Le altre parti dei Diari
Extra
Testi collegati
Testo tratto dal libro del Ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal libro del Bers. Luciano Scalone
Avvertenze
Il testo dei Diari di Dante è riportato su una colonna principale, affiancata a destra da due colonne di raffronto e complemento, nelle quali sono riportati gli stralci di due testimonianze “speciali”: sono quelle lasciateci da chi ha condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende: in particolare con quelle di Sergio Quaglino e di Luciano Scalone. Il primo è stato un ufficiale che ha scritto un libro di assoluta valenza memorialistica storica, descrivendo fatti, luoghi e persone coniugando in un perfetto equilibrio la passione determinata dagli eventi con il manifestarsi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, che ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.
La disponibilità di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari di Dante ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone le note appaiono alla fine di ciascun blocco.
Nelle colonne di raffronto e complemento, il racconto di Dante è affiancato e correlato a destra anche da:
– Cronologia essenziale internazionale
– Note esplicative o a commento del testo
– Collegamenti esterni o ad altri articoli interni sullo stesso tema (Categoria “EXTRA”, per esempio)
– Immagini e mappe
Il collegamento tra il contenuto dei Diari e quello dei due testi principali di raffronto è segnalato con una nota (in apice) solo se il nesso è specifico e circostanziato, altrimenti il raffronto è lasciato alla cura ed all’interesse del lettore con l’ausilio delle date, evidenziate all’uopo in grassetto su tutti e tre i testi.
Il collegamento tra parti del contenuto del testo dei Diari ed elementi presenti nelle colonne di raffronto e complemento (comprese parte delle immagini) è segnalato da una sottolineatura. Alcuni elementi presenti nella colonna di complemento (comprese alcune altre immagini) hanno invece solo un riferimento generico con il racconto e sono quindi privi di un collegamento specifico.
[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Le immagini con bordo e didascalia di color cremisi provengono dalla raccolta pesonale di Dante.
Qui di seguito sono riportati ulteriori formati utilizzati per ulteriori contenuti.
16 agosto 1941. Andiamo al posto di blocco, una confusione e con tutti gli autocarri che passavano, neanche uno militare con la possibilità di salire. Passa un’ora, due, decidiamo di ritornare a Durazzo a prenderci la corriera: non era per ritornare, ma per i pacchi che avevamo da portarci a dietro. Ma, cosa vuoi, almeno poi siamo liberi. Alle dieci e trenta la corriera parte e prima di mezzogiorno siamo alla capitale. Subito al solito posto a fare colazione in compagnia del Maggiorino e del bersagliere Pissinis e intanto già qualche bersagliere si vedeva in giro. Allora domandiamo del XXVI battaglione e sappiamo che sono scappati da Durazzo perché c’era la malaria e che presto devono partire.
Il pomeriggio passò, aspettiamo i che tornino dalla libera uscita e mi metto al principio del corso. Dopo una mezz’ora che aspettiamo, mi vedo davanti l’amico Tondulli che mi corre incontro e mi abbraccia.
«Tutto a posto a casa?» «La salute ottima!» «Sì? Bene!» «Allora andiamo a prendere i pacchi, che sono là alla trattoria». Andiamo a prendere i pacchi e torniamo in caserma, con tutta la gioia dei compagni. Intanto, l’amico Fiocchi, che già aveva saputo del mio arrivo, mi viene a cercare, anche lui contento: gli consegno la valigia e mi ringrazia; anche il Pozzi aspetta, vado a cercarlo e poi gli consegno il pacco della sua mogliettina. Intanto eravamo sicuri della partenza ignota e il 17 agosto sono al mio posto. Passa un giorno, ne passano due, ci siamo preparati per la partenza, il mattino del 22 agosto ci affardelliamo la nostra bicicletta e si parte per Durazzo. Siamo a Durazzo, fa un caldo da pazzi, siamo al porto, lasciamo le biciclette e cammina, cammina per una bell’ora: ci han portato lontano dal porto perché le navi non erano pronte. Aspetta e aspetta. arriva il tramonto e lì dobbiamo dormire. Per fortuna andiamo a dormire sotto un fico e la notte passò. Al mattino, aspettiamo i nostri ufficiali che ci vengano a prendere e finalmente alle undici è giunta l’ora per andare al porto. Pian piano incominciamo a salire sulla nave Quirinale[1], tutto è caricato, sono le sedici, la nave leva l’ancora e parte. Tutta la notte si marciò, ma già dalla partenza si vede che il percorso non era quello che avevo fatto io pochi giorni prima. Si fa giorno, il mare è calmo, tutti tranquilli contempliamo le montagne che si vedevano a poca distanza.
Sono le quattordici del giorno 23 agosto. Siamo a Spalato, bella cittadella e subito mando notizie alla sorella. Tutti siamo a terra, ci prendiamo la nostra bici e seguiamo i nostri ufficiali. Se c’è un posto brutto, ci mettono i bersaglieri. Aspetto un po’ di qui e un po’ di là, è notte e non sappiamo ancora dove dormiamo. Comunque là c’è un angolo, ci siamo messi a fare la tenda e abbiamo riposato sotto un altro fico.
Giorno 24 agosto, caffè niente, alle dieci arriva l’ordine di fare la tenda, facciamo la tenda e aspettiamo un po’ di rancio: almeno quello speriamo che ci sia. Intanto passò anche il pomeriggio, viene l’ora della libera uscita, ma per andare in città c’è un bel pezzo di strada, così non esco, tanto è tutto nostro guadagno. Il giorno 25 agosto a sistemarci un po’ e anche quello passò. È l’ora della libera uscita, c’è un ordine che nessuno poteva uscire, per essere tutti di servizio. Andiamo bene! Per la prima sera ci prendiamo la bicicletta e le armi, sono le ventuno e fino a mezzanotte si pedalò. Andiamo a fermarci in un piccolo paesetto, tutti abbiamo sete, troviamo un pozzo e tutti beviamo, chi aveva la borraccia la riempì. Poi andiamo a mettere a posto le armi: «Qua va bene, batti la montagna, là e là.» Poi il tenente partì a mettere a posto le altre squadre. Ritorna il tenente, mi raccomanda il servizio e va.
Si fa al giorno, già qualche campagnola passa con il carrello carico di roba e alcuni di noi vanno a fare la raccolta d’uva. Intanto si pensava che, se stiamo ancora un po’ in questo posto, forse facciamo la cura dell’uva. Alla mattina ritorna l’altra squadra e noi pronti seguiamo, prendiamo la nostra bicicletta e torniamo al nostro accampamento, prendiamo il caffè e poi andiamo a dormire. Suona l’adunata e ci alziamo a prendere il rancio e poi giù ancora a dormire. Sono le sedici, c’è l’adunata dei graduati e dei sottufficiali: cosa ci sarà? Ci furono tante raccomandazioni del comandante di battaglione, perché in quel periodo qualche graduato era stato punito. Quella giornata passò, il giorno seguente ancora di servizio, però andiamo in auto, forse andiamo un po’ meglio. Tutta la notte a fare la pattuglia e per tutta la notte a mangiare l’uva: l’uva che si mangiava in una notte era un’esagerazione. Intanto incominciarono le lamentele e le raccomandazioni dei nostri ufficiali, ma di notte eravamo tranquilli che nessuno ci disturbava.
Giorno 30 agosto. Altra adunata di battaglione, altre raccomandazioni: le donne. Va bene! Anche qua andiamo bene! La notte del 2 settembre fu una notte da ricordare per cent’anni: quattro ore continue sotto l’acqua, un temporale che sembrava cadesse il mondo! Passato il temporale, adunata nelle vigne e giù dell’uva. È giorno, torniamo al nostro accampamento e troviamo tutte le nostre tende a terra, con la paglia tutta bagnata: ebbene, in qualche modo l’abbiamo arrangiata. Giorno 4 settembre, facciamo il trasloco dove era accampato il XXXI battaglione, più vicino alla città e più comodi con l’acqua. Giorno 10 settembre, un plotone era di guardia alla centrale elettrica e tutti borbottavano, ma, appena lì, tutti contenti del posto e del servizio minimo. Tutta la notte fuori in pattuglia attorno alla centrale, ma tutta la notte anche a mangiare uva. Di giorno sempre nel baracchino, dove la signora… ci preparava quanto si desiderava. Il Giorno 14 settembre, tutto tranquillo, stavo al baracchino per passare qualche ora con la signora e arriva il cambio dopo un quarto d’ora che ero là: l’unico rimedio è portare pazienza! Saluto la signora, prepariamo la nostra roba e ritorniamo al nostro accampamento. Radio gavetta diceva che si parte, che andiamo via, ma tutti i giorni siamo all’istruzione ed il nostro Moricca[2] ci veniva a trovare proprio durante l’istruzione, la bestia feroce! Ma a noi fa rabbia, tutte le notti, la raccolta dell’uva nella vigna davanti alla tenda. Giorno 17 settembre, si prepara tutto e si parte da Spalato: la nave Quirinale, la vecchia carcassa, ci porta a Ragusa.
Il giorno 18 settembre siamo a Ragusa, tutto scaricato, ci prendiamo le nostre biciclette, andiamo a farci la tenda in paese, vicino alla cascata. Si trovava di tutto, vino e mangeria. Ma il giorno 20 settembre ci prendiamo di nuovo la nostra Balilla e andiamo a Srebreno: per il momento abbiamo fatto due viaggi prima del rancio per prendere tutte le biciclette dei compagni in licenza e, dopo il rancio, bisogna fare la tenda perché i locali per accantonarci non erano sgombri. Dopo il secondo rancio, tutti di servizio alla spiaggia con sei uomini: per fortuna non fa freddo, altrimenti passarci tutta la notte… Giorno 22 settembre. Andiamo accantonati e tutti eravamo tranquilli, a posto nelle nostre stanzette sempre in ordine, perché Moricca, di tanto in tanto, faceva la sua scappata. Il giorno 28 un plotone passa aggregato alla seconda compagnia: chi ci va? Il primo plotone! Accidenti di qua, accidenti di là! Beh, andiamo, alle diciassette siamo a Ragusa Vecchia, chiamata Cavtat, un paese più bello di quello non so dove trovarlo,[3] dove c’era di tutto: cercando si trovava anche la fidanzata! In più c’era la cura dei fichi, tutte le notti di pattuglia e di saccheggio, la scorta non mancava mai. Nell’albergo proibito con pochi dinari si mangiava bene, ma la nostra vergogna era che tutti ridevano di noi per le continue adunate, istruzioni e corsa.
Il bel giorno dei santi, 1° novembre, si va a fare la marcia in bicicletta. Si parte, piove, sedici chilometri di strada brutta, ma brutta, già le ginocchia bagnate, siamo al posto che dovevamo raggiungere e si mette a venire giù a più non posso. La strada per la maggior parte era in salita e, per fortuna, mi è venuto in mente di cambiare il rocchetto, così posso faticare un po’ meno, ma ormai l’acqua usciva dalle scarpe. Arriviamo all’accantonamento, c’è l’adunata per il rancio, con il buon cuore del nostro ufficiale bisogna prendere il rancio tutti bagnati, senza cambiarci. Pazienza, è il giorno di santi del 1941.
Il giorno 12 novembre salta fuori la faccenda bella botte di vino di Spalato, con un amico caporalmaggiore innocente che venne degradato. Il giorno 23 c’è il passaggio alla sesta compagnia, il 26 si prepara tutto perché dobbiamo partire, con il dispiacere degli innamorati, per il 27, dopo il rancio, ritorniamo nella nostra compagnia a Srebreno. Il giorno 29 novembre partiamo da Srebreno e andiamo a Ragusa a prendere il treno e arriviamo a Trebigne: lì sembrava che i ribelli dovessero farci la pelle, ma, siccome dice il proverbio “nulla resiste al bersagliere”, non ebbi la fortuna di conoscerne uno. Siamo nella caserma, ci sono subbugli per il rancio a confronto con gli altri corpi, ma in pochi giorni si vede un miglioramento.
1° dicembre in postazione nel fortino del posto di blocco, giorni belli ma sempre con il servizio: quindi le donne venivano a prenderci in giro, trovandosi poco lontano da noi e una volta dopo due anni è …[4] anche quella. Il giorno 11 dicembre rientro in caserma in attesa della puntata,[5] il giorno 12 l’arrivo del nuovo colonnello[6] e del comandante del battaglione.[7] La sera del 14 ordine di partenza per la puntata e alle sette del giorno 15 dicembre si parte per la puntata. Alle dodici siamo giunti al forte, a quota 1036, per tre giorni in caserma, tutti all’aria aperta, e per fortuna che c’erano i muli che ci portavano il rancio, altrimenti… Il paesetto dove incontrammo resistenza fu distrutto dall’artiglieria. Giorno 18 dicembre, bisogna scendere sotto la pioggia, siamo a quota 828, ci fermiamo lì, allora facciamo in un qualche modo la tenda e la postazione dell’arma. Al mattino i coraggiosi che sono allontanati a cercare qualche cosa da mangiare ritornarono con tre galline: forse oggi non ce la possiamo male, tre galline in otto, ci si può soddisfare, per una volta. Giorno 21 dicembre, si spianta tutto e avanti, sempre camminare, montagne, mulattiere e di tutti i colori. Alle quattordici ci siamo incontrati con i croati che venivano da Bileca. Riunendosi tutto il battaglione sulla strada, ci trovammo davanti a un generale della milizia e poi, seguendo per la strada, alle venti siamo giunti a Bileca, con la caserma circondata dai ribelli: per fortuna riuscivano a portarci da mangiare, altrimenti i cavalli andavano tutti al macello. Di caserme misere come quella non se ne trovano più.
