia importante per noi una determinata situazione in Jugoslavia basta dare un’occhiata a qualsiasi carta geografica dalla zona: la frontiera jugoslava circonda l’Albania dall’Adriatico sino al Lago d’Ocrida e un arco attraverso il quale ben cinque vie di comunicazione, attraverso le montagne, immettono in territorio albanese. In caso di conflitto permettono il passaggio di truppe nemiche che prenderebbero alle spalle tutto lo schieramento del nostro esercito in Albania, con conseguenze facilmente immaginabili. Già da qualche tempo, però, il nostro comando era stato informato che la Jugoslavia veniva effettuando segretamente un piano di mobilitazione generale e riteneva che per la seconda quindicina di marzo la Jugoslavia potesse contare su di un milione e più di uomini sotto le armi. Pertanto, allo stato attuale della situazione, il comando italiano si è ritrovato nella necessità di rivedere quello schieramento che aveva organizzato e curato nei minimi particolari contro l’esercito greco, dal Lago d’Ocrida settore Pogradec sino all’Adriatico. Si era aperta cioè una nuova frontiera, quella di cui si è accennato poc’anzi che, partendo dal Lago d’Ocrida, si spinge a ritroso sino al lago di Scutari. Il comando italiano allora improvvisò un nuovo sistema difensivo per poter fronteggiare eventualmente un conflitto armato con la Jugoslavia, costituendo tre nuovi corpi d’armata con sedi a Scutari, Alessio e Librashd, proprio dove si trova la base del 4° reggimento bersaglieri, vicinissime quindi al confine jugoslavo. Ma gli eventi precipitano e a Belgrado si ha il colpo di Stato cosiddetto dei generali. A meno di un miracolo, la guerra con la Jugoslavia può ritenersi imminente. Il comando italiano segue con viva apprensione il punto più nevralgico di tutto lo schieramento, cioè quello verso il Lago d’Ocrida. Sa che i serbi hanno intenzione di attaccare proprio nella zona di Librashd sino al Qafa Thane e, attraverso la strada che costeggia il lago, ricongiungersi con i greci a Pogradec. E questo è proprio il settore ove è dislocato il 4° bersaglieri…
[…]
Mentre intanto si attende con ansia un segno di distensione nella situazione jugoslava, verso la fine di marzo i greci sferrano un attacco massiccio contro tutto il settore del terzo corpo d’armata, cioè nel settore che va da Guri i Topit a Pogradec. I greci non badano perdite e buttano nella fornace battaglioni su battaglioni. Sul Guri i Topit gli alpini respingono sanguinosamente l’attacco del nemico, mentre sul Kalase i nostri bersaglieri resistono eroicamente all’attacco greco. Si sa che siamo finalmente all’inizio di qualcosa di risolutivo e che per il 4° bersaglieri è venuta nuovamente l’ora di dimostrare il suo valore. Ma prima bisogna riorganizzarsi, dopo il terribile inverno sul Kalase. Si inizia così la manovra di sganciamento dei battaglioni, cominciando col XXIX, che nella notte del 26 marzo lascia la linea del Kalase ed a piedi raggiunge Lin, nei pressi del quale sosta all’addiaccio. Il giorno seguente, 27 marzo, il colonnello comandante rientra in linea e riassume il comando del reggimento. Nuovamente i bersaglieri lo vedono in mezzo a loro con la sua parola trascinatrice, col suo esempio, col suo ardimento. Il suo stato di salute è peggiorato, ma in queste ore importanti e decisive egli vuole essere presente alla testa del suo 4° bersaglieri. Nel pomeriggio il colonnello Scognamiglio, insieme al comandante del XXIX battaglione, maggiore De Martino, si reca a riconoscere la località ove il reggimento dovrà riunirsi per riorganizzarsi, cioè in Val Kraponi, a dieci kilometri dopo Librashd, sulla strada di Piscopat verso il confine jugoslavo. Rientrano alle ventidue
Alle prime ore del giorno 28 marzo il  il XXIX battaglione, su autocarri forniti dal comando del terzo corpo d’armata, inizia il trasferimento verso la nuova zona. Nel pomeriggio il colonnello comandante si reca nuovamente in Val Kraponi per disporre la dislocazione della compagnia motociclisti e del XXXI battaglione. Il tempo è bello e questo favorisce le operazioni. Il 29 Marzo, all’alba, la compagnia motociclisti, in parte con i propri mezzi, di in parte su autocarri, si trasferisce nella nuova località designata. Nella notte intanto avevano lasciato la linea la 9a e l’11a compagnia del XXXI battaglione, accampandosi presso Lin, in attesa di proseguire per la Val Kraponi. Nella notte successiva scendono la compagnia comando del XXXI battaglione e la 12a compagnia. Purtroppo la prospettiva di avere qualche giorno disponibile per riorganizzare il reggimento svanisce subito. Gli avvenimenti incalzano ed è ancora il 4° bersaglieri che viene impiegato in queste circostanze, nonostante le condizioni fisiche dei reparti, i quali necessitano veramente di un po’ di riposo.

