Il testo dei Diari è affiancato a da contenuti e immagini di contesto e complemento (“riferimenti”). In particolare, sono riportati ampi stralci di due testimonianze “speciali”, lasciateci da due persone che hanno condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende e che ne hanno voluto, come il papà, lasciarne testimonianza e ricordo: sono quelle del tenenete Sergio Quaglino e del bersagliere Luciano Scalone. Il primo ha scritto un libro di qualificata valenza memorialistica e storica, descrivendo fatti, luoghi e persone in un perfetto equilibrio tra il mito patriottico, la passione determinata dagli eventi e il succedersi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo, un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione ad essa, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.
La ricerca prima e la disponibilità poi di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze, oltre ad aver dato spunto ad inaspettati approfodimenti e consentito sorprendenti scoperte storiche, che altrimenti sarebbero andate perse. Almeno per me.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone, i “riferimenti” appaiono alla fine di ciascun blocco contenitore.
[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Testo tratto dal diario del Ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal diario del bers. Luciano Scalone
Nei Diari
1° gennaio 1941. Prepararsi che c’è la messa! Andiamo alla messa per la festa del primo dell’anno, tutti contenti, così Dio ci potrà aiutare per tutto l’anno e poi la messa la celebra il nostro tenente cappellano… Celebrata la messa, ritorniamo, Dante entrò nella casetta, mi gira la testa, io non so cosa ci ho addosso, forza non ce n’è, fame non me ne viene: come fa un uomo così a star bene? Ma bisogna scrivere a casa di stare bene. «Che bella giornata che passiamo», pensava Dante, «coraggio, coraggio, ma se andiamo avanti ancora un po’ così, stiamo freschi!» L’amico Gatti incoraggiava Dante ogni volta che lo vedeva e così passarono le belle feste. I giorni 2 e 3 gennaio venivano distribuiti gli oggetti di corredo: maglioni, camicie, calze, mutande, giubbe, eccetera. Ma per liberarsi dai carri armati bisognava lasciare la vita militare, noi eravamo solo padroni di quei begli insetti e basta. Dante teneva le scarpe nuove, ma una l’aveva tagliata perché gli era stretta; così, secondo l’ordine che tutti dovevano avere le scarpe, Dante non disse niente e si arrangiava ad avere due belle scarpe e a non soffrire più il mal di piedi. Dante pensava alla sua Pina, ma posta non ne arrivava mai e pazienza, arriverà anche la posta.
Il giorno 4 gennaio, Dante si sentiva la febbre e chiedeva visita. Vado alla visita e ho la febbre a 38,7. Il medico mi dice di stare rinchiuso e di tornare ancora la sera a misurare la febbre. Va bene! Vado alla sera, la febbre è ancora più alta e il medico mi dice: «Se domani sei ancora così, ti mando all’ospedale». Ritorno, lo dico al tenente, che non mi dice niente. Giorno 5 gennaio: vado ancora per la febbre, forse non ne avevo, e il medico mi chiede se sono del plotone del tenente Tonti.[1] «Signorsì». «Ebbene, allora non posso mandarti all’ospedale, perché ho sentito lui ieri sera e mi ha detto che non vuole che tu gli vada via dal plotone». Quant’era la rabbia di Dante, ma il superiore è superiore e bisogna fare silenzio. Al pomeriggio, l’attendente bersagliere De Grossi partiva in licenza di venti giorni: gli fu detto che sarebbe stata una licenza premio, ma noi sapevamo invece che andava per la morte della sua povera mamma.
Giorno 6 gennaio e bisogna partire. Il tenente mi domanda se sono capace di camminare. «La comandate voi la mia persona, quindi finché non sono morto camminerò!» Il tenente si incazzava un po’, ma Dante ha voluto proprio dirle, queste parole al tenente. Dopo aver mangiato il rancio, fu fatta l’adunata del battaglione, appena fuori dal paese. Il signor colonnello Verdi[2] a nome del povero colonnello Scognamiglio, in licenza per la morte di suo papà, parlava a noi di quanto avevamo fatto. Alla fine del suo discorso si mise a piangere, pover’uomo, per la condizione in cui noi eravamo: «Fatevi coraggio, ragazzi, presto arriverà la vittoria e si parte». L’ordine era di stare molto staccati da un plotone all’altro, per il pericolo degli apparecchi, dato che era una bella giornata. Durante la strada ci siamo incontrati col genio, che stava lavorando, e il caporal maggiore Ansaldi domandava che reparto di genio fosse: era quello di suo fratello, del quale non sapeva più nulla dal giorno 22 novembre 1940, avendolo incontrato nel ripiegamento. L’amico del fratello disse al caporal maggiore che era stato fatto prigioniero dopo due giorni che si erano incontrati e lui ne fu contento, almeno sapendo che era ancora vivo. Pazienza! E, appena possibile, avrebbe scritto a casa alla mamma di quanto aveva saputo. Lungo la strada troviamo le due cucine dei nostri due battaglioni XXIX e XXXI: lì sapemmo che i nostri compagni furono attaccati il 9 dicembre 1940 dai greci, che volevano venire a Lin, ma che furono ricacciati a Pogradec con le bombe a mano dal coraggio dei compagni e che non ebbero più mezzo di riprendere ad avanzare. Lungo la strada non si trovava altro che militari e materiale dell’esercito di tutte le sorti. Dopo tanto camminare e quando era già buio, giriamo a destra su per una stradicciola brutta di sassi e tutti si domandavano dove si stesse andando, sentendo dire che a poca distanza c’era il paesetto ove noi andavamo per accantonarci. Coraggio, avanti sempre! Ma Dante è rassegnato. Con tanto sacrificio arriviamo vicino a una capanna e lì tutto il primo plotone entra, ma la casetta era più stretta della casetta di Lin, eppure tutti dobbiamo stare lì dentro. Il tenente, dopo averci rinchiusi tutti dentro, raccomanda di stare sempre pronti, di non dormire e nemmeno levarsi le scarpe e se ne va via. Tra noi però pensiamo: «Allora noi non dormiamo più! Ma, se ascoltiamo quello lì, stiamo freschi. Fa già freddo anche troppo, dica quel che vuole». Già erano segnati gli uomini che al mattino dovevano scendere sulla strada a prendere il rancio, mattino e sera sempre per il buio, altrimenti, con l’artiglieria greca che stava a Pogradec, sarebbe finita in un macello.