Sapevamo che il nostro compito era di fare la puntata e accompagnare la colonna a Bileca. La bella Vigilia di Natale, una bella giornata, ma fredda, tutti eravamo arrabbiati pensando di passare Natale rinchiusi in quella brutta caserma. Sono le quattordici e arrivò l’ordine di rientrare a Trebigne. Dieci minuti, tutti pronti, l’unica volta che il primo plotone è fortunato, andiamo in autocarro, e il secondo va a piedi, di scorta all’autocolonna. Sono le quindici, siamo in viaggio, era un bel numero di chilometri e, andando al passo, si faceva il conto che saremmo arrivati arriviamo alle dieci di sera. Per fortuna nessun incidente, poi, a una decina di chilometri da Trebigne, l’autocolonna lasciò la scorta a marciare a più non posso; andò ancora bene e alle diciannove eravamo a Trebigne. Subito allo spaccio a penderci qualche cosa, almeno per ricordarci la Vigilia di Natale; intanto arrivarono tutti i compagni e poi abbiamo avuto il rancio. Di nuovo allo spaccio mi sono preso una sbornia di quelle a numero 100. In quei giorni ho avuto il pacco che mi portò l’amico Tondulli.
È il Santo Natale, tutti speranzosi di andare a messa: al contrario, viene il nuovo colonnello a trovarci in camerata con quelle belle frasi e, dopo un’ora, venne l’ordine di partire. Alle quindici tutti pronti per partire, in rango con le biciclette, le nostre borracce piene di vino, ma arriva un contrordine e non si parte. Un attimo ancora a prendere la paglia, a rimetterla ancora nei pagliericci e intanto il tempo segnava male. Il tempo era nuvoloso e il mio pensiero era di avere le scarpe tutte rotte e di cambiarle, ma non c’era verso; comunque, questa notte la passiamo qua a Trebigne. Giorno 26 dicembre, una giornata tremenda con vento e neve, ce n’erano per terra già venti centimetri, già prima di uscire mi sembrava di sentirmi i piedi bagnati, eppure bisogna andare. Prendiamo le nostre biciclette e avanti march! Faccio tutto il mio possibile per stare in bicicletta il più che potevo per non bagnarmi i piedi ma, appena fuori dal paese, la neve era abbondante e in bici non si poteva stare, perché il vento ci buttava giù e la neve impediva il cammino: per forza bisognava bagnarsi i piedi. Tutta la giornata si camminò, sono le sedici, siamo alla stazione dei disastri T32, tutta frantumata. Il primo plotone deve andare con la seconda compagnia e, avanti dopo un mezzo chilometro, troviamo la strada rotta: un quarto d’ora tanto per passare e l’abbiamo arrangiata. Avanti, dopo 500 metri, altro tratto rotto, ma lì si passò; attraversiamo la ferrovia, ma tutta la strada è per aria. Allora torniamo indietro e passiamo dalla ferrovia, dove troviamo la macchina[8] piantata in terra, e, dopo un’ora di cammino, siamo arrivati all’altra stazione: la compagnia si mise nelle belle stanzette e noi disgraziati nella soffitta. Con un freddo cane e senza rancio, la notte passò, ma fu tremenda, dormire niente. Al mattino arrivò prima il rancio che il caffè, ma interessandoci, cercammo di andarlo a prendere, essendo stata riparata la strada. Al pomeriggio una squadra deve andare in postazione e, per non discutere, facciamo il sorteggio: la prima squadra va a quota 621 e si fa la tenda e la postazione e noi andiamo giù in cantina, cercando un po’ di paglia da metterci sotto e passando una notte in paradiso con un dolce riposo.
31 dicembre 1941.Viene l’ultimo dell’anno, il vento era come un gioco e sessanta centimetri di neve. Aspettavamo che venisse il rancio e poi andare sopra a dare il cambio, ma, dal cattivo tempo, il rancio non veniva mai. Poi arrivarono quattro paia di scarpe, riuscii ad averne due paia per la squadra e uno me lo sono messo ai piedi. Intanto il tenente mi dà l’ordine di andare a dare il cambio. Andiamo e la prima cosa fu di fare una bella scorta di legno e avanti. Il sentiero era appena segnato, ma dopo un quarto d’ora eravamo al posto, il fuoco era già acceso, su della legna, ma il male era, per essere l’ultimo dell’anno, di non avere la borraccia piena di cognac o di grappa, dato che di vino non se ne trovava. La notte passò, al mattino due bersaglieri partono decisi per andare a vedere in quei paesetti e ritornano con una gallina: la padella e l’olio c’erano, la gallina dopo dieci minuti era nella padella, andiamo a prendere il rancio, intanto la gallina sarà cotta, andiamo dal cuciniere a farci dare un po’ di conserva, ci prendiamo il brodo, la carne, un panettone, delle noci e andiamo di sopra; con un po’ di brodo si fece una bella bagnetta[9] e poi giù tutti attorno alla padella. Così ricordiamo il primo dell’anno 1942: dopo il nostro panettone, il nostro gavettino di vino, una balla prende l’altra, venne l’ora del cambio senza accorgercene e torniamo alla nostra cantina.
Il giorno 2 gennaio 1942 viene l’ordine di partire. Alle nove tutto era pronto, un freddo da cane, aspettiamo il treno, che arrivò alle undici. Appena caricato tutto, si parte; arrivati alla stazione, tutti i nostri compagni erano già partiti da Hum. Il treno prosegue e andiamo a fermarci a Bergat[10], si scarica tutto, arriviamo alla cucina, rancio per noi non ce n’è, ma per fortuna ci hanno dato il pane. Capito bene, capito male, ci siamo fermati lì. Ma non era il nostro posto e così, dopo una mezz’ora, torna l’ufficiale tutto arrabbiato, chiedendoci perché non l’abbiamo seguito: ma lui non sapeva che noi dovevamo ancora aprire bocca! Beh, l’unico rimedio è sempre il silenzio e andiamo avanti, ma noi, mai più, pensavamo di dover andare a fare la tenda e a fare la postazione. Dopo due chilometri siamo al nostro caposaldo, ormai era il tramonto, ma pane non avevamo più, una fame accanita e dobbiamo ancora farci la tenda! Andiamo proprio bene! Ma ecco la decisione: il trave che era là lo prendiamo noi e così, in una mezz’ora di lavoro, la tenda sarà fatta, tanto la luna ci accompagna con la sua luce. Non è finita ancora la tenda che arriva il rancio, due vanno a prendere il rancio, due erano andati a prendere della paglia, l’hanno trovata e la tenda in un qualche modo è fatta, quattro coperte e speriamo di non avere freddo. La stanchezza mi permise di allontanarmi ancora per cercare della legna. Andiamo sulla strada, c’è una baracca, tric-trac, una carga[11] per uno. Un po’ noi, un po’ gli altri e la baracca è ridotta alla fine, legna bella secca che bruciava che l’era una bellezza! Ma dopo due giorni venne un bell’addebito di 40.000 kune.[12] Andiamo bene! Si protesta, ma la colpa era la nostra e c’è anche da pagare, ma almeno ci siamo scaldati.
Giorno 4 gennaio: si mette a nevicare e ne viene giù più di mezzo metro: andiamo bene! Al mattino subito si va a buttar giù la neve dai teli, altrimenti… La notte seguente si buttò in acqua evento, sembrava che portassero via la tenda, i muri erano sottili, il vento soffiava dentro che l’era un piacere. Giorno 6 gennaio, i tre compagni partirono in licenza, all’8 gennaio rientrarono dalla licenza il bersagliere Pissinis e il Randazzo. L’unico divertimento era la lisca,[13] tutta la notte sotto la tenda. Il giorno 12 gennaio i ribelli volevano venire a prenderci l’arma, ma l’arma rispose al fuoco e fu così per tutta la notte. Tutti erano in allarme, nessuna novità,[14] ma il colonnello venne a trovarci. Giorno 20 gennaio: un bel cielo stellato, un vento da matti, qualche ubriaco dormiva sotto la tenda, si sveglia l’ubriaco, passa accanto al fuoco e ci lascia sopra il sacco che faceva da porta: un attimo e la tenda è in fiamme. Tutti balzano fuori dalla tenda, io solo con la coperta a spegnere il fuoco, il fuoco è spento e la notte passò con un freddo da cane. Al mattino ancora freddo, già era passata l’ora che il tenente, tutte le mattine, veniva a fare il suo giro. Lì mi decido, quattro parole da cattivo e in poco tempo tutti erano al lavoro, ricominciando la tenda dal principio, così alle due la tenda era finita. Sembrava davvero una casa, con tutte le nostre tende attorno e la nostra bella paglia: ora ci andrebbe una bella stufa. Guerriero fa: «Domani mattina facciamo anche la stufa.» All’ora del rancio del giorno 21 già la stufa era rossa: ora siamo a posto: questa notte, caro amico, dai il fuoco ancora alla tenda… Poi discussioni che non terminavano più.
A Trebigne feci il mio rapporto per la croce di guerra e lì, il giorno 25 gennaio, mi fu consegnata. Intanto erano già sei giorni che cadeva acqua, sembrava di essere alla doccia. Ma, dal giorno 10 che abbiamo fatto il bagno, ora siamo quasi disposti a farne un altro. Il giorno 27 prepariamo tutto e si parte anche lì, andiamo a Ragusa. Già il treno per noi è pronto, andiamo a prendere le biciclette e tutti andiamo sul treno, il Pissinis trovò un suo amico e, per averlo nella partenza, dovetti portarlo sul treno. Matteo aveva una piomba,[15] ma di quelle proprio belle. Sono le ventidue, la tradotta parte, tutta la notte si viaggia, sono già le nove del 28 gennaio e siamo a Mostar: un freddo come quella mattina non sapevo di averlo mai sentito. Con sua comodità, andiamo in una caserma, che, a girarla tutta, ci andava mezza giornata; andiamo a metterci nella piccionaia e fortuna che subito distribuirono altra roba di lana.
Il giorno 29 gennaio ricevetti la lettera della sorella e, così disperato, risposi con cattive frasi. Già avevo pensiero del mio incontro. Il 30 gennaio era il mio compleanno: mi trovo davanti l’amico Ezio e poi anche mi trovai con Chiarini, Angioletto e il Pep. La vita di Mostar era cara, ma bella. Per quattro giorni nessuno mai ci aveva disturbato, al quinto tutta la compagnia era di guardia e Dante va di guardia con dodici uomini alla polveriera esterna: tutta la notte un vento che buttava a terra anche la garitta. Ritorno della guardia e trasloco nelle casermette, mentre già i nostri compagni erano fuori a fare la puntata. Il giorno 7 febbraio si doveva partire, ma un contrordine ci fermò perché la strada era bloccata dalla neve. Il giorno 8 arrivano 1874 kuma di arretrati, alle nove si parte da Mostar, ancora la testa girava dalla sera prima con la sbornia presa con l’amico Matteo, sono le quindici e siamo a Jablanica. La pioggia ci accompagna che l’è un piacere, in più abbiamo anche il pagliericcio e sedici cassette di munizioni, tre viaggi per uno per averci tutta la nostra roba vicino, ma col tramonto eravamo a posto, tutti accantonati. Formandosi la pioggia, la neve era già diminuita, ma più di mezzo metro c’era ancora. Poi, invece di acqua, tutta neve che, al mattino del giorno 5 febbraio, era alta un metro e trenta.
Giorni 19 e 20 febbraio, la birichinata degli esami. Alla domenica tutta la serata a ballare con le belle ragazzine del paese e, i giorni 2 e 3 marzo, a farci le foto. Il giorno 8 c’è l’uscita dei risultati degli esami, ma, per me, già sapevo, la sorte nema vista[16], però contento che, per la quarta, la legge è uguale per tutti. Giorno 10 marzo: ho fatto il bagno sopra, nella piccionaia, per liberarmi un po’ dai pidocchi e farmi un po’ di pulizia. Al mattino l’amico Romano partì in licenza, portandosi le foto da dare alla sorella, al suo arrivo a Milano. Il pomeriggio venne l’ordine di partenza e la novità di radio gavetta[17] era poco gradevole, ma l’abitudine e il coraggio, “la vita e breve” e il passato, tutto si deve dimenticare. Ci fu un ordine, che poi venne sospeso per l’aiuto dei nostri superiori. Giorno 16 marzo di guardia al presidio, ma nel corpo di guardia non si poteva dormire, così tutta la notte a giocare a domino e, nella giornata, l’affare della tabella e la scorta del pane. La sera di San Giuseppe facciamo la baracca con gli amici Rovati, Monti e Pozzi:[18] anche in guerra, con la volontà, di tutto si può fare.
I giorni passavano, tutti i giorni a fare della pulizia attorno al forte, tanto per tenerci l’appetito e, per la sicurezza e la difesa della caserma, tutto attorno a tenere le postazioni. La sera del giorno 20 marzo la discussione dei sottufficiali in licenza. Giorno 24 alla stazione con sedici uomini a scortare tre vagoni di armi e un giro di vino: per niente non si lavora! Il 25 si ripete la notizia della speranza dei compagni del comando, ma, aspetta e aspetta, e intanto i giorni passano. Arriviamo al giorno 28 che non ancora mi è data la risposta della lunga lettera inviata alla sorella, per la discussione di tutti i torti fatti dal nostro comando. Intanto passarono giorni cattivi e inquieti, pensando a tutte le cose scritte su quella lunga lettera.[19] Alle ore pari, tutti di pattuglia per Jablanica, a farci prendere dai ribelli per abitudine, almeno siamo sempre in allenamento! Nel rientro, alle cinque del mattino, la visita al forno, ma il pensiero era sempre alla posta. Per fortuna, in quella mattina arrivò alla posta e, di tante lettere, c’era anche quella tanto desiderata: niente di male! Ho almeno un po’ di tranquillità. La tristezza e la rabbia erano sempre le solite, ma almeno da quella parte potevo levarmi quel pensiero. Fu consumato il rancio e, dopo pochi minuti, già danno l’ordine i nostri ufficiali di fare subito i sacconi dei bottini e si parte. Appena tutto fu caricato, la pastasciutta fu pronta e poi giù alla stazione, al carico delle bestie, ma per fortuna questa notte abbiamo le vetture comode. Verso le diciassette il treno partì: sapevamo già dove si andava e pressappoco l’ora che si doveva arrivare. Sono le dodici e venti e siamo a Mostar. Il tempo era brutto, così tanto che c’era un vento che buttava per terra. Là c’era l’amico Tondulli che ci aspettava, per farci vedere la camerata dove dovevamo ripararci. In pochi minuti siamo giunti al posto, ma per questa notte siamo al duro, i pagliericci sono alla stazione.