Il 30 marzo un nuovo attacco greco viene sferrato nel settore centrale della divisione Venezia, il cui comando sospende immediatamente l’ordine di movimento del reggimento, mentre il XXXI battaglione deve mantenere l’attuale dislocazione. Occorre anche avere a disposizione la compagnia motociclisti, per cui viene impartito l’ordine della sua immediata partenza da Val Kraponi, per rientrare nuovamente a Lin. Il XXIX battaglione deve anch’esso tenersi pronto a ritornare nelle posizioni precedentemente occupate. Il XXVI battaglione, che era rimasto in linea, subisce intanto la perdita di dodici uomini, quattro morti e otto feriti: alla sera l’attacco nemico e stroncato. Tuttavia è chiaro che questi tentativi di sfondamento nel settore di Pogradec hanno come obiettivo di raggiungere il vicinissimo confine Jugoslavia e di congiungersi con quell’esercito, in vista del precipitare della situazione politica. Ma se i greci hanno fallito il loro attacco, sicuramente saranno i serbi ad attaccare subito alle spalle il nostro schieramento, forzando il passo di Qafa Thane presentare questa possibilità di attacco sarà nuovamente il quarto bersaglieri che dovrà sostenere il peso della nuova situazione e fronteggiare gli jugoslavi in caso di ostilità.

Il 31 marzo il XXIX battaglione deve tenersi pronto per essere trasportato d’urgenza a Kotodesh. Il colonnello comandante si reca subito in ricognizione in questa località, mentre la compagnia motociclisti e la 12a compagnia del XXXI battaglione sorvegliano le sponde del Lago d’Ocrida con pattuglie e posti di osservazione. Anche la 10a compagnia lascia il Kalase e si concentra a Lin. Il comando di reggimento lascia Lin per trasferirsi verso per Perrenjes, al di là del Qafa Thane. Il 1° aprile, nella notte, il XXXI battaglione si trasferisce a Katjel, in attesa di ulteriori spostamenti. All’alba il colonnello Scognamiglio si reca a riconoscere i settori di fronte jugoslavo che è stato assegnato ai nostri battaglioni. Infatti all’imbrunire il XXIX e il XXXI battaglione lasciano le loro sedi per occupare la nuova linea sul confine jugoslavo ad eccezione della 9a compagnia e di un plotone mitraglieri, che vengono dislocati temporaneamente su altre quote. Nella notte del 2 aprile si inizia lo sganciamento di alcune compagnie del XXVI battaglione sulla linea del Kalase, in quanto il battaglione deve riunirsi a Piscopat. Ormai siamo alla vigilia dell’ineluttabile e, dopo l’ansia di questi ultimi giorni, si può dire che una gran calma sia scesa negli animi. Si attende l’ora dell’attacco, mentre si perfezionano i movimenti dei singoli reparti per essere pronti ad ogni eventualità. Il 5 aprile i battaglioni si portano sopra Perrenjes, avvicinandosi sempre più al confine jugoslavo. Il giorno successivo 6 aprile i bersaglieri si fermano proprio sotto la quota 1.234, ormai è questione di poco, i nervi sono nuovamente tesi in questa attesa che sembra non dover finire. Dalle nostre posizioni si vedono benissimo le pattuglie dei finanzieri jugoslavi, anche loro in attesa dell’inevitabile. Ed è infatti di poche ore dopo l’annuncio dello scoppio delle ostilità con la Jugoslavia.

Il 7 aprile bersaglieri attaccano subito la quota 1.234, che viene raggiunta verso le quattordici dopo aspri combattimenti e sotto una tempesta di fuoco. Morti e feriti suggellano con il loro sangue questi primi combattimenti con la Jugoslavia, mentre i reparti cercano di sistemarsi subito a difesa, prima che scenda la notte. Fra i caduti ricordiamo il sergente Cometto e il sottotenente Massa, ferito gravemente durante l’azione e morto poco dopo all’ospedale da campo, al quale verrà poi concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
La notte è trascorsa in continuo allarme. Il sottotenente Bragaglia con un gruppo di bersaglieri arditi, oltrepassò le nostre linee in un riuscito assalto a una casermetta nemica che, con le postazioni di mitragliatrici, metteva in difficoltà il nostro schieramento. Il giorno 8 aprile si rimane in quota sempre sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Il tempo si guasta e ricomincia a far freddo. Scende la fitta nebbia. Il 9 aprile, mentre i reparti di camicie nere prendono il posto dei bersaglieri sulla quota 1.234, i nostri battaglioni avanzano combattendo ed attaccano la successiva quota 1.510. Si combatte accanitamente anche nel pomeriggio e nella notte, quando la nebbia e il gelo avvolgono ogni cosa e rendono più tragica la situazione. Sempre in mezzo alla nebbia della tormenta, la 9a e la 12a compagnia cercano di avanzare sulla destra in direzione della casermetta. Ma non è ancora neanche l’alba che gli jugoslavi attaccano in forze il nostro schieramento, protetti dal nutrito fuoco di artiglieria. I morti e i feriti sempre più numerosi arrossano con il loro sangue queste cime così contrastate, ma si cerca di resistere ad ogni costo. La 9a compagnia e un plotone della 12a vengono accerchiati e subiscono gravissime perdite. I feriti non si contano più, moltissimi i caduti e numerosi i dispersi. Si cerca di sfondare il cerchio di fuoco: vi riesce il tenente Zolesi con 45 bersaglieri.