Siamo verso il tramonto del giorno 7 gennaio e un apparecchio gira e romba sopra il paese; la nostra contraerea sparava già, ma staccava lo stesso tre bombe che fecero ballare tutto il paese e tre bersaglieri della terza compagnia rimanevano feriti molto gravemente: per essere il primo giorno, incominciava bene! Alcuni compagni, che stavano fuori a guardare l’apparecchio, si mettono a gridare: «Colpito! Colpito!» e cadde giù, in mezzo alle alte montagne, con tutte e tre le persone che ci stavano sopra che bruciano mentre l’apparecchio arrivava per terra. Giorno 8 gennaio mattino: il tenente viene e pensa di farci fare il rifugio e tutti al lavoro per la causa della pelle, ma la forza di Dante diminuiva sempre, invece di aumentare. Alla sera, dopo la distribuzione del rancio, arriva il tenente, quella bestia! Grida: «Allarmi, fuori tutti, prendere tutto!» Dante, dalla fretta, usciva senza gambali, ma dal buio il tenente non se ne accorse. Ma questo fu solo per una prova e così subito dentro. Il rancio al mattino ce l’hanno tolto e arrivava solo la sera, per quella bella robaccia che ci portavano, c’era solo da essere in ballo per il rancio e soffrire giorno per giorno. La sera del giorno 10 gennaio “… del fiasco che vola, quella notte, a raccontarla tutta, ci sarebbe da scrivere un libro, maledetto quell’ ufficiale!”[3]
Per noi tutti i giorni erano uguali: alla sera, dalle dieci a mezzanotte si mangiava e al mattino dentro al rifugio per ripararci dalle cannonate che arrivavano sopra il paese. Il giorno 13 gennaio arrivò qualche oggetto di corredo, un’offerta fatta dal duce. Alla sera l’amico Gatti mi portava un coperchio di carne di mulo da lui accomodata e come era buona! Il giorno 17 gennaio mattino, il tenente viene a fare pratica d’armi e poi se ne va alla mensa. Nessuno lo aspettava, ma il tenente torna: io ero fuori dalla capanna a lavarmi le mani, tutte sporche di olio dopo aver maneggiato i pezzi dell’arma nell’addestrare i nuovi bersaglieri del primo complemento, che da vari giorni si aspettavano e che erano arrivati la sera prima. Proprio per questo Dante era stato traslocato lì vicino, con tutta la sua squadra: «Schiavi! Presto, armati e vieni con me, subito subito!» Mi domando cosa stia succedendo e sotto la neve andiamo al comando di battaglione, entro dove c’era il maggiore e lui mi consegna in mano un bell’orologio, uno dei tre regalati per ciascuno dei tre battaglioni dalla moglie del povero colonnello. Ringrazio il maggiore, poi il tenente, poi il capitano e via nella mia capanna. Tutti gli amici parlavano, dicendo tutti la loro, chi in bene e chi in male, ma la forza di Dante non aumentava per nessun motivo. Fortuna che in quei giorni incominciava ad arrivare la posta, con la notizia che la sorella passò il Natale tranquilla, avendo ricevuto la cartolina mia del 18 novembre, ché solo quello era il mio pensiero, cioè che la sorella avesse ricevuto mie notizie prima di Natale. Qui la posta cominciava ad arrivare regolarmente tutti i giorni e in seguito Dante riceveva notizie dalle sue care Pina e Gilda, dai parenti, eccetera.
Giorno 20 gennaio: il tenente viene a fare la nota di chi aveva la divisa proprio fuori uso, ma alle 12 e 31 una cannonata entrava dalla finestra della casa dove stava la mensa ufficiali e lì quattro ufficiali rimasero feriti, dei quali il più grave era proprio il tenente Tonti e tutti avevano la loro da dire: chi fa del male riceve del male. Dante, insieme a diversi uomini della squadra, portava il tenente con la barella sulla strada, ché poi, tanto, l’ambulanza lo avrebbe trasportato all’ospedale. Il 21 gennaio mattino, il furiere veniva a fare i vaglia per spedire i soldi a casa, tanto, mezzi per spenderli non ce n’erano e Dante mandava così alla sorella lire trecento. La sera viene il capitano nella nostra capanna e ci porta la notizia che il povero tenente Tonti era morto. Il giorno 23 gennaio un nuovo tenente veniva a prendere il comando del plotone: era il signor tenente Allegri, ufficiale molto buono. Siamo al 30 gennaio, compleanno di Dante, che pensava cosa potesse fare: non la pensai neanche male e inviavo una lettera alla sorella, domandandole di Pina, ché rari erano i suoi scritti e chiedendole di spedire subito un pacco di roba buona, così potrò aiutarmi un po’…
Il 1° febbraio distribuirono delle sigarette bulgare e Dante sempre le regalava ai compagni: niente fumare! Il 3 febbraio Dante va a prendere il rancio e c’è una bella bisticciata tra i compagni: c’era sempre da bisticciarsi a parole, tutto per la brutta vita che tutti conducevano. Che brutti giorni in quella capanna! Sempre acqua e neve: la paglia, che stava sopra la capanna, si bagnava e pioveva dentro. Legna non se ne trovava più, si tagliavano persino gli alberi da frutto e la sera era una guerra a rubarsi le piante uno con l’altro. Giorno 14 febbraio: c’è l’ordine di tenersi pronti ma la partenza non viene. La sera del 15 febbraio arriva una cannonata sopra la casa dove la prima compagnia era accantonata e ci furono due morti e diversi feriti. Il tenente veniva chiamato al comando di battaglione e a sostituirlo veniva il tenente Bologna, uomo molto buono.
Il tempo era sempre brutto, con acqua, neve e vento freddo e Dante aveva sempre poca voglia. La vita nostra che si trascorreva in quella capanna era peggio che quella di un cane. Si dormiva proprio per terra e, dopo mezz’ora che pioveva, era come essere fuori, con i pidocchi che davano l’aiuto dello spirito. Il 22 febbraio, verso sera, ormai si sperava in una giornata passata tranquilla. Già stava per imbrunire, il fuoco era acceso, però alcuni compagni ancora stavano nel rifugio, e arriva una cannonata che, sfiorando la cima della capanna, va a sbattere sull’angolo della casa dove stava il secondo plotone: la capanna non cascò per l’aiuto di Dio, ma alcuni sassi cascarono dal muro, un attimo, un polverone e Dante che si trovava privo di aria, mancandomi il respiro. Coraggio, che anche questa è passata! Andiamo a vedere fuori: della squadra nessun ferito, del plotone due feriti, il Santagata e il Merello, del secondo plotone, il povero Camera era morto e il sergente Piccardo gravemente ferito. Bisogna aiutare i feriti e portarli all’infermeria, i poveretti chiamavano aiuto, ma tutti se ne stavano nel rifugio e nessuno vuole uscire: «Che coraggio da bersagliere avete? Volete proprio lasciar morire i compagni?» Ma in poco tempo i feriti furono giù dal dottore, anche se poi il sergente Piccardo e il Merello morivano dissanguati, strada facendo verso l’ospedale. Il povero Merello lasciava la moglie e una bambina, mentre la mamma, poveretta, era in fin di vita per il dispiacere del primo figlio, già caduto in Africa. Il tenente fa la predica perché tanti non vogliono stare nel rifugio, ma nel rifugio si gelava dal freddo e poi alla vita, ossia alla fede, non ci si dava più importanza. Sono le 22 e poco lontano si vedono dei segnali con dei lumi. Andiamo subito via con il tenente a vedere: erano quei traditori di albanesi che stavano facendo dei segnali. Furono presi e portati dal nostro maggiore. Il giorno 24 febbraio, non una, ma 8 cannonate ed era sempre il solito che sparava: ebbene, tutti fuori dal paese, ma nessuna novità.
Il 25 febbraio, carnevale, e 26 febbraio tutto calmo. Il 27 febbraio fu una giornata d’inferno: un freddo da cani e questa sera tocca a me di andare giù a prendere il rancio… Coraggio! La salute cominciava a migliorare, ritorno con il rancio ed è arrivato il pacco della sorella Rosa e meno male! Dante in poco tempo si prendeva forza e salute, ché i salami della sorella furono altro che una medicina. La poca voglia c’era perché si mangiava poco e malissimo, sempre sete e l’acqua era cattiva.