30 marzo mattino, caffè nema vista, perché la cucina era ancora alla stazione. Alle tredici il rancio con formaggio, mentre le razioni d’avanzo le teniamo qua, tanto, male non vanno. Il giorno 31 ancora di giornata, ma ricevetti tanta posta, ancora formaggio e replica con l’avanzo. Pomeriggio, adunata del battaglione, tanto per rinfrescarci la memoria di quello che si sapeva già, di quello che si doveva fare nelle famose puntate contro i ribelli. Di ritorno, adunata in camerata la interminabile lettera del nostro bravo capitano[20], la sua passione delle donne, con tutte le raccomandazioni.
1° aprile, tutti quanti sui camion, l’auto colonna parte e siamo giunti al paese di Stolac alle dodici, sempre Croazia, tra montagne e sassi non si vede niente altro di bello, se non un bel frutteto tutto fiorito. Qualche Giarganese fuori al pascolo con le pecore e basta. Giunti davanti alla caserma, l’autocolonna si fermò e subito fu segnato il posto per fare la tenda, che in quattro e quattr’otto fu fatta; alle quattordici il rancio e poi a riposare, alle diciannove il secondo rancio e intanto le raccomandazioni precise per la partenza verso i ribelli. Le tende si lasciano fatte, prendendoci solo la mantellina e il tascapane con il necessario, un po’ di scorta di pane e formaggio: quindi, se è il destino, faremo anche questa, ormai è tutta abitudine.
Giorno 2 aprile: alle sei si parte, l’unica volta che parto un pochino leggero, perché la canna la prende in consegna l’attendente: meno male, basta non mi capiti qualche cosa, ma quello è l’ultimo pensiero! Avanti tutti tranquilli e sereni. Il tempo era così e così, strada facendo qualche coccinella scappava, ma in poco tempo si ristabilì e avanti. Ai lati della strada non c’è altro che montagne e sassi. Troppo bello sarebbe stato camminare sulla strada! Dopo un sei o sette chilometri si riparte, alpini, fanti e bersaglieri lasciarono la strada e incominciarono a prendere la formazione verso il nemico, su e giù per queste belle montagne rocciose. Dopo qualche ora di cammino, sempre i nostri compagni, non tanto, ma un pochino davanti a noi; tutto era in silenzio, si vedono parecchie vacche e un cavallo, alcuni lasciano le armi e si allontanano per prenderli e subito si misero al macello: l’abitudine dei bersaglieri e poi anche la fame. Nel momento più tranquillo arriva una scarica di pallottole che fischiavano a più non posso: fu un fulmine vedere i compagni al loro posto e agire da veri combattenti. Il pericolo c’era, ma bisogna andare avanti e allora andiamo avanti, ma la nostra abitudine era fucilieri davanti e mitraglieri dietro, invece, ad un certo punto, il nostro tenente ci manda davanti ai fucilieri: «Schiavi, devi andare là!» «Signor tenente, siete un ufficiale e non rifiuto ma…» Arrivo poi là il treppiede, arriva il porta arma, sta per mettere l’arma nel treppiede, poveretto Formica,[21] arriva una pallottola che gli passa il braccio destro e lo ferisce leggermente alla coscia destra ma, col suo impeto coraggioso e con uno scatto, viene al riparo. Allora, con mio dovere, prendo il coltello, taglio la manica del poveretto e vedo il buco che la pallottola ha fatto al compagno; prendiamo i pacchetti di medicazione e leghiamo il braccio per bene, il compagno si lamentava del braccio, speriamo che non abbia toccata l’osso e poi non è niente di grave. Intanto furono chiamati i portaferiti con la barella per portare giù il compagno. Saluto il compagno e poi tutti torniamo al nostro posto.
Intanto giunge il portaordini, con l’ordine che si doveva andare avanti e dicendo che alla seconda compagnia ci stavano quattro feriti e un caporalmaggiore morto. Andiamo avanti e vediamo finalmente i ribelli che scappano: immediatamente una sparatoria da pazzi e in un attimo furono tutti bruciati, quei malvagi zingaroni[22], e sempre avanti. Erano le quindici e sempre montagne: la nostra passione. Si fa notte, ci fermiamo e, con tutto il battaglione, si formò un caposaldo. Da coprirci avevamo solo la mantellina, ma per questo subito ci fu il rimedio e dopo due ore tutto il caposaldo era un fuoco. Passammo quasi tutta la notte attorno al fuoco, con qualche scarica di mitraglia di tanto in tanto e la notte passò. Siamo il mattino del 3 aprile, il nostro compito è andare avanti. Il battaglione prende formazione e avanti. Tutto tranquillo e quieto, finalmente siamo giunti alla nostra quota. La stanchezza era già sopra i capelli e là ci fermiamo un po’ di tempo: c’era un bel sole, tenevo ancora una mezza pagnotta con l’ultimo pezzo di formaggio e me li mangio. Con quel sole caldo e la stanchezza, a tutti venne di provare a farci un bel sonnellino, col favore del tempo opportuno. Poi viene l’ordine di ritornare, pensando che anche nel ritorno si doveva attraversare tutte quelle montagne già passate, ma, sebbene stanchi, con la voglia del ritorno, quello era l’ultimo pensiero, specialmente ripensando al giorno prima. Erano le tredici, mi prendo la mia arma[23], quasi diciannove chilogrammi, e si ritorna. Sulla strada c’era l’auto colonna che ritornava vuota e attorno agli autocarri c’era attaccato un buon numero di bestie, prese nelle campagne dei bastardi[24] e si ritornava. La sete c’era per tutti, per fortuna troviamo una cisterna e lì tutti, con la gavetta e un pezzo di corda, a prendere l’acqua, tutti a riempirci la borraccia. Tratto per tratto, andiamo avanti, le spalle incominciarono a far male e bruciare, ma che ci possiamo fare? Tutto è nostro coraggio: anche da qui forse l’abbiamo scampata!
Siamo in un posto boscoso, il sentiero stretto davanti, c’è il tenente Pecchi, comandante del plotone. Tutti si camminava con una certa attenzione, ma, improvvisamente, un colpo: mi arrivò una ramata sotto il naso, che mi fece da ricordo della puntata di Stolac. Qualche goccia di sangue, ma cosa da niente. Ora che il male è fatto, se n’è accorto anche il tenente, che ci fa stare un po’ lontani l’uno dall’altro: va bene, grazie. Finalmente, dopo tanto, ritorniamo sulla strada e il coraggio divenne allora il doppio della stanchezza. I carri veloci passavano in mezzo a noi[25]. Ogni tanto qualche minuto di riposo e arriviamo a Stolac. Erano le venti, si entrava nel paese e tutti i Giargianesi[26] e le guspodizze[27] fuori a guardarci. Dopo poco tempo viene dato il rancio, intanto troviamo il tempo di metterci a posto le nostre coperte, che erano state ammucchiate tutte assieme sotto la tenda. Il rancio era freddo perché era fatto dal mattino, ma, con l’appetito, tutto era buono. La notte passò e, al mattino del giorno 4 aprile, la sveglia, il nostro caffè e poi a lavarci nel fiume che ora ci scorreva davanti, passando sotto il ponte dei sospiri.[28] Quel mattino tutti facevano il macellaio. Dopo mi interessai del pranzetto e riuscii ad andare a trovare Formica, trovandolo discretamente bene, sebbene da poco tempo avesse subito la medicazione. Salutai l’amico e poi tutti a prepararci il nostro fardello per ritornare a Mostar. Dopo il rancio, alle tredici e trenta, la colonna parte. la giornata incominciò a farsi brutta, piovigginosa, la strada era stretta e brutta e ad un bel momento ci troviamo davanti, in una curva, un autocarro rovesciato, quello del quarto plotone della nostra compagnia. Fortuna vuole, nulla di grave; c’era sopra anche il nostro capitano, ma con ferite da poco. Coraggio, anche questa è fatta! Sono le diciassette, siamo a Mostar, giù acqua, noi dentro le nostre camerate e, dopo, il nostro rancio.
Siamo al mattino del 5 aprile, domenica, santa Pasqua. Spuntò un bel sole e si celebrò la santa messa. Il 6 tranquilli, il 7 uguale, ma già si sapeva di dover tornare a Jablanica, al paese degli jaja.[29] Giorno 8, giunti a Jablanica, verso sera ho un po’ di febbre, ma tutto passerà: sono qua sul mio materasso, al posto di prima, per male che vada. Il 9 pulizia, con l’abitudine dei bersaglieri: dove andiamo c’è sporco e bisogna pulire dove gli altri sporcano. Giorno 12 aprile, domenica, e ci fanno la puntura. Anche questa è fatta, un po’ di febbre, ma niente di male. Alla sera la nostra libera uscita, a divertirci tenere l’aratro dei Giargianesi, con la guspodizza davanti che mi sorrideva negli occhi. Troppo bello! I giorni passano e l’ansia della buona notizia sì cambiò in sottomano.[30]. Addio speranze! Il superiore ha sempre ragione! Giorno 15: si parte da Jablanica alle ventuno. Siamo a Mostar alle due del 16 aprile e fino alle sei siamo fermi. Si parte, colpo per colpo passiamo davanti al XXIX battaglione e alle quindici siamo giunti a Hum. Dopo un po’ di tranquillità, i nostri ufficiali ci hanno portati al posto dove fare in fretta la tenda. La tenda in breve su fatta, coraggio, le unghie fumano, appena mangiato me ne vado a dormire, perché la notte scorsa, su quei vagoni da bestie, non dormii. Già sapevamo che quello non era il nostro posto e così giunse il 17: via la tenda dopo il primo rancio e, con i nostri muli a portarci l’occorrente, andiamo al paese dei ribelli. Di bello c’erano il canto dei galli e il ponte dei sospiri[31]. In poco tempo la tenda più fatta, nella prima tenda si entrava in piedi e anche dietro ci si stava, con il nostro pavimento di tavole e la nostra scrivania accanto alla feritoia che guardava il ponte. Perché fu chiamato “ponte dei sospiri”? Perché i bastardi, che stavano nelle case sopra, vedevano tutto e non volevano che si andasse al di là del ponte; così, se uno andava di là, c’era subito il tacpump[32] e poi, per poter ritornare, erano sospiri. Per me giorni lunghi, ma più tranquilli di così non potevano essere. Il mio lavoro era scrivere a chi mi ricordava e anche fare da sarto[33]: basta trovare qualche cosa per far passare il tempo.
Il 21 aprile un bel sole spuntò e mi viene in mente di aggiustare il pavimento: parto, attraverso il ponte, mi prendo una bella tavola, la butto sul ponte e vedo una pecora dietro la casa. I compagni, giù dall’altra parte, mi dicono di prenderla, mi giro, due passi, mi prendo la pecora e la tavola e ritorno: niente tacpump! Il bersagliere Rossanino subito fa la festa alla bestia e noi a finire il nostro lavoro. Non so il motivo perché diversi compagni si allontanarono al di là dal ponte ma, te lo dico io, incominciò il tacpump e ritornare di qua fa caldo! Una scarica della nostra compagna Breda, si fece silenzio e i bersaglieri ritornarono sani e salvi. Dopo pochi minuti, viene il furiere della prima compagnia a portarci un bel biglietto con sopra scritte le consegne e così passò anche i 21, sebbene i conducenti vennero a portarci i viveri senza belle notizie. Coraggio, tutto è abitudine alla vita degli zingari! Il giorno 22 la pecora bollì più di quattro ore nella pentola, ma, per conto mio, per buona che sia, se fosse veleno, non morirei di certo. Il tempo noioso, sempre qualche goccia, un po’ di vento e il tempo non passa mai. Non si sa cosa proprio cosa fare per far passare il tempo: l’unica cosa divertente sarebbe sparare nel fiume o contro la montagna, ma sprecare delle munizioni inutili non è altro che essere fessi, le munizioni costano! Ebbene, con la pazienza il tempo passa e, giunti al 9 di maggio, sono la bellezza di trentadue mesi[34] che solo lontano da Stradella, la cittadella nativa. Speriamo sempre di ritornarci ancora e poi tutto è passato e non ritorna più. Il 23, il 24 e il 25 passarono con qualche tacpump, altre novità niente di nuovo, la sola cosa più bella per noi da vedere erano le montagne e, principalmente, leggere la posta, essendomi anche giunta una cara lettera e la bella foto della gentilissima madrina Lilia. Passano i giorni lenti, lenti, rinchiusi in quel caposaldo, il lavoro pesante di una giornata era quello di saltare il muretto e di andarmi a lavare al fiume, niente altro. Mi giunse anche la lettera di Sant’Antonio.[35] Giorno 26: dopo la faccenda delle pecore e del tacpump, il comandante continuava a circolare con i suoi soliti biglietti. I giorni sembravano più lunghi di una settimana, la vita da zingaro, mangiare e dormire. Coraggio, la vita è bene, tutto si deve dimenticare! Qualcuno mi amerà senza che io lo sappia e, se è destino, finirà anche la guerra e torneranno ancora quei bei tempi passati!
Giorni 27, 28 e 29 Aprile 1942. Sempre al ponte dei sospiri[36], sfugge il ricordo della posta, con tutta l’ansia arrivò, ma per me nema vista. 28, l’asino nella pentola e la verdura nell’aceto, con la borraccia di vino. 29, pioggia e inquietudine sul tempo e le ore che non passano mai. Dormire non si può, bisognerebbe avere la nona[37] e svegliarsi alla fine della guerra, cosa è impossibile al mondo; coraggio, pazienza e viene anche l’ora del rancio.