Il giorno successivo 11 aprile i combattimenti si fanno ancor più aspri, ma i bersaglieri resistono accanitamente, anche se la stanchezza, il freddo e il gelo rendono sempre più difficile un’ulteriore resistenza. Muore il sergente Angilletta, colpito da un colpo di mortaio, rimangono feriti tra gli altri i tenenti Merluzzi e Sicardi. Molti sono i bersaglieri colpiti da congelamento.

Con questa furiosa resistenza cade per i serbi dei greci ogni possibilità di chiudere in una tenaglia estrema l’ala destra della nona armata. Non solo, ma adesso sono proprio i serbi a doversi guardare alle spalle, perché i tedeschi, entrati nei giorni scorsi in territorio jugoslavo da più parti, si stanno avvicinando alla sponda opposta al Lago d’Ocrida. I bersaglieri del 4° attaccano ancora, mentre i serbi sono costretti a ripiegare. Il 12 aprile i nostri battaglioni raggiungono Radolista, mentre la compagnia motociclisti, avanzando lungo la sponda jugoslava del lago si incontra a Struga con le colonne motorizzate tedesche. Saldata la partita con la Jugoslavia nel settore del Lago d’Ocrida, occorre pensare adesso ai greci.

 

10.3 - Il ponticello dei bersaglieri


A qualche centinaio di metri dal punto ove la linea del Kalase scende a toccare la sponda del Lago d’Ocrida, No sulla strada che costeggia il lago stesso, si trova un ponticello. Un ruscello scende dalla montagna, vi passa sotto e si getta nel lago.

Ma, nell’avvallamento dietro la spalletta del ponte, vi sono dei bersaglieri: porta ordini, telefonisti, motociclisti… È questo il punto di transito obbligato per ogni persona o cosa che debba raggiungere la linea del Kalase ed è anche il punto più avanzato ove possono giungere gli auto ed i moto mezzi, poiché, dal ponticello in su, verso la linea sulla montagna, bisogna proseguire a piedi o a dorso di mulo.

Questo sarebbe niente se non ci fosse un ma. Dall’altra sponda, proprio quasi al confine fra l’Albania e la Jugoslavia, a Starova, villaggio ora in mano ai greci, vi è una batteria con i pezzi sempre pronti, puntati sul nostro fianco, e più precisamente sulla strada che costeggia il lago, nonché naturalmente sul ponticello.

Così, ad ogni movimento sospetto, subito arriva una sventola di colpi che quasi sempre vanno a segno. Inutile dire che in principio i morti e feriti sono stati numerosi. Poi si è capita l’antifona e allora di giorno non ci si muove più o quasi, lasciando per la notte ogni movimento di uomini e di mezzi. Però qualche volta anche di giorno bisogna muoversi, specialmente per lo scambio di ordini e messaggi tra la linea ed il comando di reggimento o di divisione. Allora entrano in gioco l’audacia, la spericolatezza ed anche l’eroismo di questi bersaglieri, i quali sanno benissimo la sorte che li attende se non sono velocissimi nei movimenti.

Alla loro abilità ed al loro sprezzo del pericolo è legata alla possibilità di sfuggire ai colpi dell’artiglieria. Se bisogna partire dal ponticello occorre con la moto a tutto gas, letteralmente schizzare via dalla strada prima che arrivi il proiettile ed allontanarsi a tutta velocità; se invece si arriva al ponticello, bisogna allora raggiungerlo a tutta velocità, frenare e buttarsi subito dietro la spalletta del ponte, sperando in Dio.

Con tutto questo, ogni tanto il morto o il ferito ci scappano sempre. Questo, in breve ,è il ponticello dei bersaglieri.

A ricordo dei bersaglieri caduti al ponticello verrà qualche mese più tardi, a campagna albanese finita e nell’anniversario della festa del corpo, inaugurato un cippo di pietra.

"Il ponticello dei bersaglieri" (da Quaglino)

10.4 - Nuovo nemico, nuovo fronte

In previsione del confronto con l’esercito jugoslavo, il “Comando Superiore Forze Armate Albania (generale Ugo Cavallero) dispone che il comando della 9ª armata provveda a riorganizzare la Divisione “Arezzo” e il 4° reggimento bersaglieri e che li ponga a sua disposizione per l’imminente impiego sul nuovo fronte, che si apre alle spalle del settore occupato sino ad ora dalle truppe italiane, di cui il 4° reggimento bersaglieri costituisce l’estremità sinistra. Dopo cinque mesi di dura guerra e prima dell’auspicato contrattacco verso i greci, un diversivo per Dante: dietro front e via un’altra guerra. Durerà poco, ma ci sarà tempo per qualche medaglia e parecchi morti. Il morale dei superstiti, però, si alza. Hanno già vinto la Battaglia delle Alpi, ora hanno liquidati i serbi, poi inseguiranno i greci fino alla resa…

Su questo nuovo fronte, il reggimento opera con la colonna “Ferone” (dal nome del generale Ernesto Ferone, comandante della divisione Arezzo, noto in seguito per aver partecipato agli eventi del 25 luglio 1943), che, il 9 aprile 1941 inizia il movimento sulla direttrice di Struga, in territorio jugoslavo. Il 10 aprile sostiene gli scontri più violenti, che culminarono con la conquista delle quote 1136, 1061 e 969, l’11 aprile supera lo sbarramento avversario sul Mali Vlaj ed entra a Struga. 