Sempre si parlava della paura della Turchia, ma il 1° marzo il tenente ci dà la notizia che si sarebbe alleata con noi e un po’ di sollievo è giunto. La posta arrivava tutti i giorni e Dante era già da qualche giorno che ne aspettava dalla sua Pina, chiedendo sempre alla sorella se sapesse qualcosa e sempre con le buone parole. La falsa: «Sì, ci ho scritto l’altro ieri…», ma Dante, anche se era sotto il pericolo minuto per minuto, già una bella lettera aveva preparato per la Pina con quello che pensava, e, nel mandare la notizia alla sorella con i ringraziamenti per il pacco, pure questa venne inviata alla cento idee, che poi, di fronte alla sorella, si scusava e piangeva, dicendole: «Non pensavo che tuo fratello avrebbe compreso questa cosa qua, essendo così lontano e a Dante non scrivo più perché da due settimane il mio vecchio fidanzato mi scrive ancora…» A questo punto la Pina l’avevo già lasciata, ma, venendo a sapere questo, Dante inviava uno scritto alla Pina, ringraziandola e facendole giungere un mondo di auguri. Il 3 marzo arrivò l’ordine che alla sera c’era da partire per andare a dare il cambio alla milizia sul Monte Kalase, vicino a dove stavano i nostri compagni bersaglieri del XXXI battaglione. È notte, si parte tutti silenziosi e si mette a nevicare: fortuna che Dante si era procurato una mantellina, lasciata dai feriti portati all’ospedale, e poteva coprirsi per bene. Si può immaginare la forza che noi potevamo avere, dopo tanto tempo che eravamo stati rinchiusi. Un’ora di cammino e si prendeva una mulattiera, tutto fango, alla distanza di due metri non si vedeva più l’amico che camminava davanti, la fila incominciava ad allungarsi e di tanto in tanto c’era un bersagliere seduto, che non aveva più forza; anche Dante si allontanava dall’amico che aveva davanti e perdeva la mulattiera: fortuna che in quel momento un compagno parlò e Dante ebbe la via da seguire. Ormai eravamo tutti bagnati, Dante perdeva la mantellina e l’amico Monti, che stava dietro, me la raccoglieva e me la consegnava: ringrazio l’amico e avanti. Per la seconda volta, Dante perdeva la mantellina senza accorgersene, né lui e nemmeno gli amici e così fu smarrita. Sono le due del 4 marzo e siamo arrivati in un profondo vallone, dove stava il battaglione della milizia. Il fango che c’era in quel vallone non si poteva immaginare dalla grande oscurità, ma si sentiva nelle gambe e mi ricordo che tre compagni dovemmo andarli a prendere, ché non riuscivano a levarsi dal fango, che era dappertutto: tutti dentro fino al ginocchio e con le forze finite, si erano seduti per terra… Dante si riuniva a tutti i compagni di squadra e poi, in un qualche modo, si passava la notte d’inferno, cercando la mantellina, sebbene bagnata, ma non c’era più. Pazienza! Passò la notte, ma fu terribile. Al mattino c’era da fare la buca per ripararsi e per fare la tenda, che sarebbe poi stata la nostra casa. Picconi ce n’erano pochi e tutti ne avevano bisogno: cerca di qua e di là, con tutta la volontà dei compagni, in poche ore la tenda era fatta.
Le prime ore non si pensava a quello che i compagni dicevano se neppure era da noi provato.[4] Ma non passarono due ore che già due cannonate arrivarono sulla montagna di fronte a noi ed era sempre quel cannone che sparava su Memlishta, il paese dove tante volte mi fece correre nel rifugio; ma qua siamo a posto e tutti si riteneva giusto e necessario starsene in tenda. Il giorno 5 marzo Dante riceve una cara lettera della sorella Luisa che mi avvisa di aver spedito un pacco, che arriverà presto e che presto sarà divorato. Il giorno 8 marzo ricevo la lettera che tanto aspettavo dalla sorella Rosa, che conteneva la risposta di quella tale lettera inviata a Pina. Il giorno 10 marzo un po’ di oggetti di corredo furono distribuiti e Dante ebbe i pantaloni nuovi, andando poi alla sera a prendere il rancio al ponticello.[5]
Il giorno 11 marzo siamo andati a provare le canne nuove delle armi e a mettere così sottosopra i greci che stavano a Pogradec, da dove, fin dall’inizio si erano messi a farci sentire con l’altoparlante la bella canzone di loro intenzione,[6] ma poi, dopo poche settimane hanno lasciato tutto e non si sono più fermati fino ad Atene, ché là ci fu la vittoria.[7]
Il giorno 12 marzo ho ricevuto il pacco della sorella Luisa: qua l’appetito era al cento per cento, la salute ormai ottima, ma il rancio era sempre poco e brutto. Il giorno 15 marzo la terza compagnia subì un violento attacco: tutto fu respinto, ma ci furono tre morti e fra i tre il sergente maggiore Massetto, della prima compagnia, che era andato volontario di pattuglia. Il giorno 16 marzo mattino, il freddo è rigido, tutti stavamo ancora sotto la tenda e mi sento chiamare: era l’amico Maggiorino, che da porta ordini, passava alla sua compagnia: era più di un bel mese che, uno dell’altro, non si sapeva più nulla. Il giorno 17 marzo c’è l’arrivo dei secondi complementi e poi, nella mattinata, arrivarono anche dodici sacchi di pacchi. Dante sapeva che la Gilda aveva dato l’indirizzo mio a una signora e, fra i tanti, c’era anche un pacco per Dante, che da quella signora era spedito. Era tutta roba di indumenti, ma Dante ringraziava lo stesso la signora con una semplice lettera. Il 18 marzo sera una mortaiata veniva a battere proprio sopra la tenda dei bersaglieri Bertoldo, caporal maggiore, Bacchio e Mori, tutti e tre amici vecchi del permanente: la tenda volava per aria, ma per fortuna i tre compagni si trovavano nel rifugio, nessuno fu ferito, però rimasero sbalorditi per qualche ora dallo scoppio del proiettile. Niente di male e anche questa è passata. Giorno 19 marzo, Dante è tutto contento per la foto e una bella lettera della sorella Rosa; nel pomeriggio furono distribuite le mantelline, Dante era senza, avendola smarrita quella brutta sera del cambio e qui mi veniva data una bella mantellina lunga, almeno di notte non c’era più da soffrire il freddo. Il giorno 20 marzo mattina, per la terza volta arrivarono i complementi, che subito vennero in cerca, per vedere se trovavano amici: ad un tratto mi si presenta il Vercesi, già conosciuto al Cardazzo quando abitavo alla Cascina Novo e lì, allegri di tutto, ci spiegavamo del passato, tanto Dante, come il Vercesi. Dante, vedendo il compagno che fumava e tenendomi la scorta di sigarette, offriva al compagno diversi pacchetti e lui tutto contento mi ringraziava. Dante sapeva che il Vercesi era cugino dell’Albertina, che di tanto in tanto mi dava notizie di tutta la famiglia, e qui venne fatta una bella chiacchierata, scordandoci un po’ del pensiero delle cannonate, che partivano da Pogradec con l’accompagnamento del canto dell’altoparlante, che tutte le mattine ci facevano sentire.
Passarono diversi giorni e siamo al giorno 25 marzo. L’ordine venne per dare il cambio al XXIX battaglione, che già da vari giorni aspettavamo, e verso sera tutte le tende furono disfatte: il tempo era poco bello, ma ordini sono ordini e siamo in guerra. Tutti eravamo pronti ad aspettare il buio, ormai la giornata l’avevamo passata e tre cannonate frantumavano quattro tende del XXXI battaglione, causando tre morti e diversi feriti. Dei tre morti, uno era dei complementi ultimi arrivati e anche di lui, povero ragazzo, si seppe che lasciava la moglie vedova e un bambino. Intanto il tempo era diventato brutto e già stava cadendo acqua, ma c’è l’ordine che non si dà più il cambio e che lì dobbiamo farci la tenda alla bell’e meglio, sotto l’acqua e tutto al buio; ma, con la pratica ormai, in breve tempo anche la casa fu fatta. Qua viene il ritardo del rancio, che arrivò solo alle tre del 26 marzo: rancio brutto, freddo, ma “mangia ‘sta minestra o salta ‘sta finestra”. E venne mattino che tutti si dormiva e poi, la sera, a dare il cambio: di nuovo le tende per aria e in poco tempo tutto fu pronto. Alle otto partenza, un’ora e mezzo di cammino, arrivati al posto, lì, squadra per squadra, tutti furono destinati alle loro postazioni. Dante aveva la postazione sotto un grosso albero e fece la feritoia per l’arma, tagliando la pianta e ben rinforzando la postazione con tronchi e con sacchetti di terra. Intanto la notte passò: coraggio! Sebbene qui siamo al brutto, con più di duecento metri di camminamento per andare a dare il cambio alle due sentinelle, che di continuo mantenevano l’allarme.