Giorno 30, ultimo di aprile. Vengono i conducenti a portarci i viveri e la posta: o tutto o niente, otto tra cartoline e lettere. Meno male! Erano le venti e trenta, ormai il pensiero anche oggi era passato, ma un bel momento si vede un fuoco sopra una montagna, poi là un altro, là un altro ancora e poi su tutte le montagne. Quei bastardi di ribelli hanno festeggiato la vigilia della loro festa e poi si facevano la loro cantata, dopo aver messo in fiamme tutte quelle frasche ammucchiate, mentre noi stavamo a guardare e di tanto in tanto si sentiva qualche tacpump.
E così venne il 1° maggio, carico di pioggia, che quasi tutto il giorno continuò, un po’ sì e un po’ no. 2 maggio, pioggia tutto il giorno e dover stare sotto la tenda tutto il santo giorno, quasi non poter avere il tempo di andarci a lavare la faccia. 3 maggio, altra giornata di pioggia. Alle quattro arrivò il cambio alla prima compagnia, noi ancora lì e la posta non arrivò. I ribelli hanno fatto saltare la fureria, ma in una ventina ci ha lasciato le penne. Sempre coraggio, tutto andrà alla fine. Il giorno 4 anche lui passò. Il 5 una giornata con un po’ di vento ma con un sole magnifico. Una pattuglia uscita ad esplorare aveva trovato un cavallo e quattro pecore e i furbi della montagna spararono tre tacpump, tanto per dirci “siamo ancora qua”. Ma gli animali non li mangiano più loro, bensì i bersaglieri! In attesa che venga il cambio, aspettiamo il giorno 6: basta la salute! Giorni 7, 8 e 9: giornate bellissime e sempre la solita vitaccia del dormire e mangiare pecore e asini. Giorno 10 maggio, sveglia alle sei, disfare la tenda e si ritorna a Hum: in quattro e quattr’otto tutti pronti, c’è tempo e ci facciamo anche la barba e poi, a quattro dinari, la passione di Bucci.[38]
Alle nove e trenta ci mettiamo in cammino, i compagni furono salutati e alle undici siamo giunti alla stazione di Hum, credendoci di dover fare la tenda; invece, ci hanno portati in due belle stanzette al bel fresco, col nostro giardinetto davanti, ché, stando a scrivere accanto al tavolino, si sentiva il profumo di tutti i bei fiori. I compagni alle tre erano già tutti ubriachi: ecco perché volevano il cambio. Sapendo che l’amico Romanò, era giunto la sera prima tenendo un mio pacco, parto, lo vado a cercare e così mi son fatto una bella chiacchierata, domandando della sorella e della famiglia Nagel: un giorno di felicità, ricevendo anche tanta posta. Giorno 11 maggio, la puntura. Accidenti anche alla tintura di iodio, ci ha fatto vedere le stelle anche di giorno! Tutto passò, pensando alla lettera del cugino Leonardo. Il giorno 12 andiamo a tagliare le frasche accanto ai reticolati, poi alla sera tutti noi sei amici a fare la merenda nel giardino, di quel poco che tutti avevamo. Il giorno 13 di giornata e le altre due squadre di scorta alla colonna, a portare viveri alla compagnia che si trovava al ponte dei sospiri. Nei giorni di liberi a raccogliere reticolati e a tagliare le frasche, sempre naia. Il 14 passò, il 15 mattino pulizia alle armi e, alla bella festa dell’ascensione, ci fu la bella sorpresa della pistola[39]: è proprio vero che, quando c’è la fortuna, non bisogna più parlare. Giorno 16 di scorta alla colonna che va a portare i viveri a Palanca[40], sempre al ponte dei sospiri. Il 17 maggio pomeriggio di scorta a prendere il ribelle a Palanca. Il 18 a tirare i reticolati con l’amico Soddu,[41] accidenti al suo ritorno, sempre coraggio, la vita è un passaggio!
Il tempo è bello, 19 e 20 maggio tutto e di passaggio. Sono le dieci, c’è da andare a fare una piccola puntatina, il caldo si fa sentire, per fortuna siamo in maniche di camicia, si parte col treno e dopo pochi chilometri scendiamo e su per quelle belle rocce e tutto è silenzio. Giunti a quota Mrnjici, tutti pronti a difendere i compagni che entravano nel paese. Niente novità, cani che abbaiavano, galli che cantavano e qualche voce di donna. Dopo un’oretta si cambia posizione, per essere in difensiva nell’altro paesetto dove i nostri compagni dovevano entrare. Si scende e tutti camminiamo, noi dobbiamo aspettare la radio e non ci fu modo di seguirla ad occhio. Nello scendere si sente sparare: era la cavalleria che stava dalla parte opposta e si seppe poi che hanno fatto due morti e un prigioniero, di quei bastardi. La colonna non la vediamo più. La nostra idea era di andare verso la ferrovia, sperando di vedere i compagni: tutt’altro, siamo soli. Con la radio chiediamo se il treno era partito per venirci a prendere, ma, per il treno che veniva da Trebigne, la linea era ingombra e aspettiamo. Fatto il fonogramma, si va avanti sulla ferrovia, incontriamo il treno, ci andiamo sopra, poi giù ancora un pochino e alla fine eravamo a Trebigne. I compagni non ci sono, andiamo indietro e non c’è nessuno; arrivati a Hum tutti avevamo un pensiero, ma tutto andò bene, i compagni sono già tutti arrivati e anche questa è fatta. Tutto bene.
Giorno 21 maggio. C’è il ritiro dal presidio di Palanca, con il cambio degli alpini di tutte le qualità. La bella novità è la lettera della Gilda: ci mancava il visto e poi siamo a posto. Giorno 22 alla quota Bais,[42] a scortare la colonna per il rientro da Palanca e poi si doveva andare nella postazione della nona squadra. Il 20, il bel tipo del sardignolo[43], per non scomodarsi lui, ha messo in testa al tenente di mandarci al posto della settima. Accidenti a tutti! Non si può mai passare un giorno tranquillo e, contento no del Calligaris, che passò al secondo plotone. Ci vuole anche quello! Andiamo là, anche qua la tenda è fatta e, alla sera giungono i complementi da Palermo[44]. La seconda e la terza compagnia vanno a prendere in presidio ad altre due stazioni col secondo e terzo plotone e qua bisogna montare anche di guardia. Sempre pazienza, le battaglie in Russia stanno incominciando, finirà anche la guerra: coraggio e fede! Il 23 è una giornata calda, ma abbiamo il bersò, con due belle gavette di riso. Il rinforzo dei palermitani e la bella giornata per allargare la tenda: giornata caldissima, in più con il gran desiderio della posta della posta, un giorno nema vista e l’altro uguale, ma, con la forza della rassegnazione, tutto conduce alla tranquillità di una persona; in più c’erano anche i reticolati. 25 maggio giornata simile, con la partenza del capitano Favilla e l’arrivo di altri palermitani. Il 26 giornata calda, da lontano si sentivano delle cannonate e pure fu così per il 27 e il 28. Il giorno 29, alla sera, quattro nazionalisti si presentarono al comando di battaglione per fare propaganda, che ripartirono il giorno 30 sulla strada di Palanca. Erano le diciotto e a distanza d’occhio si vedevano ritornare i quattro stracciati, due per due, che venivano avanti facendo la pattuglia e dopo un cento metri i ribelli, che ieri ci sparavano e oggi vengono per alzare le mani.[45] Erano in centoventi, tutte facce da delinquenti, tipi da cattivo, tutti stracciati, sporchi, ma con il moschetto bel pulito. Ebbero il loro rancio, poi su in treno e si condussero a Trebigne. Passò anche il 30 e il 31, domenica, arrivò la compagnia comando reggimentale: le radio gavetta funzionavano bene, però con tutte le illusioni che da mesi e anni si ripetono continuamente: è la musica della naia.
1° giugno. C’è la notizia della puntata nel pomeriggio. Ci prendiamo il treno e andiamo a Jasenica, per riunirci con tutto il battaglione. La notte passò sul duro terreno. Giorno 2, sveglia alle quattro e poi su per le montagne che già il 25 novembre 1941 si attraversarono, sebbene fischiassero le pallottole dei simpatici ribelli. Le voci erano che si doveva rimanere sulle montagne per tre giorni, nemmeno un’anima, nient’altro che pecore e capre e alla sera, dopo una bella bagnata di un simpatico temporale, siamo giunti a Hum. Andiamo nelle nostre postazioni, ma tutto era per aria: arrangiatevi e ci siamo arrangiati, uno di qua, uno di là e Dante andò nel ripostiglio. Giorno 3 giugno: con un po’ di tranquillità ci siamo decisi di mettere in più di là la nostra tenda e così fu fatto. Appena preso il rancio, radio gavetta comunica che si va a Bileca. Andiamo bene! E così fu! Alcuni speravano di andare nella caserma dove passammo la bella Vigilia di Natale del 1941 e invece, un’altra puntatina! Giorno 4 giugno: nella mattinata il bel gioco della pattuglia dei cetnici e così venne il biglietto di punizione. Ma il toscanino, giovane e bambino, niente da fare col suo cervellino! Alle otto tutta l’auto colonna è pronta, si parte da Uhm e andiamo a Trebigne, già da noi conosciuta. Dopo cinque minuti di alt, si parte verso Bileca, si viaggia, tutti posti già visti e conosciuti, eppure si ritorna ancora. Alle undici siamo a Bileca, si scende a mangiare la mezza scatoletta, alle tredici prendiamo ancora il nostro autocarro, si va avanti ancora quindici chilometri e arriviamo a Plana, ancora puzzante di ribelli. Con tranquillità troviamo il tempo di farci la tenda, dopo poco arrivò anche il XXIX battaglione e la notte passò.
Giorno 6 giugno, mattino. A chi tocca distribuire il caffè? A Dante! Verso le otto sono giunti anche i nostri comandanti. Dopo il rancio è venuto il generale Amico,[46] con la scorta di autoblindo, carri veloci e lanciafiamme, ma la combriccola dello stop continuava sempre. Giorno 7, al mattino vengo fuori dalla tenda e l’altro battaglione è già partito attraverso le montagne. Alle dieci sono scesi quattro ribelli con le loro donne: c’erano anche un italiano del paese di Montala e un germanico, rimasti prigionieri nella puntata di Stolac. Nel pomeriggio, con l’affare della scatoletta, uscì il padrone del portafoglio di Rossanino: siamo a posto, poco alla volta si vengono a conoscere tutti.[47] Giorno 8, giunsero gli alpini con settanta ribelli, dopo poco ci fu l’ordine di andare avanti e così fu. Alle sedici il rancio, poi zaino in spalla e avanti sei chilometri: niente di male, una bella sudatina e siamo giunti anche alla quota del pozzo. Erano le venti, un’oretta e la tenda e la postazione furono fatte. La salute è ottima, ma al mattino del giorno 9, un firmaiolo[48] vuol pensare per conto degli altri e di qui giunse la radio gavetta: si va di qua, si va di là, ma, oltre alla riserva, distribuirono altre due gallette. Dante non parlava, ma già sapeva tutto, ché poi, infine, dopo l’illusione di Ragusa, ci mandarono alla destinazione di Zavala e di Metkovic [49] e così è la nostra fortuna. Giorno 10, sveglia alle cinque, in dieci minuti la tenda è a terra, è tutto pronto, scendiamo sulla strada e troviamo i nostri autocarri in ordine. Andiamo sui nostri autocarri, passiamo da Bileca, una pisciatina e poi giù a Trebigne. Entriamo nella grande caserma e nel campo sportivo, in mezzo alla polvere, dovremmo fare la tenda. Andiamo a fare il bagno, ma non si può: è troppo presto e c’è l’ordine di aspettare le quattordici, ché ci accompagna l’ufficiale di giornata, ma, da capricciosi, andiamo per nostro conto e così fu: di ritorno al bagno, subito sotto la tenda.
Alla sera ci hanno dato pane, gallette, marmellata, vino e minestrone; poi ci sono tre spacci e il vino a buon mercato. In più, immaginiamoci, c’è la libera uscita: andiamo sì, andiamo no, andiamo e troviamo in piazza una fanfara croata. Cerco quel poco di occorrente, saponetta, il sapone barba c’è, l’ho trovato, sono a posto; quattro passi e rientriamo, tanto ci sono le due borracce che ci aspettano, ormai sono le diciannove e trenta e alle venti c’è la ritirata. Venne l’ora per coricarsi e già si sapeva che al mattino si partiva col treno da Trebigne per andare a Zavala.