La battaglia con gli jugoslavi dal racconto di Scalone

Il 22 marzo tutto il battaglione lascio il fronte, a darci il cambio venne un battaglione del 1° reggimento bersaglieri e saremmo andati a riposo nelle retrovie. Dopo aver percorso un poco di strada a piedi e di notte, per portarci fuori dalla portata dei cannoni greci, venne un’autocolonna di camion che ci caricò sopra e andò a scaricarci a Librashd, dove rimanemmo una decina di giorni. Il giorno 31 marzo venne la stessa autocolonna, ci caricò e ci portò a 30 km dalla frontiera. Il giorno 5 aprile tutto il quarto reggimento, al comando del nostro colonnello Scognamiglio, era a ridosso della frontiera albanese-jugoslava.

Dopo mesi di combattimenti con i greci, adesso ci sarebbero toccati gli slavi. L’indomani, mentre eravamo intenti a fare un cambiamento di tende, dalla vicinissima frontiera si sentì l’eco di un colpo di pistola e in seguito altri colpi di fucile e di mitraglie. Erano circa le quattordici e ci trovavamo a cinquecento metri circa dalla frontiera. Abbiamo allora abbandonato tutto e abbiamo imbracciato le armi, con l’ordine di disporci in formazione di combattimento e raggiungere al più presto possibile la frontiera. Appena arrivammo in cima, piazzai la mia mitragliatrice a ridosso di un sasso e mi sdraiai per terra con il dito sul grilletto. Cercavo di vedere qualcuno dove poter mirare e sparare.

Fu in questo frangente che sentii vicino a me un lamento umano: lasciai l’arma e, strisciando per terra, andai a vedere. C’era un bersagliere a terra, il quale, appena avvertita la mia presenza, si voltò, guardandomi con gli occhi sbarrati, aveva l’aria di chiedere aiuto, ma non parlava. Lo guardai per vedere se fosse ferito: con le mani si stringeva lo stomaco, si torceva e grondava sangue. Mi sono ritirato strisciando, così come ero arrivato, per avvisare il tenente che si trovava a pochi metri da me. Subito dopo vennero due porta feriti e lo portarono via. Appena fu notte continuammo ad andare avanti con diverse cariche, fino a raggiungere una posizione dominante, dove potevamo difenderci ed offendere più facilmente. Durante i combattimenti della notte del 6 aprile 1941, rimasero feriti due ufficiali della mia compagnia di nome Cutrino e Pirrone e perdemmo due bersaglieri, un mio amico che si chiamava Sartore ed un certo Brambilla. Prima che arrivasse il nuovo giorno giungemmo nel punto che ci eravamo prefissi e subito, improvvisando delle postazioni di difesa, che consistevano in muretti di pietra per ripararsi dalle pallottole e dalle schegge di granate nemiche. Il giorno 7 Aprile rimanemmo fermi tutto il giorno, ma la notte subimmo un contrattacco da parte degli slavi.

Quella notte stavo dormendo quando fui svegliato da un bersagliere che era di guardia in un avamposto. Mi tirai su, vedendo una valanga di scoppi di bombe a mano che venivano avanti di fronte a noi. Imbracciato il mitragliatore, iniziai a sparare centinaia di colpi a falciare, nel tentativo di bloccare l’avanzata e alla fine i nemici rinunciarono all’attacco. Alla luce del giorno vedemmo cinque soldati slavi che giacevano esanimi ad una cinquantina di metri da noi; quasi tutti i pini e gli altri alberi davanti alla postazione erano bucati dalle pallottole del mitragliatore. L’indomani al nostro posto venne la milizia fascista e il nostro battaglione cambiò settore, ché c’erano altre quote ed altre postazioni da assaltare. Camminammo tutta la notte lungo la retro linea, fino a giungere quota 1.500 metri, dove c’era ancora tanta neve e dove operava il ventinovesimo battaglione bersaglieri.

Gli slavi facevano molta pressione, i nostri soldati erano pochi di fronte all’estensione del fronte che dovevamo difendere e così noi andammo a supporto di quel settore. Nello stesso tempo le altre nostre forze armate, dislocate sui confini italo-jugoslavi penetravano in territorio jugoslavo da altre parti, marciando verso l’interno. Contemporaneamente dall’Austria e dalla Bulgaria intervenivano i tedeschi. Gli slavi, attaccati da più fronti, abbandonarono le armi, ritirandosi. Così, un bel mattino, di fronte a noi non avevamo più nessun soldato nemico: era la mattina dell’11 Aprile 1941.

Visto che c’era evidenza che il nemico si era ritirato definitivamente, potemmo andare avanti più speditamente e al calar del sole arrivammo in un paese chiamato Struga. Ci portammo ai lati della strada rotabile, camminando in fila indiana, una fila destra e una fila a sinistra dalla strada. Arrivati a Struga, tutti gli abitanti erano radunati in una piazzetta sopraelevata mediante un muro di sostegno che si staccava dal margine sinistro della strada. Stavano lì, muti, inorriditi, sicuramente colmi di paura. Nessuno dei soldati o degli ufficiali italiani gli rivolgeva alcuna parola.

[…]

La gente del paese, poi, ci festeggiò e, visto che noi eravamo tutti bagnati (aveva piovuto tutto il giorno), fecero a gara per portare della legna nella piazza grande del paese, disponendola lungo tutto il perimetro; poi l’hanno incendiata, invitandoci ad andare a scaldarci e quindi ad asciugarci.