Dopo giorni duri e cattivi e tanta fame, venne anche la notizia che ai primi di aprile ci sarebbe stato il cambio della fanteria, ma intanto, tutti i giorni, c’erano dei morti delle nostre compagnie fucilieri. Siamo all’alba del 30 marzo e la giornata nasce limpida, con un bel sole che luccicava dappertutto. Ma, verso le nove, arrivò l’ordine d’allarme e di mettersi tutti in postazione e tutti subito furono al loro posto. Nessuno pensava alla morte, tutti pronti, serviva solo impiegare le nostre Breda. Neanche mezz’ora che si aspettava e la sorpresa furono più di venti colpi di mortaio erano indirizzati a noi, ma sette fecero toppa e penetrarono nel terreno senza esplodere, mentre solo uno degli altri batteva sull’orlo del camminamento e colpiva due compagni con il terreno alzato, causando leggerissime ferite alle mani. Noi eravamo proprio vicino al Lago d’Ocrida, il lato debole, ma alla nostra destra si sentiva un mitragliamento che durò per nove ore. Quante munizioni furono mai adoperate! Alla sera tutto era in silenzio e sapemmo che quei furbi di greci avevano attaccato con un battaglione per tentare di sfondare: ma tutto fu distrutto e non più di cento uomini riuscirono a scappare indietro, al paese di Pogradec. Mai paura, anche oggi è passata!
Qua si sapeva che la notte del 31 marzo doveva venire il cambio e tutti si aspettava quell’ora, ma, come era stato per noi, fu così anche per quelli e solo la bella notte del 1° aprile arrivò il cambio. Con la calma della fanteria, il cambio venne dato dopo la mezzanotte e anche di più. Ma guarda come va! E poi giù, appena la compagnia fu adunata. A causa del ritardo del cambio, hanno poi dovuto tirarci il collo e fu nostra fortuna e poi nostro interesse, per andarcene presto fuori dal pericolo, perché la strada era sempre battuta dallo stesso cannone che aveva battuto su Memlishta e che tutto il giorno ci aveva tenuto nel rifugio. Dopo tanto camminare, tutti sfiniti, finalmente siamo al sicuro. Arrivò il caffè, dopo a fare le tende e attenzione a fare le turche, ché devi coprirle, per non essere visti dagli aerei. Intanto si venne a sapere la bella notizia della Jugoslavia, la porca che anche lei in poco tempo fu distrutta.[8]Mi ricordo che la giornata era bella e poco lontano c’era un bel canale d’acqua: era il 2 aprile e possiamo immaginare come può essere l’acqua, ma, per il desiderio di pulirci, ci siamo spogliati e dentro a farci un bel bagno! Alla fine, ci siamo accontentati di un po’ di pastasciutta, spezzatino, vino e sigarette, ma tutti eravamo malinconici per la prossima partenza per destinazione ignota.
Partenza appena mangiato e i piedi piangevano dal tanto cammino, eppure bisogna andare avanti. Coraggio! Abbiamo fatto il giro da Lin e poi sotto la salita giunsero a prenderci i camion. Per plotone ci hanno caricati come le bestie e avanti! Dopo due ore di strada, alt! Siamo scesi, erano le dodici e qualche minuto, i camion sono partiti e noi lì vicino, su di un dosso, ci siamo riposati sotto le stelle brillanti. Venne mattino, tutti a fare le tende e con le frasche a coprirle, mentre da lontano si sentivano tremare le cannonate. Ebbene, la giornata passò prendendo la decade e ricevendo una bella lettera dalla Gilda e una dall’Albertina, e subito ho risposto. Nella serata, il secondo e il quarto plotone andarono a prendere postazione in rinforzo della terza e della prima compagnia; Dante è del primo plotone, quindi riposo e forse questa notte la passiamo sotto la tenda. Durante il giorno alcuni compagni avevano rastrellato delle foglie e la notte passò, riposandoci dalle fatiche fatte.
Siamo al giorno 5 aprile. Il maggiore ce l’aveva con la quarta compagnia, sapendo che era in cerca di una cima dove piazzarla: così fu che alla sera, dopo il rancio, si prepara tutto e si parte. Dopo tre quarti d’ora di cammino siamo al posto e fortuna che abbiamo trovato la postazione fatta dalla fanteria. Subito fu piazzata l’arma e in qualche modo la notte passò. Ormai c’erano delle belle giornate e il freddo si può dire che stesse scomparendo. Il 6 aprile tutti al lavoro, a rinforzare la postazione e a metterci alla meglio per dormire. Il rancio arrivava poco lontano, proprio vicino alla postazione della seconda squadra. La sera del 7 aprile una notizia poco bella si seppe dal maggiore della fanteria, alla quale noi eravamo di rinforzo. E neanche passò mezz’ora che arrivò l’ordine di partire. Tutto il materiale e avanti, subito pronti. Aspettiamo la fanteria, ma era una babilonia che non ci si capiva niente. In qualche modo si va avanti: si pensava sì alla guerra, ma in un certo modo! Non lontano un chilometro, tutte le armi furono impiegate in una sparatoria da pazzi. L’arma della seconda squadra non c’è verso di farla sparare, il caposquadra smonta di qua e di là ma non riesce a farla funzionare, mentre l’arma di Dante aveva sparato già sei cassette di munizioni. Mi viene in mente di avvisare il compagno, gli dico di guardare se la valvola era a posto. E così fu, che la valvola del gas era tutta aperta e che non c’era abbastanza forza per far sparare l’arma e l’arma allora sparò. Eravamo in un posto poco bello, c’erano stati già diversi feriti nella fanteria e il fuoco sempre continuava. Il comandante della compagnia di fanteria vuole fare andare avanti noi, che abbiamo le armi di accompagnamento, ché i suoi fanti, che hanno i fucili mitragliatori, non riesce a mandarli avanti. Quasi tutte le munizioni erano consumate e il comandante della compagnia ha mandato un portaordini dal maggiore a chiamare rinforzo. Andò a portare questi ordini il bersagliere Degrossi, che da pochi giorni era ritornato dalla licenza per la morte della mamma quando eravamo a Lin. Andando giù, una pallottola gli spaccava tutto il calcio del moschetto e anche lui se l’è vista davanti bella. Intanto la nostra artiglieria batteva senza tregua poco avanti di noi. Con l’aiuto dell’artiglieria il fuoco cessò e venne il tempo buono per scavalcare la montagna e aggirare anche questi begli jugoslavi e avanti. L’unica novità era quella del bersagliere De Grossi[9]. Questo fatto avvenne in tre orette, non di più, ma intanto si faceva notte e sempre si va avanti. Il tempo è brutto e si mette a piovere, eravamo vestiti appena appena e si metteva a fare un freddo da pazzi: ci siamo fermati vicino a una casa fracassata dai colpi di artiglieria ma non c’era verso di riposare.