Mattino dell’11 giugno 1942, sveglia, in breve tempo tutto pronto, una bella lavata al fiume, quattro passi di buona volontà e siamo anche alla stazione. Con un po’ di pazienza tutto è caricato, sono le sette e il treno parte. Dopo quattro o cinque minuti di viaggio passiamo su un ponte e, cosa che nessuno pensava, dal ponte cade un bersagliere della seconda compagnia, proprio uno dei nuovi arrivati. Il treno viaggiava e, dopo alcuni chilometri, con le voci riuscivamo a fermarlo. Subito fa marcia indietro e, giunti dal poveretto, lo troviamo in fin di vita, così ancora a marcia indietro sino a Trebigne, dove fu ricoverato all’ospedale. Di nuovo avanti, sono le dodici, si mangia la scatoletta e intanto i ripostigliai del XXIX battaglione sono intenti a caricarsi tutto il loro materiale. Dopo qualche ora, abbiamo anche il posto per andare a dormire nella scuola, mentre, viceversa, noi pensavamo di andare in postazione, ma ci sono i balilla. Il rancio si mangiò alle ventuno e trenta, carne e brodo puzzavano, ma tutto è buono. Giorno 12, col nostro comodo ci siamo alzati e poi andiamo a fare il bagno. Dopo il rancio a dormire, ma il caldo e la fiacca del bagno, in qualsiasi posto si stava male. Alle sedici l’ordine di preparare il rancio per le diciassette: andiamo bene, forse si parte ancora. Ma per questa notte è andata bene. Dopo il rancio arrivò il tenente da Metkovic, che ci portò la decade e poi a bere un mezzo litro di vino, ma c’ha poca forza…
Giorno 13 giugno. Al mattino a lavarci alla cisterna e poi ozio. Tutti e due i pasti a gallette, anche trovandoci vicino alla stazione, eppur è così. Posta non ce n’è e bisogna andare a dormire. Il giorno 14, domenica meno male che abbiamo il caffè buono, per il pane speriamo che arrivi, intanto ci siamo fatti la barba e poi arrivò anche il pane: anche oggi di fame non si muore. Così passò anche il pomeriggio, siamo ormai all’ora nel secondo rancio, arriva il treno da Metkovic e scende il postino: meno male, forse abbiamo anche la posta, è così. Contento più di così non potevo essere. Mi sono giunti tre scritti della sorella Rosa, subito alla scrittura e così passò anche il giorno 14. Passiamo al 15: primo ordine era di andare alla santa messa per la festa dell’artiglieria, poi si cambia, si va al bagno, io vado dal tenente e gli dico: «Signor Tenente, debbo farmi tagliare i capelli…» «Fermati pure a casa.» Ma il simpatico, per rabbia: «Poi dite dei siciliani che non si lavano!» Così è la vita, basta non dartela vinta! E così venne anche l’ora del rancio, aspettando sempre la cosa più desiderata: la posta. Un vero bersagliere non può pensare ad altro: la più bella cosa è la tranquillità fraterna.
Ma la posta non arrivò, tutto passò e siamo il giorno 16 giugno, quando sappiamo dal postino che il giorno 15 era annegato un bersagliere della seconda compagnia: era quello caduto dal treno, che morì all’ospedale di Trebigne. Dall’ordine del giorno sappiamo le perdite del XXXI battaglione in Bosnia:[50] 37 morti, 59 feriti e 3 sperduti. Ci troviamo in Croazia, non siamo in guerra, alcuni così dicono, ma le perdite sono sempre maggiori di quelle di tutti i nostri fronti. I ripostigli sono tutti a Metkovic, al XXIX battaglione stanno già a rompere i coglioni con la corsa e la fanfara per la sfilata della festa del reggimento del 18 giugno. Così è la naia, non ti arrabbiare, la vita è breve. La radio gavetta trasmette di 44 treni e poi sarà il nostro turno[51]. Anche questa beviamola, dall’anno scorso, dall’arrivo dalla Grecia nel 1941 un anno passò e ancora siamo qua: speriamo almeno che per il ‘43 debba giungere il nostro turno e anche magari qualche altra bella notizia. Comunque, verso le quattordici giunse la posta, ma per Dante non ce n’è, da Lilia nessuna novità, pazienza. Alle quindici adunata, tanto per far passare il tempo, quattro balle e sempre le solite raccomandazioni, incomincia ancora la musica dello stop e così il tempo passa. 17 mattino, niente di nuovo, tiriamo avanti, più tardi mi sono lavato tutta la roba: salute e pulizia sono la giovinezza del militare. Al pomeriggio si sapeva dei preparativi della festa del nostro reggimento e in serata Monti rientra alla squadra. Il 18 giugno c’è la festa del reggimento, il tempo è variabile, poi le tavole[52] furono preparate davanti all’osteria, ma nella gavetta poco di buono e poi il gioco dello spezzatino al formaggio. Terminata l’adunata allo stop, ci fu la bisticciata con l’amico. Alla sera pastasciutta, formaggio, ciliege e vino, così passò la festa, neanche male. Il 19 mattino sveglia, adunata per l’ordine chiuso, già ce lo si aspettava, e poi tutto è abitudine: si pensava fosse più pesante e invece dieci minuti e poi fuori dalle balle! La posta nema, pazienza.
Siamo al 20 giugno, altri dieci minuti di ordine chiuso e poi allo stop. Alle diciannove tutto terminato per l’affare di Bucci e le accuse della cucina al Soddu. Posta nema vista. Andiamo bene! Il 21, domenica, di ritorno dalla santa messa della milizia, c’è l’incontro col colonnello Verdi per le prossime postazioni di Zavala, almeno tutti saremo tranquilli, e anche oggi aspettiamo la posta. Sono le undici e un quarto, prendiamo il rancio, non siamo ancora in camerata e sentiamo il moto carrello che arriva: c’è la posta. Tutti contenti e ansiosi, in poco tempo fu fatto lo spoglio e poi la distribuzione, ma della sorella nema vista: non importa, il tempo ce l’ho e una letterina gliela posso mandare lo stesso.
E così facciamo passare anche il 21 giugno, ricoprendo i due quaderni già conservati nel bottino, così ci metto anche il terzo, che viene terminato alle ore venti. Zavala, P. M. 32 21-6-42 – XX – Continua al IV.[53]
[1] Nave Quirinale – Del 1907, apparteneva alla Società Anonima di Navigazione Adriatica con sede a Venezia. Requisita per diversi periodi della Regia Marina, il 27 giugno 1943, in navigazione da Patrasso a Brindisi fu colpita da aerei nemici, incagliandosi sulla costa e subendo un nuovo attacco il successivo 1° luglio, prima di essere recuperata e demolita dai greci. (Da Wikipedia).
[2] Moricca. – Improvvisamente compare questa “belva”! Si tratta del colonnello Oreste Moricca, giunto già a metà luglio dall’Africa settentrionale per assumere il comando del reggimento. Il papà non si sbaglia, se il tenente Quaglino, nel suo libro, lo presenta così: “Sotto la sua energica guida, il reggimento perfeziona il suo addestramento e la riorganizzazione dei reparti, sempre in attesa del tanto sospirato rimpatrio”, per poi aggiungere di seguito: “Purtroppo le cose vanno diversamente. L’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe italiane e tedesche, ciascuna rimasta nella zona di propria competenza, non si è dimostrata alla realtà dei fatti né facile né comoda per i reparti di dislocati. Occorrono nuovi soldati per rinforzare i presidi e per mantenere l’ordine e la sicurezza ovunque. Il 4° bersaglieri è nuovamente chiamato ad intervenire”. Questa parte di nota ci introduce agli eventi successivi delle pagine di Dante e al contatto coi “ribelli”.
[3] Un paese più bello di quello non so dove trovarlo. – Come per Atene: rimane meravigliato dalla bellezza del luogo, ma non ne farà mai cenno per tutta la vita che gli ho passato accanto.
[4] La parola risulta per ora indecifrabile e nemmeno si riesce a ipotizzarla dal senso della frase.
[5] Puntata. – Dante introduce il termine nel racconto con naturale normalità, in quanto facente parte del gergo quotidiano in quella situazione bellica. Le situazioni di combattimento sono mutate, rispetto al fronte francese e a quello greco-albanese: non si tratta più attacchi offensivi verso punti strategici o avanzate veloci, bensì di azioni di rastrellamento, scorta a convogli ferroviari, liberazione di presidi accerchiati, servizio di presidio vero e proprio con occupazione di certe località: ognuna di queste azioni costituisce la “puntata” di cui parla il papà.
[6] Il nuovo colonnello – Si tratta del nuovo comandante del reggimento, colonnello Nicola Straziota, che sostituisce il colonnello Moricca. Straziota giunge a Ragusa da Venezia in sommergibile. Fu decorato con Medaglia d’oro ad El Alamein, al comando del 7° bersaglieri.
[7] Tenente Colonnello Ugo Verdi. – Vedere nota 38.
[8] La macchina piantata in terra. – La locomotiva, evidentemente fuori uso.
[9] Bagnetta. – Dal dialetto, col significato di intingolo, condimento, liquido e abbondante, nel quale si prepara una pietanza. Estensivamente, anche ad indicare la pappetta più che si forma, a seguito della cottura, con la fusione parziale del cibo con il sugo. Si usava anche come “Bagna”, tipicamente ad indicare quella dell’arrosto, riutilizzabile come condimento.
[10] Bergat. – Donji Brgat, frazione del comune di Breno (Croazia).
[11] Carga. Vedere nota 27.
[12] Kune. – La kuna è stata la valuta ufficiale della Croazia per diversi periodi, inizialmente dal 1939 al 1945 e successivamente dal 30 maggio 1994 fino alla fine del 2022. La sua suddivisione consisteva in 100 lipe. Nel luglio del 2022 è stato fissato un tasso di cambio fisso tra la kuna e l’euro, pari a 7,53450 kune per euro.
[13] – Lisca. – Stecchetto, pagliuzza, ricavati da erbe palustri essiccate (sala), come quelli utilizzate per rivestire i fiaschi o impagliare certe sedie. Anche con altri nomi (bruschette o buschette) è un gioco infantile consistente nel tirare a caso pagliuzze di varia lunghezza strette nel palmo della mano da un compagno di gioco ed emergenti per uno solo dei capi; vince chi estrae il fuscello maggiore o minore, secondo quello che si sia stabilito in precedenza. Oggi è in uso (con altre denominazioni) come modo di estrazione a sorte, anche fra persone adulte (Treccani). Possibile che il divertimento notturno fosse così puerile? E se, sfruttando l’equivalenza tra “busca” e “lisca” si trattasse invece del gioco a carte denominato “busche”, giocato con un mazzo di 40 carte di quattro semi, variante del “tresette”?
[14] Nessuna novità. – Dante usa spesso questa espressione che, nel gergo militare, significa che nessuno si è fatto male, o è ferito, morto, disperso, prigioniero, ecc.
[15] Piomba. – Sbornia, ubriacatura, forma dialettale.
[16] Nema vista. Dante usa spesso questa locuzione in senso fortemente negativo (del valore di “neanche l’ombra”), sempre, tranne qui, associata alla posta che non arriva. Dal punto di vista lessicale “nemo” (“nessuno”, da ne-homo) è pronome di persona, raramente usato come aggettivo, che, andrebbe comunque riferito solo a una persona. In verità mai sentita pronunciare una volta dal papà, si tratta di una locuzione, forse dialettale, caduta in disuso? Potrebbe, ma un indizio ci lascia un dubbio: perché Dante la usa solo da qui in avanti e non, nelle stesse situazioni di delusione per la posta che non arriva, già da Torino e poi in Albania? La risposta l’avrei trovata più avanti, quando, trovandomi a tradurre dal serbo croato dei testi relativi alle stragi di fine agosto 1942, ho appreso che la locuzione, sempre direttamente dal latino, è tipica del croato, proprio con quel significato: нема виста. Quindi Dante ha appreso quel modo di dire e lo utilizzava comunemente nell’ambito in cui si trovava. Del resto, tra le cose del papà, avevo trovato anche un vecchio libro di grammatica serbo croata e dei compiti svolti…
[17] Radio gavetta. – Locuzione già incontrata e utilizzata con una certa frequenza da Dante, sta ironicamente a significare, nel gergo militare, la rapida e quasi inspiegabile diffusione tra commilitoni di notizie, anche a carattere riservato ed in anticipo sugli eventi. Spesso sono solo notizie basate su dei “passaparola” di speranza e di auspicio e comunque, come Dante ci testimonia, spesso non vere. Funzionava in caserma ancora negli anni Settanta, in contesti certo più tranquilli, ma con gli stessi connotati.
[18] Pozzi Enrico – Già incontrato in precedenza, fu decorato con Croce di Guerra al V. M. sul Monte Kalase il 7 dicembre 1940.
[19] Le cose scritte su quella lunga lettera. Che avesse paura di un controllo della censura? Si era detto prima “disperato” quando le aveva scritte e contenevano critiche al “comando”!
[20] Nostro bravo capitano. – Si tratta del capitano Costantino Sereno, di Bologna, già citato nei fatti greco-albanesi, decorato con Croce di Guerra al V. M. per i fatti del Monte Furka (novembre 1940), nel corso dei quali anche Dante ricevette la stessa onorificenza.
[21] Formica Sebastiano. – Siciliano, classe 1916, è decorato nel frangente con Croce di guerra al V. M., mentre Dante riceve un “Encomio solenne”. Il riconoscimento è rilasciato dal Comando della divisione “Cacciatori delle Alpi”, alle cui dipendenze il 4° reggimento bersaglieri sta al momento operando, e indica il luogo dell’evento in Orlja, che si trova una decina di chilometri a sud est di Stolac.
[22] Zingaroni. – Un altro epiteto etnico che si aggiunge a quelli già incontrati: qui parrebbe orientato all’aspetto di “nomade”, attribuito ai partigiani in quanto vivono (costretti) alla macchia.
[23] Erano le tredici, mi prendo la mia arma. – Colgo l’ennesima l’occasione per confermare che la non corrispondenza dei tempi, anche in locuzioni così ravvicinate, è stata lasciata appositamente (con rare eccezioni) sia per rispettare la stesura originale del racconto con le sue implicazioni grammatico-culturali, sia per tramettere l’efficacia e l’immediatezza del pensiero. L’occasione mi consente anche di segnalare un aspetto comune, rilevato in quasi tutte le discordanze di questo tipo incontrate: Dante usa il passato (imperfetto, passato prossimo o passato remoto) per riportare fatti ed eventi che accadono fuori alla sua volontà ed il presente storico per indicare invece le sue azioni, individuali o collettive o l’azione principale. Che sia una sorta di regola, generale o tipica del contesto sociolinguistico della parlata del papà?