L’indomani mattina partimmo per incontrare una colonna corazzata tedesca che era partita dalla Bulgaria e puntava nella nostra direzione. Ci incontrammo a nord della città dove siamo rimasti fermi per circa due ore, serviti per le comunicazioni tra gli ufficiali tedeschi e i nostri ufficiali. Poi ritornammo nuovamente verso il confine con l’Albania, percorrendo la strada che attraversa il confine, sul lato della città di Ocrida e che costeggiava per un tratto in lungo il lago andando a incrociare la strada che portava a Pogradec e al Monte Kalase: tornavamo sui luoghi dove avevamo passato tutto l’inverno, dove avevamo combattuto e sofferto il freddo, la fame e dove abbiamo lasciato un pezzo della nostra vita. 

Testo tratto dal diario del ten. Sergio Quaglino

Testo tratto dal diario del bers. Luciano Scalone

10.5 - Alpini

Lo scrittore Mario Rigoni Stern partecipò col 6° reggimento alpini della divisione Tridentina alla guerra contro la Grecia del 1940-41 e si trovò ad operare nelle stesse zone del 4° bersaglieri. Nel suo libro  “Quota Albania” racconta la sua testimonianza di soldato su quegli eventi,  con in più l’autorevolezza e lo sguardo dello scrittore. Data la condivisione di esperienza, di luoghi ed eventi con il reparto del papà, ho pensato di arricchire questa pagina, qui di seguito, con alcuni spunti e citazioni tratte dal libro. 

10.6 - Spazzacamini al fronte

 

M. Rigoni Stern – “Quota Albania”  – Pag. 67 e segg.

Quella sera, era l’undici dicembre, arrivò la comunicazione che delle camicie nere erano in marcia verso di noi.

Il colonnello mi mandò a chiamare perché andassi loro incontro e facessi da guida: nevicava fitto, e, disse, c’era pericolo che si perdessero.

Presi con me Agnoli e fu un camminare balordo perché i militi si sparpagliavano in gruppi quant’era lunga la mulattiera: avevano anche buona volontà, ma proprio non ce la facevano.

Finalmente, alla meno peggio e dopo ore di cammino e di gridi nella notte, riuscimmo ad arrivare al nostro comando; il seniore andò a dormire con i nostri ufficiali e i militi con i loro centurioni e capo manipoli dietro il bosco, dove si trovava la compagnia comando.

tutto il giorno dopo nevicò con vento virgola e stemmo ad asciugarci nei nostri ripari. Ma era anche molto freddo.

[…]

Fu un tribulare quel giorno che accompagniamo le camicie nere a prendere posizione tra la 53 del Vestone e la 58 del Verona, verso lo Shkalles.

Questi spazzacamini provenivano dalla bassa novarese e le montagne le avranno viste andando in gita con il dopolavoro, o quando il vento portava via la nebbia dalle risaie.

A guardarli, con quella montura irrazionale e ridicola, facevano pena: il fez con il fiocco nero, i fasci sul bavero, la camicia di tela da grembiuli per scolaretti, il pugnale di traverso dalla parte della milza, gli stivaletti da sabato fascista sui marciapiedi: arrancavano nella neve con il fiato grosso e bolso. Chissà, poi, cosa avevano dentro gli zaini e i fagotti che si tiravano appresso. Ma non ci offrirono niente: neanche una sigaretta.

Noi facevamo come i cani da pastore che tengono in branco le pecore: si stimolava e si punzecchiava; si aiutavano, anche, i più malandati a portare i fagotti e le armi.

Impiegammo dodici ore tra l’andare e ritornare; una strada che, anche con la bufera, facevamo in un terzo di quel tempo. Nel ritorno, a notte, incontrammo ancora qualche ritardatario impaurito e smarrito: come quel caposquadra con tre dita di nastrini sul petto, che ci chiese quanta strada c’era ancora per arrivare, se i greci erano vicini, se c’era pericolo, se c’era sempre così tanta neve.

Più avanti i nostri piedi si imbatterono in qualcosa di duro nascosto tra la neve: era un fucile mitragliatore che avevano perso e che raccogliemmo per portarlo agli alpini del Verona.

Per più giorni, quando percorrevamo quella pista, trovavamo oggetti abbandonati dalle camicie nere:  le calze ci erano preziose.

[…]

Ero appena passato, quando i greci arrivarono sotto le postazioni delle camicie nere, e queste, senza nemmeno tentare un lancio di bombe a mano per fermarli, abbandonarono tutto e fuggirono come lepri davanti ai segugi.

Scapparono nella valle, ma il bello è che non si fermarono una volta giunti lontani dal combattimento: proseguirono fino al comando di divisione, dove, vedendoli in quello stato, credettero che i greci fossero alle calcagna, e caricarono muli e carrette per ritirarsi verso Elbasan.

La situazione si era fatta preoccupante, ma gli alpini resistevano con rabbia; le batterie del maggiore Calvo concentrarono il fuoco dove i greci si erano impadroniti delle trincee degli spazzacamini.

[…]

Quando venne sera i greci smisero di attaccare e, invece di approfittare del varco lasciato libero dai militi, si fermarono e piazzarono verso il vuoto le armi che trovarono abbandonate da essi. E io, per non cadere nelle loro mani, dovetti fare un ampio giro per ritornare al comando di reggimento.