Intanto i fanti avevano già preso una decina di prigionieri, tutte facce da delinquenti, uomini brutti,[10]e due fanti li hanno accompagnati giù al comando di battaglione. Si passò una notte da barbari, senza niente, nemmeno la mantellina. Il nostro compito era di arrivare alla cima e già c’eravamo, ma il tenente vuole andare avanti ancora e allora al mattino sempre avanti, Trovammo qualche morto: uno aveva la testa tutta fracassata, due erano a terra abbracciati: non erano della nostra razza, ma facevano sempre compassione![11] Nella mattina erano già stati fatti più di cento prigionieri. Due giorni di guerra con la Jugoslavia e arrivò l’ordine di ritornare indietro. Già siamo al giorno 8 aprile e siamo tutti riuniti: «Avanti! Fare in fretta!» Si incomincia a partire, la prima squadra avanti, ma tutti avevamo ancora da metterci tutto il materiale in spalla… «Sotto! Sotto!» Ma c’era buio e la fila sparì. Si camminava, ma non si sapeva dove si andava. Cammina e cammina, ma ci eravamo persi in sei della squadra, quando il destino ha voluto che mi senta chiamare da un compagno che mi veniva a cercare. Finalmente il cuore si calmava di battere e si segue l’amico, andando a raggiungere la compagnia e il battaglione. Il mattino del giorno 9 aprile, il battaglione è tutto riunito davanti alla postazione che avevamo preso il giorno 5 e lì c’era un bel largo, dove eravamo tutti riuniti. Arrivarono sei o sette apparecchi inglesi, tutti ci cercavamo un punto al riparo, ma per fortuna son passati per andare a bombardare le casermette di Perrenjes. Al loro ritorno sono passati bassissimi e bisogna dire che non hanno voluto mitragliarci, altrimenti diventava un cimitero. Allora il maggiore ha dato l’ordine di ritirarci da quel momento sotto la montagna, ma mangiare non si mangia più, passa mezzogiorno e tutti riuniti, ché presto si parte. Avanti le compagnie leggere e poi avanti noi della “mitraglieri”, dopo due chilometri di strada si prende per una lunga e alta montagna, di tanto in tanto qualche alt, c’era da fare attenzione, era guerra e non istruzione![12] . Viene notte, il battaglione stava proprio sopra la montagna, il nemico ci ha visto e si mettono a mitragliare. Alt! Subito dietrofront e in un attimo il battaglione spariva dietro la montagna e per fortuna nessuna novità. Qua siamo al riparo, ma tutti smorti, facce da cadaveri, due giorni che non si mangiava e quasi sempre tempo brutto, forze non ce n’erano più. Credevamo di fermarci lì e che sarebbe arrivato qualche cosa da mangiare… Altro che mangiare: dopo una mezz’ora che era buio, ormai, si gira dalla parte opposta della montagna; il fuoco era cessato e avanti fino alle tre del mattino. Si camminò, sempre sotto l’acqua e la neve, carichi come le bestie, siamo sfiniti, ma sempre coraggio! Siamo fermi sotto un cespuglio, ci mettiamo il telo in testa e abbiamo riposato lì.
Siamo al mattino del 10 aprile, siamo quasi a Pasqua: che bei giorni che passiamo! Cosa si pensava? Solo che arrivasse qualche cosa da mangiare, ma altro che mangiare, gli ufficiali si mettono a gridare: «Sveglia! Adunata!» Alziamo il telo che sembrava un pezzo di latta, era rigido come un merluzzo, tutto bianco: una bella nevicata, un freddo cane. Il battaglione è tutto riunito, ogni compagnia si prende la sua roba pronta e avanti. Noi siamo con la terza compagnia, si segue con le armi a portata di mano, un freddo veramente insopportabile, nevicava alla più bella. La pancia era vuota, la testa girava come una giostra; eppure, bisognava farsi coraggio e camminare su una mulattiera tutta piena di fango, tutti sporchi e bagnati. Siamo verso le dieci e ci troviamo in un pineto fitto fitto, ma c’era un tratto scoperto di mulattiera, prima di entrare nel pineto e ci hanno visti entrare lì: ci hanno lasciato entrare e poi si son messi a sparare con moschetti e mitraglie a gran forza. Le pallottole fischiavano a più non posso, ognuno pensava di ripararsi dietro le piante e giù a terra, per salvare la pelle stavamo ben radenti a terra sebbene ci fosse la neve e anche con la testa dentro la neve. Lì arriva anche il nostro maggiore e vederlo in piedi sembrava neanche di essere in guerra, vedere lui così coraggioso per noi era un aiuto: la paura spariva tutta e ognuno faceva quello che gli era detto. Siamo fuori dal pineto, un colpo di vento fa sparire tutta la nebbia e vediamo i porci jugoslavi[13] che scappano giù e poi sopra l’altra montagna; ma loro, che scappavano, andavano più forte di noi: quando si tratta della pelle, lasciamo tutto e via. Siamo giù nella vallata opposta, piazziamo le armi, qualche fucilata si sentiva fischiare vicino alle orecchie. Passa un’oretta e tutto è calmo. Si vedono sei o sette slavi scendere dalla montagna alzando il fazzoletto bianco e venire incontro a noi. Il caporal maggiore Malaguti, coraggioso, gli correva incontro e li prendeva, accompagnandoli da noi, tutti pronti con le armi, tanto la compagnia leggera che noi nelle nostre tre buche. Arrivano ‘sti sei o sette, vicino hanno il tascapane pieno di pane e lì tutti addosso a loro. Questi poveri disgraziati offrivano il pane a noi che glielo portavamo via e intanto qualcuno si sfamava un po’ con quel pane giallo. Spogliati, questi furono accompagnati al comando di battaglione. Di fronte alle nostre armi stavano diverse armi automatiche, ma i superiori, vedendo che diversi prigionieri scendevano da noi, cessarono il fuoco e così in tre uscivano dalle postazioni innalzando il fazzoletto bianco. Il caporal maggiore Malaguti, coraggioso, parte deciso e gli corre incontro, ma, invece di avvicinarsi con buone maniere, appena è vicino a quei tali, gli mette le mani addosso, il tutto per saccheggiare qualche cosa di valore o del pane. Dietro a questo tale stava un’ufficiale dei loro che, vedendo questo atto, spara un colpo: il Malaguti se la dà a gambe, ma perché la fortuna lo ha lasciato scappare e quello sparò così a casaccio, altrimenti, alla distanza sì e no di otto o dieci metri, anche se lo avesse puntato alla bell’e meglio, avrebbe potuto senz’altro prenderlo. Ripeto, il destino ha voluto che il Malaguti ritornasse accanto alla sua arma, che era proprio di fianco a una casetta, piazzata appena sopra la mia.
Dopo questo fatto fu aperto un fuoco terribile che durò per un due ore e adoperando tutte le bombe a mano, perché tentavano di venire avanti. Ma furono respinti, sebbene avessero adoperato anche i loro mortai per colpire la casetta. Già diverse cassette di munizioni furono sparate, quando il fuoco cessava un pochino; mi allontano dall’arma per andare a chiamare il bersagliere Degli, affinché venisse a dare il cambio al Randazzo, ché ormai eravamo tutti bagnati. Lui stava nella casetta, un ragazzo molto pauroso, in più pensava alla sua cara moglie, che aveva sposato per procura nel mese di febbraio per essere tranquillo di aver compiuto il suo dovere e che sperava un giorno di tornare a casa. Contento di tutto, parte per andare a sostituire il compagno, è quasi al posto, ma si accorge che non si è preso il moschetto; allora ritorna indietro, sta per staccare il moschetto che stava appeso al muro dietro alla casetta, quando arriva un colpo di mortaio che lo butta per terra. Si mette a gridare: «Aiuto!» e tutti corrono ad aiutarlo. Si lamentava della gamba destra, altre ferite niente. Era una ferita neanche grave, perché l’osso non fu toccato, ma lui subito si perse di coraggio e, con tutte le nostre parole di conforto e di coraggio, il Degli veniva portato dai compagni giù all’infermeria.
Questo era il bel giorno del 10 aprile, fra tre giorni è Pasqua. Erano le tre, cessò il fuoco e decisi, con l’ordine del tenente, di spostare le armi un po’ più sopra, al fianco della compagnia leggera. Dante piazzava l’arma proprio vicino ad una grossa pianta e con grossi sassoni fu fatta la postazione, pensando che la notte si doveva passarla lì. Si fa notte, pazienza, rancio non ce n’è, forza non ce n’è più e come si fa? Eppure, bisogna resistere, ma si dormiva al freddo e tutti bagnati. Al nostro fianco sinistro, lontano un cinquecento metri, c’era la fanteria e alla notte ebbero il loro rispettivo rancio.