[24] Bastardi. – Un epiteto, già trovato, a sfondo razziale, è riutilizzato insieme ad altri in uno spazio così breve: al di là delle altre analisi fatte e da fare nel generale contesto storico, il motivo di tanta rabbia così male espressa potrebbe anche ulteriormente essere contestualizzata allo stress dell’operazione condotta, che Dante circoscrive ad una sparatoria e alla medicazione di un compagno ferito, ma alla quale le ricostruzioni storiche attribuiscono una portata ben più consistente. L’impiego reiterato di questi epiteti e la convinzione che necessariamente li alimentava avranno trovato spazio nella complessità di fatti e certezze coi quali Dante ha dovuto fare i conti, prima di diventare l’uomo e il papà che io ho conosciuto?
[25] I carri veloci passavano in mezzo a noi. – Si tratta di uno squadrone carri, temporaneamente posto sotto il comando del colonnello Straziota in un reparto composito operante con la divisione “Cacciatori delle Alpi”.
[26] Giargianesi. – Ancora questo misterioso popolo! Si conferma qui una delle accezioni indicate alla nota 30: il termine si può attribuire a qualunque “diverso” e “inferiore”, di qualunque etnia, non importa, mentre il suo uso così ravvicinato, nel tempo e nel luogo, al termine appena trovato di “zingaroni”, sembra proprio di volere riconoscere ai primi una loro caratteristica di popolazione comunque stanziale, a differenza dei “ribelli”.
[27] Guspodizze. – “Guspodizža”, in serbo-croato, è la padrona di casa, la signora: un po’ di rispetto per le donne dei Giargianesi!
[28] Ponte dei sospiri. – Nessun legame, se non l’ispirazione, con l’omonimo veneziano: qui, ora, siamo a Stolac, attraversata dal fiume Bregava, ma tra poco chiamerà allo stesso modo, e ne spiegherà il motivo, un altro ponte.
[29] Jaja. – “Uovo”, in serbo-croato. Quindi Jablanica è il “paese delle uova”?
[30] Sottomano. – Nel significato di “di nascosto”, senza farsi vedere da altri. Aveva sperato in una licenza?
[31] Di bello c’erano il canto dei galli e il ponte dei sospiri. – Un altro ponte dei sospiri, nel paese dei ribelli, ma non ne conosciamo il nome, sappiamo solo del ponte, che quindi ci passa un fiume e che, vedremo, dista circa due ore di marcia da Hum: in base a ciò possiamo solo ipotizzare trattarsi del paese di Staro Slano, nel Comune di Trebigne, raggiungibile dalla costa attraversando il fiume Trebišnjica (anticamente “Slana”). Nel XVII secolo, quando questo luogo era un punto importante sul confine turco-veneziano, vi fu costruito, sulla base di una fortificazione medievale preesistente. un complesso fortificato con una torre di nove piani.
[32] Tacpump. – Dante usa questa voce onomatopeica per indicare il rumore prodotto dallo sparo di un fucile isolato, apparente storpiatura del noto “tapum” della Prima guerra mondiale, attribuito dai soldati italiani a quello prodotto dal fucile Mannlicher M95 dei cecchini austriaci. Ciò in quanto prima veniva sentito il rumore dell’impatto del proiettile, che aveva viaggiato a velocità superiore a quella del suono (“ta”) e successivamente il suono della detonazione (“pum”). Ora, se storpiatura, essa appare strana perché più difficile da pronunciare rispetto alla voce originaria, mentre potrebbe corrispondere ad una più fedele e consueta riproduzione sia del rumore dell’impatto (“tac”), che della detonazione prodotta da un fucile diverso rispetto all’M95. Dante aveva già riprodotto con “tric” e “trac” il rumore delle pallottole greche che si infilavano nel terreno albanese nel dicembre 1940, quando la singola e corrispondente detonazione lontana non era identificabile nel frastuono ripetuto degli spari.
[33] Fare da sarto. – Tra i rari accenni ai ricordi di guerra, emergeva ogni tanto il fatto che, sotto le armi, il papà si adattò a fare certi lavori che gli furono molto utili per la sopravvivenza, anche e soprattutto durante la prigionia in Germania; sarto, calzolaio e altri lavoretti, nei quali continuò a cimentarsi occasionalmente anche nella vita civile.
[34] La bellezza di trentadue mesi- – Il conto è giusto, per difetto: a parte gli intermezzi per le licenze, Dante è stato fino ad allora ininterrottamente sotto le armi dal 5 settembre 1939: sono 2 anni 8 mesi e 17 Giorni. Ci starà, prigionia compresa, fino al congedo del 5 settembre 1945, per un totale di 6 anni, 1 mese e 2 giorni. Sommato anche il periodo da permanente a Torino per il servizio di leva, fanno un totale di 6 anni, 11 mesi e 20 giorni, il tutto tra i 21 e 29 anni di età, la sua giovinezza più piena.
[35] Lettera di S. Antonio. – Non si sa nulla di più, nemmeno se la “S” stia per “santo” o sia un’iniziale…
[36] Sempre al ponte dei sospiri. – In testa a questa pagina, fuori dalle righe di testo, è riportata la datazione di scrittura: “Al ponte dei Sospiri” – Maggio 1942 – XX”. Parrebbe quindi che proprio a questo punto, con il tempo avuto a disposizione in questo periodo di “ozio”, il papà abbia terminato la narrazione (o la trascrizione ordinata) delle sue vicende precedenti e passi ora alla cronaca “in diretta”, con la quale poi proseguirà la stesura. Un’annotazione simile è presente all’inizio del III quaderno (e del capitolo 12): è datata “11-11-1941 Cavtat” e sta scrivendo fatti risalenti dell’aprile precedente.
[37] Nona. – Si riferisce ad una malattia comparsa a tratti, anche in forma epidemica, a partire dal 1890 al 1920, analoga o coincidente all’encefalite letargica, comparsa successivamente e caratterizzata da un sonno profondo, della durata di molti giorni o addirittura settimane. Da qui l’uso regionale della frase “avere la nona”, la cui etimologia alcune fonti fanno risalire a “ora nona”, che anticamente corrispondeva alle ore 15 e quindi all’ora del riposo pomeridiano. Di certo la locuzione è calata da Dante in un contesto quanto mai appropriato.
[38] La passione di Bucci. – Parrebbe di intendere che ci fu il tempo per la barba e per fare un acquisto a poco prezzo, forse del vino? Il bersagliere Bucci sarà ritrovato più avanti.
[39] Alla bella festa dell’ascensione, ci fu la bella sorpresa della pistola. – Quell’anno la ricorrenza (festiva) fu giovedì 14 maggio. Quanto alla pistola, si può solo fare una supposizione, cioè che la consegna della nuova arma di servizio a Dante fosse legata alla sua promozione a sergente, che formalizzata un paio di mesi dopo, da cui l’effetto “sorpresa”.
[40] Palanca. – Il termine, di origine turca, indica una piccola fortezza, con pareti in legno o terra circondate da trincee e reticolati. Nel periodo ottomano, “palanka” era usato solo nei Balcani e in Ungheria, mentre oggi Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Serbia presentano molti toponimi di tale origine, in corrispondenza di luoghi ove, per sicurezza di passeggeri e merci, lo stato turco aveva istituito dei posti di guardia fortificati, poi nel tempo divenuti anche dimora per i soldati e per le loro famiglie. In italiano, il termine “palanca” è affine (dal significato greco di “tronco”) ed indica sia una trave robusta o una leva, sia, in antichi lavori di fortificazione campale, un riparo costruito per difendere una posizione da scorrerie nemiche, costituito da pali conficcati nel terreno a contatto uno con l’altro, supportato da un terrapieno.
[41] Soddu Francesco – Medaglia di bronzo al V. M. (18 maggio 1941 – Borove).
[42] Bais. – La grafia è approssimativa e rispecchia solo il suono della parola: il termine potrebbe corrispondere a Bajici, nome di diverse località della Bosnia e della Croazia, ma in nessun caso plausibile per lo svolgersi degli eventi.
[43] Il bel tipo del sardignolo. – Ce l’ha ancora con il Soddu.
[44] Palermo. – Era la sede del 10° reggimento bersaglieri, allora impegnato (e decimato) in Africa settentrionale. Quelli che arrivano sono reclute appena addestrate.
[45] Ieri ci sparavano oggi vengono per alzare le mani. – Sono i cetnici, che, nel vortice magmatico etnico-politico-militare-religioso della ex-Jugoslavia, iniziano a collaborare con le truppe d’occupazione italiane in funzione (dichiaratamente) antipartigiana e (sostanzialmente) anti-ustascia. Essi, di religione ortodossa e di fede monarchica, si abbandonarono a pesanti violenze sui civili nella partecipazione alle operazioni condotte da Italia e Germania, fino a screditarsi agli occhi degli inglesi, che prima li sostenevano in funzione anti-asse. I cetnici iniziarono la loro attività il 13 luglio 1941, attaccando assieme ai partigiani di Tito le truppe italiane di guarnigione nel Montenegro, la cui reazione vincente provocò però la rottura della coalizione: da una parte i nazionalisti cetnici di Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Krajina, che, pur conservando il sogno della grande Serbia, si schierarono con gli Italiani, dall’altra parte quello che, dal novembre 1942, diventò l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Nelle pieghe di questa contrapposizione di grandi schieramenti, ce n’erano altre di livello inferiore che la attraversavano e la confondevano. Tali pieghe, multiformi e spesso più cruente della prima, vedevano nel nostro caso gli ustascia (croati, formalmente più che alleati con l’Italia) rivendicare la Dalmazia, occupata però dagli italiani, che intanto accettavano la “collaborazione” dei cetnici (di etnia serba), oltre che per la lotta contro l’esercito di Tito, anche per fare opposizione alle mire espansionistiche ustascia e infine per consentire loro la “protezione etnica” delle popolazioni locali di etnia serba dalle violenze degli ustascia: compito questo che sarebbe toccato, ma non riusciva, all’insufficiente presidio italiano. Sta di fatto che le violenze erano incrociate, a seconda di chi e in quale paese vi giungesse e i soldati italiani vi assistevano o, quando ci fosse stato il sospetto di simpatie partigiane ed etnia a parte, partecipandovi direttamente, eccome.
[46] Giuseppe Amico (Capua, 1º novembre 1890 – Slano, 13 settembre 1943), comandante della 32ª Divisione di fanteria “Marche”, alle cui dipendenze il reggimento di Dante si trovava in quel momento. Nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 si oppose alla resa e alla consegna delle armi ai tedeschi, che, per questo e per altri pregressi dissidi sulla deportazione degli ebrei, lo trucidarono. Insignito della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
[47] Nel pomeriggio… conoscere tutti. – Siamo di fronte ancora una volta ad un affaire raccontato in modo criptico…
[48] Firmaiolo – Nel gergo militare e in senso spregiativo è colui che, essendo di leva e poi firmando, si impegna a un prolungamento, anche permanente, del servizio. In tempo di coscrizione obbligatoria era di uso comune. Anche Dante, che sin qui ha mostrato assoluta dedizione e fedeltà istituzionale, usa questo termine per manifestare disappunto nei confronti di un superiore.
[49] Metkovic. – Dante ed altre fonti riportano questa località con grafia un po’ diversa, ma documenti ufficiali non lasciano dubbi.
[50] Le perdite del XXXI battaglione in Bosnia. – Si riferisce ai fatti di Mrkonjić Grad (Varkar-Vacuf), nella Bosnia settentrionale, ove il battaglione costituisce il presidio più avanzato dell’esercito italiano, spesso rimasto privo di rifornimenti, circondato dai partigiani, obbligato a movimenti di riposizionamento e collegamento con altri reparti. Il 17 maggio 1942, un reparto misto comprendente la nona compagnia cade in un’imboscata e ha perdite gravissime, compreso il comandante, capitano Lombardi. Avuta la notizia, l’intero battaglione esce al comando del maggiore Bernabò e sblocca i resti del reparto attaccato, recuperando tutte le armi. Il giorno successivo, recuperate le salme dei caduti, il XXXI battaglione si porta a Drvr. Oltre a ciò, rimane collegata a Varkar-Vacuf e a quegli eventi la memorabile sortita di un manipolo di bersaglieri, che, agli ordini del tenente Sicardi, attraversano i territori controllati dai partigiani e, in dieci giorni di avventuroso cammino, riesce a raggiungere il comando di corpo d’amata a Spalato e a far inviare da lì rifornimenti via aerea al presidio isolato. Il tenente Vincenzo Sicardi (Imperia, 1912) è decorato con medaglia d’argento al V. M. per i fatti del 7-10 aprile 1941 sul fronte albanese-jugoslavo.
[51] – La radio gavetta trasmette di 44 treni e poi sarà il nostro turno. – Evidentemente si riferisce all’attesa di una licenza
[52] – Le tavole. – Per i salti mortali e affini, tipici contenuti delle manifestazioni dei bersaglieri.
[53] – Ricoprendo… continua al IV. – Dante, al termine del III quaderno e con un’improvvisa pennellata, incrocia ancora la scrittura del diario (e qui anche la sua confezione) ad evento della narrazione. Nell’ultima pagina c’è ancora la carta assorbente usata per asciugare l’inchiostro di queste ultime parole scritte.
Balcania
Dopo l’invasione dell’aprile 1941, la situazione nei Balcani si presentò particolarmente difficile per le forze d’occupazione italiane. I movimenti di resistenza della ex Jugoslavia, sopravvissuti alle violente repressioni effettuate dagli occupanti (Germania, Italia, Ungheria, Bulgaria) e dagli attacchi nazionalisti ustascia e cetnici, avevano approfittato dell’inverno 1941-1942 per riorganizzarsi e quindi, dal gennaio-febbraio 1942, per avviare un’offensiva generale, comprendente le regioni bosniache e dalmate, ove si trovò ad operare il 4° reggimento bersaglieri. La rapida ed inaspettata diffusione del movimento di liberazione spinse i comandi italiano, tedesco e croato ad effettuare contro di esso un’energica azione offensiva, articolata in una serie di operazioni di repressione, uniche vere e grandi attività belliche nei Balcani successive ai conflitti con la Grecia e con la Jugoslavia, che rappresentarono un salto qualitativo dell’azione degli eserciti occupanti, che si volsero in breve tempo da meri compiti di polizia a vere e proprie operazioni organiche di guerra su vasta scala.