Prima dell’alba, due plotoni del Vestone con il capitano Bongiovanni e il tenente Baietti e un plotone del Verona, piombarono dall’alto verso i fianchi dei greci. La sorpresa riuscì: li fecero tutti i prigionieri, recuperarono le armi lasciate dalle camicie nere e, naturalmente, ripresero la trincea.

[…]

Nel bosco, prima di arrivare al comando del Verona, incontrammo due camicie nere disperse e disarmate. Il colonnello si sfogò a bastonarli: – Vi faccio fucilare! – diceva tra i denti. Le prendemmo con noi e mi disse di spararci se avessero tentato di andarsene. Le riaccompagnammo su, tra gli alpini.

10.7 - Lapis


M. Rigoni Stern – “Quota Albania”  – Pag. 52

Santini, il giorno dopo, mi offre due cartoline in franchigia; ci hanno detto di scrivere che poi uno raccoglierà la posta per portarla indietro, fin dove incontrerà un paese con un comando che la farà proseguire.

Uno cartolina, scrivere una cartolina che arriverà al mio paese. La rigiro tra le dita: è da quando mi sono imbarcato a Brindisi che non do notizie. Quanti giorni saranno? Dalla mia agendina vedo che oggi dovrebbe essere il 27 di novembre; sempre se non sbaglio, perché i giorni sopra Corizza, su quei monti, sono segnati con un’unica data.

Scrivo l’indirizzo con il lapis copiativo e il coperchio della gavetta mi fa da tavolo. Una a casa, ai miei, e l’altra a lei, a Venezia. Ma cosa dire? Cosa si può scrivere di qui? E se anche dico dove sono e come sono, cosa ne capirebbero? Allora scrivo solo che sto bene, e firmo.

[…]

Durante la notte viene dato l’allarme perché le pattuglie greche sono entrate in contatto con la nostra linea, e le ore al freddo, con il fucile in mano, nel buio, e la neve che fiocca, sono lunghe e dure. Viene il desiderio di addormentarsi con questa neve attorno come piuma e non svegliarsi più.

Leggendo il brano di Rigoni Stern  riportato qui sopra fa riflettere, mentre viene in mente il papà nella costante attesa di ricevere notizie e con la preoccupazione di farne avere ai suoi cari ( e alle sue…  care), non si può fare a meno di riflettere sulla effettiva difficoltà, se non impossibilità, di raccontare quell’esistenza. Proviamo ad immaginarci là, in quelle condizioni: credo proprio che le parole abbiano un limite, oltre il quale nessuno, nemmeno uno scrittore od un poeta possano andare, perchè rimane, con la solitudine, solo il silenzio.

Ed anche perchè, posato il lapis, torna subito la battaglia.

Mario Rigoni Stern

10.8 - Due muli per battaglione


M. Rigoni Stern – “Quota Albania”  – Pag. 55 

Quando è notte arrivano i muli, ma sono pochi e non una colonna, e non hanno viveri o bevande forti, ma rotoli di reticolati e casse di munizioni.

I conducenti sono tutti coperti di fango dalle scarpe alla testa: solamente dagli occhi e dalla voce si capisce che sono uomini e non strani animali. Ma parlano poco, nemmeno hanno la forza di bestemmiare.

I muli sono ricoperti di fango come loro: pelo e fango fanno un unico strato. Soffiano dalle froge vapore bianco, le orecchie abbassate dondolano al passo come i basti sulle groppe magre. Ogni tanto inciampano o scivolano nel fango, inginocchiandosi: allora uno strappo alla cavezza e una parola di pietà o di rabbia li fa rialzare in piedi e proseguire.

Sono in cerca di noi da quattro giorni. Quando arriviamo al comando facciamo le ripartizioni dei reticolati e delle munizioni. Ma sui muli noi si aspettava che arrivassero pagnotte, o qualcosa da poter cucinare e finalmente scaldarci lo stomaco.

Il colonnello decide di far ammazzare due muli per battaglione, ma il caporale dei conducenti non sa quali scegliere e i conducenti, che hanno sentito l’ordine, tentano di scappare nella notte, giù per la valle. Una squadra corre a fermarli.

Ora, accompagnati da noi, i quattro destinati salgono le montagne coperte di neve, ognuno tirandosi dietro il proprio mulo, condannato a morire per sfamare gli alpini.

10.9 - Carabinieri


M. Rigoni Stern – “Quota Albania”  – Pag. 59 

Piccoli gruppi di alpini ogni tanto abbandonano la linea e scendono verso le case degli albanesi per cercare qualcosa da mangiare, o per riposare qualche ora al caldo. Forse sono i loro stessi comandanti di plotone che, a turno, glielo permettono. Però i carabinieri aggregati al comando hanno avuto l’ordine di rastrellare le case, radunare gli alpini e scortarli fino lassù. A morire.

Questa sera una quarantina di alpini del Vestone, qui vicino ai nostri ricoveri: sono circondati dai carabinieri armati che respingono inesorabilmente nel gruppo chiunque cerca di uscirne.

Senza alcun riparo, addossati uno all’altro uno sull’altro, la neve li sferza, il vento si porta via i loro lamenti che nessuno può ascoltare. Così avevo visto una mandria sui miei monti durante una nevicata estiva. Ma questi sono uomini! Vorrei portare loro qualcosa, magari del fuoco, ma l’appuntato dei carabinieri mi allontana, spingendomi via col moschetto.