Erano le due dell’11 aprile e Dante, sentendo muovere marmitte e bidoni e senza dire niente a nessuno, si prende le gavette, la sua e quella dell’amico Barbero, si avvicina verso dove sentiva il rumore, prende una mulattiera, tutto buio, cammino, faccio un duecento metri e trovo due muli: «Qua vicino c’è qualche cosa!» E così fu. Dante si avvicina al cuciniere a chiedere un po’ di rancio e lui mi dice: «Lì ci sono le marmitte, prendi, perché tanto ce n’è in più!» Dante si riempie le gavette e poi col coperchio di una gavetta pescava nella marmitta il riso ancora bel tiepido e se lo beveva come bere del liquore del più buono che ci possa essere. Il cucchiaio non c’era bisogno di adoperarlo, con la fame che c’era sotto, te lo dico io, giù e giù dei coperchi di riso e, senza dire quanti ne ho mandati giù, mi sono veramente riempito. Il cuciniere, vedendomi così affamato, mentre mi alzo e prendo le gavette ringraziandolo, mi dava ancora due pagnotte. Allora Dante, che si trovava in tasca un pacchetto di sigarette, le offriva al cuciniere, che le prendeva e mi dava in mano un fiasco, dicendo a Dante di bere. Dante, senza chiedere cosa fosse, se lo mette alla bocca e giù un bel fiato: era cognac. «Ora ti ringrazio, tanto posso stare ancora altri tre giorni che non soffro così tanto come i tre passati!» Prendo le gavette, di nuovo tante grazie e tanti auguri. La testa non girava più dalla fame ma dal cognac bevuto in un attimo. Mi sono trovato dall’amico, lo sveglio e gli dico: «Toh, se vuoi mangiare!» L’amico domandava come facessi ad avere il riso e il pane e gli spiego tutto. Intanto si mangiò una gavetta di riso e mi disse: «Ora sto meglio di prima, bravo Schiavi!» L’altra gavetta fu coperta e messa vicino alla pianta, le due pagnotte nel tascapane e ci mettiamo a dormire. Dante subito si addormentò e giù freddo.
Vennero le sette, è giorno, e arrivò la nostra cucina col rancio. L’aiutante maggiore Tobia portò l’ordine che, appena consumato il rancio, bisognava partire e ritornare al posto della partenza. fare riunire tutto il battaglione e prendere la strada, ché il nemico ormai stava a tutta forza ripiegando. Va bene! Dante pensava di ritirare tutto quanto c’era per la squadra: brodo, carne, pane e due razioni di vino. La carne, un pezzo bel magro, l’ho mangiato senza fame e poi un fiato di vino: il resto l’ho lasciato nella borraccia, il pane nel tascapane, che fu riempito per bene. In poco tempo tutti eravamo pronti per la partenza. Dante si trovava bene, era contento che poteva avere un po’ di forza e non affaticarsi tanto nella marcia. Sono le nove, si parte su per la mulattiera e in poco tempo il battaglione si riunì e allora giù per la lunga montagna tutta bianca, piena di neve, che ancora stava cadendo alla più bella.
Note
[1] Tenente Francesco Tonti. – Comandante del plotone di Dante, già incontrato il 3 settembre 1940, in occasione della bruciatura alla mano di Dante. Nel libro di Quaglino è indicato come Tondi, ma è un errore. Nato il 12/03/1911 a Perugia – Data di Decesso/Dispersione: 20/01/1941- Luogo Decesso: Albania – Luogo Sepoltura non noto. – Motivazione della decorazione con Croce di guerra al V.M.: “Tonti Francesco fu Luigi e di Piera Brunamonti, da Perugia, sottotenente 4° reggimento bersaglieri ciclisti. – Comandante di plotone mitraglieri, concorreva validamente la difesa di un’importante posizione. Giunto il nemico, superiore in forte e mezzi, a pochi metri dalle postazioni delle armi, con l’esempio del suo coraggio animava i dipendenti, già duramente provati, con tale spirito combattivo che il nemico veniva ributtato con forti perdite. – Monte Furka (fronte greco), 15-21 novembre 1940-XIX.
[2] Tenente Colonnello Ugo Verdi. – Era originario di Vergomberra, frazione di Canneto Pavese, comune confinante con Stradella, ma Dante non conosceva probabilmente questa vicinanza di origine e non ne fa mai cenno. L’ufficiale rivela un animo buono e grande empatia, doti che purtroppo lo avvicineranno ad una tragica fine nel 1943. In questo momento fa parte del comando di reggimento, poi passerà al comando del XXVI battaglione e quindi a quello del reggimento.
[3] “… Del fiasco che vola, quella notte, a raccontarla tutta, ci sarebbe da scrivere un libro, maledetto quell’ ufficiale!” –
Alcune parole, una riga in tutto, che precedono la frase virgolettata non consentono al momento una trascrizione intelligibile dell’intero periodo, anche se già da quelle riportate si può capire che fu una nottata almeno movimentata.
[4] Non si pensava a quello che i compagni dicevano se neppure era da noi provato. – La frase, riportata testualmente come scritta sul diario, vuole probabilmente come “provare per credere” o forse, più specificamente: “Non facevamo così tanto caso a quello che raccontavano gli altri, perché non l’avevamo provato su noi stessi, ma adesso…”
[5] Andando poi alla sera a prendere il rancio al ponticello. – Il tragicamente celebrato “Ponticello dei bersaglieri” viene citato adesso direttamente anche dal papà: c’era stato anche lui, con la sua storia nascosta in mezzo al dramma di tanti.
Dopo averne letto tanto su diverse fonti, l’avevo relegato al ruolo di uno tra i tanti episodi della guerra cui mio padre aveva partecipato, proprio lì vicino, col suo reggimento… Mi domandavo se ne fosse stato a conoscenza… Ma, mentre lo pensavo, sentivo quella stretta, già così nota, alla bocca dello stomaco, che saliva fino agli occhi e li spremeva fino alle lacrime. Non tanto per il timore che egli ne fosse stato invece coinvolto e diretto testimone, ma perché l’episodio andava ulteriormente a caricare il già stracolmo fardello della sua storia nascosta, così difficile da raccontare per lui e rimasta inascoltabile da me, per avermi saputo trasmettere un senso preventivo di rifiuto all’ascolto, più forte della curiosità che certi isolati episodi raccontati – e bruscamente interrotti – mi suscitavano. Quel senso che oggi è solo rammarico e rimpianto per aver collocato tutto in un film, drammatico finché si vuole, ma sempre un film, terminato di girare il quale, poi, si ritorna a casa. Raccontare avrebbe voluto dire ricordare, ricordare voleva dire rivivere e questo era difficile. E troppo sarebbe stato rispondere alle mille mie domande, quelle che vorrei fargli adesso e di cui vado ossessivamente cercando in giro le risposte di altri.
[6] La bella canzone di loro intenzione. – “Intenzione” per “propaganda”?
[7] Dopo poche settimane, hanno lasciato tutto e non si sono più fermati fino ad Atene, ché là ci fu la vittoria. – Dante, come descritto nella prefazione, scrive (o trascrive) i diari di cui noi disponiamo parecchi mesi dopo il verificarsi degli eventi descritti e lo fa seguendo un rigido percorso cronologico, concedendo rare eccezioni: sinora lo ha fatto in un paio di occasioni, quando, citando il colonnello Scognamiglio (e sua moglie, nell’episodio dell’orologio regalatogli), gli attribuisce l’aggettivo “povero”, in quanto già lo sapeva morto il giorno 20 aprile 1941, successivo alla fase degli eventi che sta narrando, ma antecedente i periodi in corso di narrazione. Adesso si concede un altro salto in avanti, probabilmente sia per lo spirito di rivalsa nei confronti della propaganda greca, così tragicamente e a lungo sopportata, sia per conformismo verso quella fascista, la (presunta) “vittoria”. In realtà, quest’ultima meta, al di là della propaganda di regime, viene citata spesso nella memorialistica di guerra (come fa anche Dante) quale elemento per cui vale la pena sopportare di tutto e quale premio finale che manderà tutti a casa. Molti storici lo confermano e sostengono che la “vittoria” era l’unica vera spinta morale che poteva dare slancio, insieme allo spirito di corpo e al senso del dovere, a tutti quei soldati malamente mandati allo sbaraglio, affamati, nel fango e nel freddo, a combattere contro un nemico aggredito che, dovendo invece difendere le proprie case e le proprie famiglie, di motivazioni ne aveva ben altre, e ce ne accorgemmo. Ancora nel 1942, quando redige i diari, Dante pare quindi credere ancora nella “vittoria”, così come ci credeva al momento dei fatti narrati.