Tra le conseguenti iniziative di intervento ed a fianco delle confuse, tragiche e contrapposte collaborazioni con ustascia e cetnici, nel luglio 1942 lo Stato Maggiore dell’XI Corpo d’Armata ideò la costituzione di una “Milizia Volontaria Anti Comunista” (M.V.A.C.), popolarmente chiamata ”Guardia Bianca” (Bela Garda). Essa aveva un’origine composita: accanto alle truppe che provenivano dalle organizzazioni partitiche prebelliche e che avevano collaborato con gli italiani dopo l’invasione, ci furono anche gli ultracattolici di “Guardia nella Tempesta” del teologo gesuita Lambert Ehrlich e il “Battaglione Stiriano” del capitano Kranjc, composto da soldati sbandati, da qualche nazionalista estremista e da monarchici. La M.V.A.C. avrebbe dovuto operare come unità autonoma, ma, in realtà, i suoi reparti vennero immediatamente inquadrati nelle unità componenti in alcune divisioni italiane, come la divisione “Cacciatori delle Alpi”, in appoggio alla quale si trovò temporaneamente impegnato Dante.
L’Italia fascista impiegò enormi risorse militari, diplomatiche, economiche e propagandistiche per imporre il suo dominio su circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo, ma durò poco: una breve parabola di morte e di terrore, un concentrato di inadeguatezza del vagheggiato impero. Si passò dal sogno di predominio sui Balcani del maggio 1941, all’odore della sconfitta di due anni dopo, con due aggravanti, se possibile.
La prima fu quella di aver trasformato centinaia di migliaia di valorosi soldati ex contadini in invasori giustizieri, che, finito tutto, negarono ai loro figli, insieme a quella vergogna, anche la dignità del loro dolore e del loro sacrificio istituzionale. Vittime e carnefici al tempo stesso, i soldati italiani combatterono, con mezzi inadeguati (la bicicletta: una risorsa o un limite?) e scarse motivazioni ideali, se non quella del loro dovere di cittadini italiani, costretti a vivere a lungo affamati, bagnati, all’addiaccio, in condizioni estreme, vinti dalla paura, dalla noia e dall’abbandono.
La seconda fu quelle di aver voluto stringere ambigue alleanze con realtà collaborazioniste molto diverse tra loro, contribuendo ad attizzare il fuoco di una feroce guerra civile, che, sopita durante sotto la federazione jugoslava, riemergerà mezzo secolo, con rinnovati terrore e violenza.
Nonostante la partecipazione di importanti reparti dell’esercito alle diverse operazioni, già dall’inizio del 1943, l’impegno politico-militare italiano nei Balcani stava diventando secondario rispetto alle nuove priorità strategiche globali. Si era quindi proceduto alla progressiva riduzione delle forze schierate sul terreno. L’esercito richiamò alcuni reparti, pur mantenendo ancora 17 divisioni in Jugoslavia; furono disarmati i cetnici, fu sciolta la M.V.A.C. e si interruppero le forniture di armi ai collaborazionisti.
Ma intanto, ragazzi delle nuove classi di leva e soldati di ritorno dalla licenza, per pura disciplina affluivano ancora in quei luoghi, avendo ormai persa, insieme alle già precarie motivazioni di prima, ogni speranza di vittoria.
Molto prima del 25 luglio 1943 vediamo che le truppe italiane iniziano ad abbandonare le posizioni più esposte, ridurre il loro impegno operativo e ripiegare in una serie di presidi isolati in posizioni difensive, spesso accerchiate ed assediate, ed il cui sblocco costerà molte vite. Molte località, che avevamo imparato a conoscere da vicino dal racconto di Dante, come luoghi della sua vita, dei suoi inutili sacrifici, alle prese con la fame, con gli spari, con la posta, furono evacuate già dalla primavera.
Dopo il 25 luglio il disimpegno italiano fu molto rapido e molti reparti si concentrarono lungo la costa adriatica, ormai apparentemente senza scopo strategico, se non quello di proteggere i porti e di avvicinarsi a casa, mentre si avvicinavano i giorni dell’abbandono e della tragedia finale.
L’operazione Trio
L’Operazione Trio si svolse dal 20 aprile al 15 maggio 1942 e fu così chiamata perchè vi parteciparono unità italiane, tedesche e croate, al comando del generale Roatta. Si svolse nei territori dell’allora Stato Indipendente di Croazia (NHD), comprendente anche i territori della Bosnia Erzegovina, contro i partgiani jugoslavi.
Da parte italiana vi fu il maggior contributo di truppe: tre divisioni complete e altri reparti compositi. Il 4° reggimento bersaglieri vi partecipò alle dipendenze della divisione “Cacciatori delle Alpi” e Dante fu coinvolto direttamente anche in alcuni scontri a fuoco (Stolac, Orlja), in una zona abbastanza marginale della vasta operazione.
(v. Becherelli, op. cit.)
L’OCCUPAZIONE MILITARE ITALIANA NEI TERRITORI DELLA EX JUGOSLAVIA
LE UNITÀ E I REPARTI
La 2ª Armata
I compiti di presidio e di controguerriglia da parte dell’esercito italiano sui territori della Jugoslavia sconfitta ed in particolare nelle zone ove operò il 4° reggimento bersaglieri, furono affidate stabilmente alla 2ª Armata, anche se, nel corso degli anni dal 1941 al 1943, ci furono alcuni cambiamenti e riorganizzazioni. La sua sede era a Sussak.
L’11 aprile 1941 iniziò le operazioni di guerra contro la Jugoslavia. Le sue truppe occuparono Lubiana, Sebenico e Spalato, liberarono Zara, accerchiata dal nemico e si congiunse con i reparti italiani provenienti dall’Albania, Il 18 aprile, terminate le operazioni di guerra, iniziò l’attività di presidio del territorio occupato e successivamente quella di controguerriglia verso le formazioni partigiane e di interposizione negli scontri etnici fra le diverse etnie contrapposte.
Il 31 ottobre 1941, il territorio di giurisdizione della 2ª Armata fu così ripartito:
Il 9 maggio 1942, Roatta potenzia e trasforma la 2ª Armata in una struttura politico-militare, con la denominazione ufficiale di “Comando Superiore FF.AA. Slovenia-Dalmazia” (“Supersloda”) e posta sotto il diretto comando del capo del governo. Successivamente, vedrà ulteriori modifiche di organizzazione e di composizione.
Il 18 ottobre 1942 risulta ufficialmente costituita da:
Il VI Corpo d’armata
Nel marzo 1941 è mobilitato e raggiunge il fronte orientale per prendere parte, dal 7 al 18 aprile, alle operazioni contro la Jugoslavia, venendo poi dislocato in Dalmazia e Croazia. Il quartier generale è prima a Spalato e poi a Ragusa, coprendo il territorio compreso tra la costa dalmata e la Bosnia Erzegovina. Nel giugno 1941 incorpora la 18ª Divisione fanteria “Messina” e la 32ª Divisione fanteria “Marche”, provenienti dal XVII Corpo d’armata e che impiegheranno i battaglioni del 4° reggimento in alcune operazioni contro i “ribelli”: in particolare, il XXVI battaglione, quello cui appartiene Dante, separato dagli altri due, opererà alle dipendenze della “Marche” nell’autunno del 1941 nella zona di Trebigne-Bileca.
L’indirizzo di posta militare che Dante riporta sulle copertine dei diari, applicate nel giugno del 1942, è quello della divisione “Marche”: PM 32.
È costituito da:
La Divisione Messina
Ordine di battaglia 1940-1943:
La Divisione Marche
Ordine di battaglia 1940-1943:
La divisione Bergamo
Ordine di battaglia 1943 (nel XVIII Corpo d’armata):
Nella cartina (S. Loi – SME, op. cit.) è visibile la striscia costiera adriatica sotto il diretto controllo italiano fino alla linea punto-tratto, oltre la quale e fino alla linea continua affiancata dalle crocette c’è la zona smilitarizzata, nella quale la Croazia non fu mai in grado di gestire la sicurezza. In questa fascia e non solo si sviluppò un complicato e in parte mutevole stato di guerriglia etnico, politico e militare. L’esercito italiano operò sia nel controllo stabile del territorio, in particolare per garantire il collegamento ferroviario nord-sud, sia con campagne mirate contro i partigiani, sia per la protezione delle minoranze etniche (generalmente i serbi minacciati dai croati).
Fonti
– LE OPERAZIONI DELLE UNITÀ ITALIANE IN JUGOSLAVIA 1941-1943 – A cura di Salvatore Loi – U. S. SME, 1978.
– Criminidiguerra.it/TArmate.shtml
– ilpostalista.it/pm_file/pm_122.htm
– https://it.wikipedia.org
– https://it.wikipedia.orgwiki/Divisioni_del_Regio_Esercito_nella_seconda_guerra_mondiale
– https://digilander.libero.it/trombealvento/guerra2/varie/dalmazia.htm
– ACADEMIA.EDU – ITALIAN GROUND FORCES ORDERS OF BATTLE AND STRENGTHS IN THE INVASION OF GREECE, AUGUST 1939-APRIL 1941 PART D Armies
– ACADEMIA.EDU – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part IX 2nd ARMY-SLOVENIA-CROATIA-BOSNIA.HERZEGOVINA
– ACADEMIA.EDU – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part XI VI CORPS-CROATIA
ALLEATI A CHI?
Nel marasma generale di contrapposizione del tipo “tutti contro tutti” che sì creò dopo lo smembramento dell’ex Jugoslavia, ebbero a crearsi situazioni paradossali di alleanze tra nemici e di conflitti tra alleati, nelle quali anche Dante viene invischiato, riferendone dal suo punto di osservazione della quotidianità bellica. Più si approfondisce il tema e più appaiono risvolti incredibili e particolari sorprendenti con un’ampia disponibilità di documentazione, cui facciamo cenno anche in altre parti di queste pagine.
Ma, proviamo a dare un’idea di ciò, limitandoci solo ai rapporti tra Italia e il suo presunto alleato croato.
Il Regno Indipendente di Croazia, autoproclamatosi tale dopo l’invasione italo-tedesca dell’aprile 1941, era in realtà era monarchia fantoccia, imposta dai vincitori con un sovrano di casa Savoia (il Principe Aimone di Savoia-Aosta) e un governo fascista in mano agli ustascia di Ante Pavelić. Più che come alleato indipendente, dunque, era in realtà un protettorato bell’e buono del Regno d’Italia, del quale questo doveva e poteva disporre, specie in contesto bellico, a suo piacimento ed interesse esclusivi. Lo stato comprendeva la maggior parte della Croazia, l’attuale Bosnia-Erzegovina e di una piccola porzione della Serbia, ma gli fu tolta la Dalmazia, che divenne a tutti gli effetti territorio italiano e questo era uno dei principali motivi di frizione con l’Italia.
Sta di fatto che i comandi italiani segnalavano spesso difficoltà per l’afflusso di rifornimenti che erano smistati verso la Germania invece che a sud, rendendo note le inadempienze ai patti che stabilivano l’indirizzo politico-amministrativo da instaurarsi nei territori controllati. Ogni rimostranza italiana verso i croati non faceva altro che esacerbare e rendere palesi l’avversione di questi nei confronti dell’Italia e l’obiettivo di sottrarre ad essa il controllo dei territori occupati. Furono anche svelati contatti tra ustascia e cetnici nei quali i primi cercavano di aizzare i secondi contro l’Italia e ci furono pubbliche manifestazioni di nazionalismo dalmata-croato in funzione antitaliana, mentre, al di là delle forme cortesi, la Croazia tendeva ad ostacolare l’insediamento ed il controllo italiani, attraverso vere e proprie operazioni di elusione e di boicottaggio. Il generale Ambrosio, prima di passare il comando a Roatta, ebbe a criticare il comportamento prevaricatorio dei tedeschi nei confronti dei diritti italiani stabiliti nei Balcani e criticò l’indipendenza della Croazia e il governo ustascia, impegnati solo a massacrare popolazioni indifese senza rispettare gli accordi
Non mi sentirei di escludere che, a parte le esigenze militari e di convenienza, una certa benevolenza da parte italiana verso i cetnici, possa in qualche essere stata suggerita dall’atteggiamento e dal comportamento dell’alleato croato.
Per i cetnici, comunque, l’obiettivo principale era la restaurazione della monarchia jugoslava su base serbista, per la quale, dopo l’annientamento dei comunisti, si sarebbero sicuramente battuti anche contro i tedeschi e gli italiani, come del resto avevano già fatto dopo l’invasione, in attesa di una insurrezione generale, da effettuarsi con le armi procacciatesi dagli italiani e con l’appoggio da parte degli alleati che sarebbero prima o poi sbarcati sul continente. Le notizie delle violenze perpetrate dai cetnici e il progressivo rafforzamento partigiano, spostarono però verso Tito l’iniziale appoggio dato loro dagli Alleati in funzione anti Asse.
BRICIOLE DI RESISTENZA
In queste pagine appare abbiamo avuto modo di osservare e sottolineare il ruolo che gli italiani ebbero come aggressori di popoli ed occupanti di territori, in contrasto con il mito degli “italiani brava gente”, creatosi nel dopoguerra per ripulire la coscienza nazionale ed individuale ed andare avanti. Al di là delle responsabilità di chi portò il paese nella tragedia per puro calcolo ed ambizione e di quella della popolazione che ne fu complice e poi vittima, ritengo giusto segnalare che, nel contesto che andiamo descrivendo, ossia l’occupazione della ex Jugoslavia e le operazioni di controguerriglia che ne sono stati lo strumento, con il loro orribile corredo di violenza e di terrore, il 1942 vide significativi interventi dei militari italiani che, benché in prima fila nell’omologare e sostenere il fascismo, intervennero a favore della popolazione ebraica dei territori controllati dall’Italia, con ciò contravvenendo alle direttive superiori.