Mi metto sotto un albero, aderente al tronco come volessi entrare dentro e farmi legno per non sentire quei lamenti e non vedere mai più uomini così. Ma loro continuano, monotoni, insistenti: e quando sembra che il vento e la tormenta li ammutoliscano, allora, improvvisamente, un urlo da bestia ferita a morte fa riprendere il triste coro.

Un’ombra entra nel cerchio: è il colonnello Augusto Reteuna, comandante del 6° reggimento alpini, e parla loro. Minaccia, ironizza, prega; cerca di risvegliare il loro orgoglio, ma, quando finisce di parlare, il lamento riprende. Resterà immobile, per tutta la notte, in mezzo a loro, e non si siederà, non fumerà; starà lì, in piedi, appoggiato al suo bastone, in silenzio. Facendosi torturare dai lamenti degli alpini che dovrebbero che dovrebbe comandare e dalla bufera che non trova sosta.

All’alba i carabinieri li accompagnano sul Valamare. Salgono in lunga fila grigia, curvi, per affrontare il vento e la neve. Con loro salgo anch’io.

Al colonnello, quella notte, si congelò un piede. Senza farlo sapere ad alcuno, qualche giorno dopo si fece levare due unghie dal capitano medico suo amico: me lo disse un mese dopo, mentre andavamo per la mulattiera del Papallazit e gli domandai perché camminasse con dolore.

10.10 - Gerarchi al fronte

Mussolini, irato per l’andamento negativo della guerra e per la relativa brutta figura, reagisce a suo modo e, tra le varie misure adottate, invia al fronte “per punizione” numerosi gerarchi. Tra questi Cianetti, presidente della Confederazione Lavoratori dell’Industria, ossia del sindacato fascista, che venne destinato come “volontario” col grado di capitano alla divisione Pinerolo. Il resoconto autobiografico del suo arrivo al fronte è riportato a pag. 111 da Giulio Bedeschi nel suo libro: “FRONTE GRECO-ALBANESE: C’ERO ANCH’IO” – Giulio Bedeschi – Mursia – 1977.


A mezzogiorno giungo a Bregu Iulei. Tre o quattro capanne, tende, soldati. Mi indicano la capanna del colonnello dalla quale esce un capitano seguito dal colonnello comandante. «Che vuoi?» mi chiede il colonnello.
«Ho una lettera per lei da parte del comando di divisione.»
«Ah, vieni dal comando di divisione? E vieni a portarmi una lettera? Perdio, me ne frego delle scartoffie, pane ci vuole, munizioni ci vogliono, non scartoffie! Figli di cane, mi mandano le scartoffie.»
«Signor colonnello, la prego di leggere.»
Legge e poi: «Beh, sei assegnato al reggimento?»
«Signorsi.»
«A che fare?»
«Ecco, signor colonnello … »
Urla, urla: «A che fare, sacramento! Io non ho bisogno di ufficiali, ma di pagnotte. I soldati muoiono di fame».
«Scusi signor colonnello, se lei permette io sono il capitano … »
«Si, si ho visto che sei il capitano Cianetti, credi che sia cieco? Ma a me servono le pagnotte non i capitani».

A Cianetti bastano pochi giorni al fronte per rendersi conto della situazione Scrive infatti (Bedeschi, idem): 

«Assassini, mille volte assassini!», gridai sottovoce una notte di temporale, portando la mana alla bocca perché le sommesse parole non giungessero alle orecchie di quelli che mi stavano d ‘intorno.

Assassini a chi? Non c’era anche il ministro Cianetti nella riunione in cui fu decisa la guerra? Cosa fece poi fino al 25 luglio del ’43?

10.11 - Guerra di Grecia: riepilogo degli eventi


Cronologia

15 ottobre:
decisione dell’invasione della Grecia.