[8] Jugoslavia, la porca che anche lei in poco tempo fu distrutta. – Oltre che richiamare la precedente nota, sia per l’aspetto prolettico della narrazione, che per quello della propaganda, questa frase offre l’occasione anche per registrare, qui come in altre parti, il fatto che Dante appelli talora i nemici come “porci”, “Giargianesi” o “di un’altra razza” (salvo poi riconoscerne la furbizia in altre occasioni o averne compassione in altre). Qui ci sarebbe dunque da aprire il tema amplissimo della retorica fascista sulla popolazione (quanto colpevolmente?) inconsapevole; in particolare ci sarebbe da capire bene come tale retorica abbia potuto attecchire con tale profonda naturalezza in tutti gli strati sociali, anche in quelli rurali, più isolati, fatti di soggetti dediti solo al lavoro della terra e, magari come Dante, al piacere del ballo, così lontani dall’impegno politico diretto, fino a sistematicamente bigiare il sabato fascista. (Rimandano a questa nota anche altri richiami aventi come oggetto questo argomento o ad esso collegati.)
[9] Bersagliere De Grossi. – Non è chiaro a quale fatto di riferisce: sono armai passati quasi quattro mesi da quando il De Grossi fece ritorno dalla licenza di venti giorni concessagli per la morte (tenuta segreta) della sua mamma.
[10] Vedere nota 8.
[11] Idem c.s.
[12] Di tanto in tanto qualche alt, c’era da fare attenzione, era guerra e non istruzione… – Questa riflessione mi riporta a un quesito già segnalato nella prefazione, ossia come Dante, nel momento in cui racconta di eventi accaduti parecchi mesi prima, possa recuperarne e riportarne i precisi dettagli, comprese le date e le ore. Scartata l’ipotesi di appunti scritti in diretta, viste le condizioni, spesso ai limiti della sopravvivenza, nelle quali si è a lungo trovato (impensabile che uno possa scrivere in mezzo al fango, sotto la tormenta, con il nemico che ti spara, bagnato fradicio e tutto il resto che abbiamo letto), risulterebbe accettabile l’idea che possa aver fatto ricorso a registrazioni ufficiali di reparto. Ma solo parzialmente, però, in quanto, se per movimenti ed azioni collettive c’è senz’altro traccia nei rapporti, per le situazioni individuali di ogni singolo soldato all’interno di un reparto non ci può essere nulla di circostanziato per data e ora. E qui, in questo caso, siamo ancora una volta davanti ad una delle tante riflessioni individuali, ai tanti pensieri, collocati in un preciso giorno e legati ad un dato momento. E se per dei generici “Coraggio!” o “Pazienza” possiamo pensare ad una loro quasi scontata collocazione, in altri casi la riflessione e il pensiero sono confezionati al singolo momento e legati allo specifico evento di cui narra. Si vedano ad esempio le varie e diverse riflessioni circa gli scambi epistolari postali, oppure quelle che, pur scaturite in un contesto ricorrente molto simile, come il freddo, le camminate al buio, la paura, le cannonate, risultano ogni volta originali e diverse l’una dall’altra. Qui, in questa nota, evidenziamo un’ulteriore particolarità in tal senso: in un contesto generico e ricorrente di paura e di necessaria attenzione, una altrettanto ricorrente e generica “era guerra” è solo metà della riflessione, mentre l’altra metà, “e non istruzione”, costituisce una sottolineatura che appare solo in questo specifico caso, pur se adattabile a decine e decine di frangenti e di contesti simili.
[13] Vedere nota 8.
Il quadro degli scontri principali sostenuti dal 4° bersaglieri:
1 – Massimo avanzamento con il XXXI btg nella zona di Erseke (17/11/40).
2 – Combattimento del XXVI battaglione al Monte Furkes, (15-22/11/40).
3 – Sganciamento dal nemico nell’abitato di Corizza (ore 7 del 22/11/40).
4 – Battaglia di arresto sul Guri i Bresaves, dopo il ripiegamento (dic. 40).
5 – Difesa dagli attacchi sul Monte Kalase (inverno 40-41).
6 – Offensiva sul fronte jugoslavo (aprile 1941).
I combattimenti del marzo 1941 e l’attacco sul fronte jugoslavo (Quaglino)
Se finora abbiamo sempre parlato di guerra di posizione per indicare l’immobilità della linea del fronte, ciò non significa che durante i mesi invernali tutto sia rimasto tranquillo in attesa del bel tempo. Al contrario, abbiamo già accennato precedentemente alle azioni offensive che i greci hanno continuamente intrapreso contro il nostro fronte, nel persistente seppur vano tentativo di operare uno sfondamento in un qualsiasi punto del nostro schieramento per raggiungere il successo. Ma ovunque, con furiosi contrattacchi, il nemico è sempre stato respinto, fermi restando i nostri soldati sulle posizioni raggiunte ai primi di dicembre. Unitamente a queste offensive, i greci hanno approfittato di questi mesi invernali per prepararsi alla grande offensiva di primavera.
[…]
Poi a poco a poco l’esercito italiano è stato organizzato per l’offensiva in attesa del momento buono. Già alla fine di gennaio i greci avevano tentato di sfondare in modo decisivo il nostro fronte per aprirsi la via verso Valona, ma il nostro comando aveva prontamente reagito con il sanguinosissime azioni offensive di chiusura. Ma ormai marzo è arrivato e c’è qualcosa nell’aria che indica novità. È vero che Mussolini ha detto “A primavera viene il bello”, ma, a parte ciò, effettivamente si sente un intimo desiderio di reazione dopo questi mesi di immobilità.
[…]
Intanto il 5 marzo il XXVI battaglione lascia la sua posizione di rincalzo a Memlishta e si porta in linea sul Kalase, affiancandosi agli altri due battaglioni.
A metà marzo il colonnello Scognamiglio riceve la triste notizia della morte del padre e lascia il comando di settore per una breve licenza per gravi motivi di famiglia.