Per accelerare i tempi della “soluzione finale”, Germania e Croazia avevano raggiunto un accordo per la deportazione degli ebrei dello Stato Indipendente Croato nei campi di sterminio tedeschi. Ciò suscita la reazione degli ufficiali del comando italiano, anche perché le disposizioni comprendono anche i territori di propria competenza e costituiscono una inaccettabile prevaricazione. A metà agosto Berlino chiede formalmente al governo italiano la consegna alle autorità croate degli ebrei presenti nelle zone controllate dal Regio Esercito. Mussolini obbedisce ed emana l’ordine di rastrellare e consegnare la popolazione di religione ebraica agli ustascia, trovando però l’ostacolo di una serie di obiezioni sollevate dai comandi italiani a seguito della decisione. Esse si trasformano in aperta resistenza e inducono il governo a temporeggiare.
Ribbentrop e Pavelić alzano allora la voce accusando gli italiani di incapacità nell’operare “le consegne”. Mussolini non sopporta una simile accusa e Mussolini dà l’ordine di espellere e consegnare gli ebrei agli aguzzini croati. Nonostante l’ordine esplicito e perentorio, le autorità militari italiane italiani riescono tuttavia a temporeggiare e a non consegnare parte degli ebrei dislocati nei territori sotto la loro giurisdizione. Circa quattromila ebrei dello Stato Indipendente Croato sopravviveranno alla guerra grazie al “boicottaggio” dei militari italiani.
Episodi simili avvennero anche in altre parti della penisola balcanica sotto occupazione e alcuni dei loro benemeriti protagonisti pagarono con la vita, dopo l’8 settembre, questi loro atti di coraggio: tra questi il generale Amico, già incontrato a Bileca nel racconto di Dante.
BERSAGLIERI IN TRENO
Nel corso della sua permanenza in Dalmazia-Bosnia Erzegovina, dall’estate del 1941 all’autunno del 1942, Dante fece un frequente uso del treno per gli spostamenti, sia per raggiungere nuovi acquartieramenti, sia per compiere, partendo da questi, le cosiddette “puntate” contro i “ribelli” e il suo racconto lo testimonia in molti frangenti. Quel treno, quel percorso, quei tragitti hanno costituito, tra gli altri, un motivo conduttore del tutto particolare e costellato di diversi momenti particolari, fissati da Dante nella sua memoria.
La ferrovia utilizzata, che si snodava interamente all’interno della Bosnia-Erzegovina (solo temporaneamente annessa alla Croazia nel 1941 a seguito del conflitto che smembrò la Jugoslavia) e che seguiva parte del corso del fiume Neretva, era costituita da un’asse principale che collegava Sarajevo, via Mostar, a Trebinje; da qui la linea proseguiva verso Bileca, per terminare il suo percorso a Niksic, in Montenegro.
Il tracciato presentava alcune derivazioni importanti: il bivio di Gabela, a destra, conduceva a Porto Tolero (Ploče) sul mare Adriatico; dopo Hum un’altra derivazione destrorsa portava a Uskoplje, ove la linea si biforcava in due rami: uno, passando per Brgat attraverso un complicato percorso, arrivava a Ragusa, mentre l’altro raggiungeva il piccolo porto di Zelenika, alle Bocche di Cattaro.
La rete ferroviaria, a scartamento ridotto (760 mm), fu costruita dall’impero austro-ungarico, che governò il territorio della Bosnia-Erzegovina fino al 1918. Inaugurata il 15 luglio 1901, fu completata nel 1930 con il tratto Trebinje-Lastva e, nel 1931, con il tratto Lastva-Bileca, che presentava un panoramico attraversamento del fiume Trebišnjica. Nel 1962 furono costruiti un bacino idrico sullo stesso fiume e una adiacente centrale idroelettrica. Per questo motivo, il percorso della ferrovia viene modificato e contemporaneamente viene modificata anche l’ubicazione della stazione ferroviaria di Trebinje. Nel 1966 fu costruito il bacino idrico di Bileca, con un ulteriore cambio di percorso e l’eliminazione del ponte.
Questa ferrovia, in tempo di pace, fu essenziale per le comunità che attraversava, collegando paesi, regioni, popoli e culture. Per quelle genti, il collegamento ferroviario fu senz’altro un elemento significativo per la loro esistenza ed il loro progresso, tale da aver lasciato tracce indelebili di memoria nei luoghi attraversati, come testimoniano le numerose documentazioni trovate in rete al riguardo.
L’ultimo treno merci partì da Zelenika nel 1968, l’ultimo treno passeggeri da Ragusa il 30 maggio 1976.
Nota – I tracciati che abbiamo citato, in quanto interessati alle operazioni cui ha partecipato Dante, facevano parte in realtà di una più ampia rete ferroviaria bosniaca, che comprendeva da linea Lašva a Travnik (aperta al traffico il 26 ottobre 1893) quella da Travnik a Bugojno (14 ottobre 1894), quella da Donji Vakuf a Jajce (1° maggio 1895 e la linea da Bugojno a Gornji Vakuf (3 ottobre 1945). Tutta le linee furono smantellate tra il 1972 e il 1975.
Fonti / Per saperne di più.
Ferrovia Capljina-Zelenica
linea per Sarajevo
0 Capljina
5 Gabela
linea per Porto Tolero
7 fiume Narenta
8 Krupa
18 Sjekose
25 Hrasno
32 Hutovo
38 Zelenikovac
45 Turkovici
50 Trncina
53 Velja Meda
58 Dvrsnica
63 Ravno
65 Cvaljina
69 Zavala
77 Grmljani
82 Poljice
86 Diklici
91 Gojšina
93 Jasenica Lug
98 Ðedici
100 Hum
linea per Trebigne
106 Zaplanik
111 Uskoplje 350 m s.l.m.
112 linea per Ragusa
115 Ivanica
122 Zagradinje
125 Glavska 495 m s.l.m.
confine Bosnia ed Erzegovina – Croazia
134 Vojski Dol
138 Mihanici 328 m s.l.m.
149 Ragusavecchia 126 m s.l.m.
155 Cilipi 132 m s.l.m.
158 Komaj
164 Gruda 80 m s.l.m.
168 Plocice
Confine Croazia – Montenegro
171 Nagumanac 185 m s.l.m.
176 Sutorina 103 m s.l.m.
180 Igalo 4 m s.l.m.
184 Castelnuovo (Herceg-Novi)
186 Savina
189 Zelenica 2 m s.l.m.
Ferrovia Hum-Trebigne-Nikšic
linea per Capljina
0 Hum
2 linea per Zelenica
5 Taleža
8 Ljubovo-Duži
14 Volujac
17 Alexina Meda
20 Trebigne
26 Arslangagica Most
34 Stara Lastva
36 Lastva
44 Grancarevo
47 Parež
50 Dubocani
53 Crvena Stijena
58 Rogacevici
61 Miruše
70 Bileca
79 Koravlica
87 Kljakovica
96 Petrovici
106 Viluse
114 Rijecani
124 Podbožur
129 Bijele Rudine
135 Trubjela
143 Kuside
152 Stuba
161 Nikšic
Ferrovia Uskoplje-Ragusa
da Capljina
0 Uskoplje
per Zelenica
confine Bosnia ed Erzegovina-Dalmazia
5 Brgat
10 Šumet
20 Gravosa – Ragusa
UN TRENO DI NOME ĆIRO
Nelle ricerche e negli approfondimenti di contesto relativi ad altre parti dei Diari di Dante, è già accaduto che si siano aperte inaspettate ramificazioni laterali a lato e sotto il percorso principale, le quali ci hanno assorbito inevitabilmente in ulteriormente annidate esplorazioni, talora curiose e sorprendenti. Anche qui, nel ricercare ogni tassello utile alla completa conoscenza di questa ferrovia così protagonista nel racconto, ho fatto una piccola ma curiosa scoperta, di quelle in cui, cercando un semplice particolare, insieme a quello trovi qualcos’altro che non t’aspettavi e che ti consente di mettere il cappello ad un’altra ricerca.
Nella trascrizione dei diari, ad un certo punto il papà racconta di un bersagliere che cade dal treno mentre questo passa su un ponte a cavallo di un fiume. Viene dato l’allarme, il treno fa marcia indietro, il poveretto viene soccorso e portato all’ospedale a Trebinje, ma poi, purtroppo, muore.
Dalla descrizione, dal tempo trascorso dalla partenza del treno appunto da Trebinje, non mi è stato difficile individuare il luogo dell’evento, un ponte in ferro che attraversa un breve fiume che confluisce presto nella Trebišnjica: un’immagine da Google Earth lo rappresenta arrugginito, ma ancora esistente, ma mi fermo qui e non approfondisco, anche perché il fiume, oggi, appare alquanto in secca.
Tempo dopo, ripassando da lì su Google Earth, riconosco il ponticello, allargo la visualizzazione per ricavarne un’immagine da aggiungere al racconto di quella disgrazia e vedo che è pure contrassegnato: “Stari Most Ćiro”. A prima vista vorrebbe dire: “Vecchio Ponte Ćiro”, ma qualcosa non quadra. Non si tratta infatti del nome del fiume, inesistente, non può essere il nome dell’imperatore persiano…
Non resta che mettere “Ćiro” nel motore di ricerca, associandolo, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, al termine “vlak”, che significa “treno”. Ed ecco, nella foto qui sotto, cosa appare.
Era il nome del treno! I ragusei lo battezzarono così il 15 luglio 1901, quando il primo convoglio partì dalla stazione di Gruž (Gravosa). Il motivo per il quale lo chiamarono così non lo conosco. Per ora.
Di ricerca in ricerca, ho appreso che, negli ultimi anni, attraverso piani di recupero e con i fondi dell’Unione Europea, buona parte del sedime ferroviario è stato recuperato, consentendo l’emozione di un viaggio in bicicletta attraverso la ex-linea ferroviaria. Lungo il percorso troviamo ancora i ponti, le gallerie scavate nella roccia, manufatti e alcune stazioni in parte abbandonate, in altri casi riutilizzate. Oggi è ancora possibile rivivere parte della storia travagliata di questi luoghi, con il paesaggio pressoché intatto.
A chi, come me, ha imparato a conoscere e a familiarizzare con nomi e luoghi di quella ferrovia, la scoperta di “Ćiro” ha consentito di accedere poi ad ulteriori contenuti visivi in rete che quei nomi e luoghi rappresentavano. Ciò con tutte le emozioni conseguenti, comprese quelle scaturite dall’aver scorto, a margine del percorso, lapidi e cippi commemorativi di dolorosi e noti eventi bellici. E il papà era lì.
Tornando a “Ćiro”, dopo il restauro, la locomotiva e i vagoni ferroviari restaurati sono arrivati nel 2012 a Travnik, ove il museo locale ha organizzato un evento multimediale denominato “Ciro is back!”, ricordando così le vecchie generazioni e introducendo le nuove generazioni al significato della ferrovia a scartamento ridotto e del treno a vapore di questa parte della Bosnia.
Fonti / Per saperne di più
BIBLIOGRAFIA PER L’OCCUPAZIONE DELLA BALCANIA
LIBRI, SAGGI E ARTICOLI
Davide Conti – L’OCCUPAZIONE ITALIANA DEI BALCANI. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943) – Odradek 2008
Gianni Oliva – SI AMMAZZA TROPPO POCO – Mondadori 2006
Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti – UNA GUERRA A PARTE. I MILITARI ITALIANI NEI BALCANI 1940-1945 – Il Mulino, 2011
Alexis Mehtidis – ITALIAN GROUND FORCES ORDERS OF BATTLE AND STRENGTHS IN THE INVASION OF GREECE, AUGUST 1939-APRIL 1941 PART D ARMIES
Alexis Mehtidis – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part Ix 2nd Army-Slovenia-Croatia-Bosnia.Herzegovina
Alexis Mehtidis – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part XI VI Corps-Croatia
Alberto Becherelli – L’OCCUPAZIONE ITALIANA DI DUBROVNIK (1941-1943) – Annali, Museo Storico Italiano della Guerra n. 28/2020
Federica Saini Fasanotti e Basilio Di Martino (a cura di) – L’ESERCITO ALLA MACCHIA. CONTROGUERRIGLIA ITALIANA 1860-1943 – USSMD
Salvatore Loi – LE OPERAZIONI DELLE UNITÀ ITALIANE IN JUGOSLAVIA (1941-1943). NARRAZIONE DOCUMENTI – USSME 1978
Alberto Becherelli – ITALIA E STATO INDIPENDENTE CROATO (1941-1943) – Biblioteca Militare – Edizioni Nuova Cultura Roma, 2012
Fonti / Per saperne di più
OPERACIJA ALBIA
wikipedia.org/wiki/Operacija_Albia
IL TRIBUNALE STRAORDINARIO DELLA DALMAZIA
www.criminidiguerra.it/TribunaleStraDalm.shtml
LA POLITICA E LA GUERRA SPORCA DEI GENERALI ITALIANI IN SLOVENIA E DALMAZIA
www.criminidiguerra.it/generaliSloda.shtml
A FERRO E FUOCO. L’OCCUPAZIONE ITALIANA DELLA JUGOSLAVIA 1941-1943
atistoria.ch/sitoteca/a-ferro-e-fuoco-l-occupazione-italiana-della-jugoslavia-1941-1943
I CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER CIVILI GESTITI DALLA II ARMATA
www.criminidiguerra.it/Campidiconcentramento.shtml
ALTRI DOCUMENTI
www.criminidiguerra.it/documenti.shtml
www.criminidiguerra.it/TArmate.shtml
www.ilpostalista.it/pm_file/pm_122.htm
it.wikipedia.org/wiki – Divisioni del Regio Esercito nella seconda guerra mondiale
Approfondimenti
Bibliografia generale – Fonti