25 ottobre: ignoti attaccano un posto di frontiera albanese.
25 ottobre: tre bombe esplodono nella legazione italiana di Santi Quaranta.
28 ottobre: alle tre del mattino il nostro plenipotenziario ad Atene consegna l’ultimatum a Metaxas, che lo respinge.
28 ottobre: alle 5 e 30, i primi reparti italiani entrano in Grecia (Epiro).
29 ottobre: entrano in azione nel settore dell’Epiro, dal mare verso l’interno, il Raggruppamento Litorale, le divisioni Siena, Ferrara, Centauro e Julia, alle quali si aggiungerà poi la Bari. In Macedonia occidentale, ossia nella zona di Corizza, si muovono la Parma e la Piemonte, prima ad operare, alle quali si aggiungerà la Venezia, spostata dal confine jugoslavo.
31 ottobre: la Siena avanza con difficoltà per la pioggia e per i fiumi in piena.
1° novembre: i greci, sinora sottrattisi al contatto, attaccano violentemente in Macedonia occidentale e le nostre divisioni si ritirano e fino al fiume Devoli.
4 novembre: i greci rafforzano il settore e cominciano a premere.
7 novembre: la divisione Julia, posta sul perno del fronte tra le due armate italiane e a rischio accerchiamento, deve ripiegare su Corizza.
9 novembre: Visconti Prasca è sostituito al comando dal generale Ubaldo  Soddu, sottosegretario alla Guerra.
10-12 novembre: continua l’affluenza non organica di nuovi reparti e affluiscono in Albania sei battaglioni alpini.
12 novembre: aerei inglesi attaccano a Taranto la flotta italiana.
14 novembre: nuova offensiva greca in Macedonia occidentale.
17 novembre: Erseke è abbandonata e i greci minacciano il fianco dell’XI armata.
18 novembre: Mussolini ha un’idea e dichiara che “Spezzeremo le reni alla Grecia.”
18 novembre: la Julia deve rilevare in prima linea la divisione Bari, travolta, non senza accuse di scarso valore.
20 novembre: la Julia, al ponte di Perati, è investita da massicce forze greche.
21 novembre: viene consegnata al duce una lettera di Hitler, secondo il quale l‘iniziativa italiana ha avuto “conseguenze psicologiche spiacevoli” e “conseguenze militari molto gravi”, ossia “avete fatto una figura di merda e avete perso”.
22 novembre: gli italiani abbandonano  Corizza.
26 novembre: il maresciallo Badoglio presenta le proprie dimissioni da Capo di stato maggiore generale. Al suo posto viene chiamato il generale Ugo Cavallero.
28 novembre: gli euzoni prendono Pogradec e tolgono a Soddu un caposaldo essenziale per la nuova linea difensiva.
4 dicembre: Soddu è preoccupato della situazione e avanza l’ipotesi di una trattativa.
7 dicembre:  Argirocastro viene evacuata.
29 dicembre: il generale Soddu viene sostituito al comando d’Albania dal generale Cavallero.
5-6 gennaio: i greci attaccano e prendono Klisura.
19-20 gennaio: incontro Mussolini-Hitler a Salisburgo.
29 gennaio:  muore il generale e primo ministro greco Ioannis Metaxas. Al suo posto il re nomina Alèxandros  Korizis.
23 febbraio: Mussolini, a Roma, promette che le cosa cambieranno con la primavera.
1° marzo: truppe tedesche entrano in Bulgaria con il consenso di re Boris.
2 marzo: Mussolini parte per l’Albania per assistere all’offensiva italiana verso Klisura.
9 marzo: gli italiani attaccano in direzione di Klisura, ma senza risultati di rilievo. Combattimenti violenti si accendono attorno a quota 731, Monastero.
16 marzo 1941: l’offensiva verso Klisura viene sospesa.
21 marzo: Mussolini lascia l’Albania.
25 marzo: la Jugoslavia aderisce al Patto Tripartito Italia-Germania-Giappone.
27 marzo:  in Jugoslavia un colpo di stato anti-tedesco ribalta la situazione e depone il reggente, sostituito con il giovanissimo re Pietro II e conferendo il potere al generale filo-britannico Simovic.
6 aprile: inizia l’operazione “Marita”, con l’invasione tedesca della Jugoslavia e della Grecia. 
9 aprile: le truppe tedesche entrano a Salonicco.
10 aprile: gli italiani si muovono, da nord, in direzione della Jugoslavia.
12 aprile: i greci si ritirano da Macedonia occidentale ed Epiro per evitare l’accerchiamento tedesco.
13 aprile: approfittando della ritirata greca, il fronte italiano si getta in avanti. I greci combattono intensamente per ritardare l’avanzata degli italiani ed infliggere loro le maggiori perdite possibili.
14 aprile: i soldati italiani entrano a Corizza e, in Epiro, riprendono Klisura e Monastero.
18 aprile: l’XI armata italiana entra in  Argirocastro, mentre i tedeschi avanzano verso Gianina.
18 aprile: il primo ministro greco Korizis si toglie la vita.
19 aprile: al passo delle Termopili, reparti inglesi bloccano temporaneamente i tedeschi, consentendo al grosso delle truppe di imbarcarsi per Creta.
20 aprile: a Larissa, contro gli ordini di Papagos, il generale Tsolakoglou si arrende ai tedeschi. Nel documento di resa  non sono menzionati gli italiani, ai quali i greci rifiutano di arrendersi.
23 aprile: viene replicata la firma della resa, questa volta anche alla presenza degli italiani. 

Le forze in campo

Le  otto  divisioni italiane  schierate all’inizio dell’invasione ( Siena, Ferrara, Centauro, Julia, Parma,  Venezia , Bari, Piemonte) più il “ Raggruppamento” del litorale furono, via via, affiancate , nel corso del tempo, dalle divisioni Taro, Arezzo, Tridentina, Cuneense, Pusteria, Pinerolo, Lupi di Toscana, Brennero , Modena, Legnano, Acqui, Cuneo,  Alpini Speciale , Puglie, Casale, Cacciatori delle Alpi. La Messina e la  divisione Marche arrivarono a guerra finita. 

Centomila uomini scarsi, servizi compresi, all’inizio delle ostilità, quasi mezzo milione di uomini alla fine.  

I caduti.

Secondo i dati ufficiali del Ministero della Difesa italiano, riportate nel libro di Mario Cervi,  l’impresa di Grecia costò al nostro esercito 13.755 morti, 50.874 feriti. 12.368 congelati, 25.067 dispersi (in massima parte, secondo il Ministero, caduti sul campo).

I greci, sempre secondo fonti ufficiali, ebbero 13.408 morti e 42.485 feriti: i  tedeschi 1323 morti e 3411 feriti; i britannici,  fra morti, feriti  e prigionieri, persero  più di 15.000 uomini.