[…]
Frattanto in Jugoslavia la situazione politica e militare raggiunge una svolta. Per comprendere quanto sia importante per noi una determinata situazione in Jugoslavia basta dare un’occhiata a qualsiasi carta geografica dalla zona: la frontiera jugoslava circonda l’Albania dall’Adriatico sino al Lago d’Ocrida e un arco attraverso il quale ben cinque vie di comunicazione, attraverso le montagne, immettono in territorio albanese. In caso di conflitto permettono il passaggio di truppe nemiche che prenderebbero alle spalle tutto lo schieramento del nostro esercito in Albania, con conseguenze facilmente immaginabili. Già da qualche tempo, però, il nostro comando era stato informato che la Jugoslavia veniva effettuando segretamente un piano di mobilitazione generale e riteneva che per la seconda quindicina di marzo la Jugoslavia potesse contare su di un milione e più di uomini sotto le armi. Pertanto, allo stato attuale della situazione, il comando italiano si è ritrovato nella necessità di rivedere quello schieramento che aveva organizzato e curato nei minimi particolari contro l’esercito greco, dal Lago d’Ocrida settore Pogradec sino all’Adriatico. Si era aperta cioè una nuova frontiera, quella di cui si è accennato poc’anzi che, partendo dal Lago d’Ocrida, si spinge a ritroso sino al lago di Scutari. Il comando italiano allora improvvisò un nuovo sistema difensivo per poter fronteggiare eventualmente un conflitto armato con la Jugoslavia, costituendo tre nuovi corpi d’armata con sedi a Scutari, Alessio e Librashd, proprio dove si trova la base del 4° reggimento bersaglieri, vicinissime quindi al confine jugoslavo. Ma gli eventi precipitano e a Belgrado si ha il colpo di Stato cosiddetto dei generali. A meno di un miracolo, la guerra con la Jugoslavia può ritenersi imminente. Il comando italiano segue con viva apprensione il punto più nevralgico di tutto lo schieramento, cioè quello verso il Lago d’Ocrida. Sa che i serbi hanno intenzione di attaccare proprio nella zona di Librashd sino al Qafa Thane e, attraverso la strada che costeggia il lago, ricongiungersi con i greci a Pogradec. E questo è proprio il settore ove è dislocato il 4° bersaglieri…
[…]
Mentre intanto si attende con ansia un segno di distensione nella situazione jugoslava, verso la fine di marzo i greci sferrano un attacco massiccio contro tutto il settore del terzo corpo d’armata, cioè nel settore che va da Guri i Topit a Pogradec. I greci non badano perdite e buttano nella fornace battaglioni su battaglioni. Sul Guri i Topit gli alpini respingono sanguinosamente l’attacco del nemico, mentre sul Kalase i nostri bersaglieri resistono eroicamente all’attacco greco. Si sa che siamo finalmente all’inizio di qualcosa di risolutivo e che per il 4° bersaglieri è venuta nuovamente l’ora di dimostrare il suo valore. Ma prima bisogna riorganizzarsi, dopo il terribile inverno sul Kalase. Si inizia così la manovra di sganciamento dei battaglioni, cominciando col XXIX, che nella notte del 26 marzo lascia la linea del Kalase ed a piedi raggiunge Lin, nei pressi del quale sosta all’addiaccio. Il giorno seguente, 27 marzo, il colonnello comandante rientra in linea e riassume il comando del reggimento. Nuovamente i bersaglieri lo vedono in mezzo a loro con la sua parola trascinatrice, col suo esempio, col suo ardimento. Il suo stato di salute è peggiorato, ma in queste ore importanti e decisive egli vuole essere presente alla testa del suo 4° bersaglieri. Nel pomeriggio il colonnello Scognamiglio, insieme al comandante del XXIX battaglione, maggiore De Martino, si reca a riconoscere la località ove il reggimento dovrà riunirsi per riorganizzarsi, cioè in Val Kraponi, a dieci kilometri dopo Librashd, sulla strada di Piscopat verso il confine jugoslavo. Rientrano alle ventidue
Alle prime ore del giorno 28 marzo il il XXIX battaglione, su autocarri forniti dal comando del terzo corpo d’armata, inizia il trasferimento verso la nuova zona. Nel pomeriggio il colonnello comandante si reca nuovamente in Val Kraponi per disporre la dislocazione della compagnia motociclisti e del XXXI battaglione. Il tempo è bello e questo favorisce le operazioni. Il 29 Marzo, all’alba, la compagnia motociclisti, in parte con i propri mezzi, di in parte su autocarri, si trasferisce nella nuova località designata. Nella notte intanto avevano lasciato la linea la 9a e l’11a compagnia del XXXI battaglione, accampandosi presso Lin, in attesa di proseguire per la Val Kraponi. Nella notte successiva scendono la compagnia comando del XXXI battaglione e la 12a compagnia. Purtroppo la prospettiva di avere qualche giorno disponibile per riorganizzare il reggimento svanisce subito. Gli avvenimenti incalzano ed è ancora il 4° bersaglieri che viene impiegato in queste circostanze, nonostante le condizioni fisiche dei reparti, i quali necessitano veramente di un po’ di riposo.
Il 30 marzo un nuovo attacco greco viene sferrato nel settore centrale della divisione Venezia, il cui comando sospende immediatamente l’ordine di movimento del reggimento, mentre il XXXI battaglione deve mantenere l’attuale dislocazione. Occorre anche avere a disposizione la compagnia motociclisti, per cui viene impartito l’ordine della sua immediata partenza da Val Kraponi, per rientrare nuovamente a Lin. Il XXIX battaglione deve anch’esso tenersi pronto a ritornare nelle posizioni precedentemente occupate. Il XXVI battaglione, che era rimasto in linea, subisce intanto la perdita di dodici uomini, quattro morti e otto feriti: alla sera l’attacco nemico e stroncato. Tuttavia è chiaro che questi tentativi di sfondamento nel settore di Pogradec hanno come obiettivo di raggiungere il vicinissimo confine Jugoslavia e di congiungersi con quell’esercito, in vista del precipitare della situazione politica. Ma se i greci hanno fallito il loro attacco, sicuramente saranno i serbi ad attaccare subito alle spalle il nostro schieramento, forzando il passo di Qafa Thane presentare questa possibilità di attacco sarà nuovamente il quarto bersaglieri che dovrà sostenere il peso della nuova situazione e fronteggiare gli jugoslavi in caso di ostilità.
Il 31 marzo il XXIX battaglione deve tenersi pronto per essere trasportato d’urgenza a Kotodesh. Il colonnello comandante si reca subito in ricognizione in questa località, mentre la compagnia motociclisti e la 12a compagnia del XXXI battaglione sorvegliano le sponde del Lago d’Ocrida con pattuglie e posti di osservazione. Anche la 10a compagnia lascia il Kalase e si concentra a Lin. Il comando di reggimento lascia Lin per trasferirsi verso per Perrenjes, al di là del Qafa Thane. Il 1° aprile, nella notte, il XXXI battaglione si trasferisce a Katjel, in attesa di ulteriori spostamenti. All’alba il colonnello Scognamiglio si reca a riconoscere i settori di fronte jugoslavo che è stato assegnato ai nostri battaglioni. Infatti all’imbrunire il XXIX e il XXXI battaglione lasciano le loro sedi per occupare la nuova linea sul confine jugoslavo ad eccezione della 9a compagnia e di un plotone mitraglieri, che vengono dislocati temporaneamente su altre quote. Nella notte del 2 aprile si inizia lo sganciamento di alcune compagnie del XXVI battaglione sulla linea del Kalase, in quanto il battaglione deve riunirsi a Piscopat. Ormai siamo alla vigilia dell’ineluttabile e, dopo l’ansia di questi ultimi giorni, si può dire che una gran calma sia scesa negli animi. Si attende l’ora dell’attacco, mentre si perfezionano i movimenti dei singoli reparti per essere pronti ad ogni eventualità. Il 5 aprile i battaglioni si portano sopra Perrenjes, avvicinandosi sempre più al confine jugoslavo. Il giorno successivo 6 aprile i bersaglieri si fermano proprio sotto la quota 1.234, ormai è questione di poco, i nervi sono nuovamente tesi in questa attesa che sembra non dover finire. Dalle nostre posizioni si vedono benissimo le pattuglie dei finanzieri jugoslavi, anche loro in attesa dell’inevitabile. Ed è infatti di poche ore dopo l’annuncio dello scoppio delle ostilità con la Jugoslavia.
Il 7 aprile bersaglieri attaccano subito la quota 1.234, che viene raggiunta verso le quattordici dopo aspri combattimenti e sotto una tempesta di fuoco. Morti e feriti suggellano con il loro sangue questi primi combattimenti con la Jugoslavia, mentre i reparti cercano di sistemarsi subito a difesa, prima che scenda la notte. Fra i caduti ricordiamo il sergente Cometto e il sottotenente Massa, ferito gravemente durante l’azione e morto poco dopo all’ospedale da campo, al quale verrà poi concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
La notte è trascorsa in continuo allarme. Il sottotenente Bragaglia con un gruppo di bersaglieri arditi, oltrepassò le nostre linee in un riuscito assalto a una casermetta nemica che, con le postazioni di mitragliatrici, metteva in difficoltà il nostro schieramento. Il giorno 8 aprile si rimane in quota sempre sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Il tempo si guasta e ricomincia a far freddo. Scende la fitta nebbia. Il 9 aprile, mentre i reparti di camicie nere prendono il posto dei bersaglieri sulla quota 1.234, i nostri battaglioni avanzano combattendo ed attaccano la successiva quota 1.510. Si combatte accanitamente anche nel pomeriggio e nella notte, quando la nebbia e il gelo avvolgono ogni cosa e rendono più tragica la situazione. Sempre in mezzo alla nebbia della tormenta, la 9a e la 12a compagnia cercano di avanzare sulla destra in direzione della casermetta. Ma non è ancora neanche l’alba che gli jugoslavi attaccano in forze il nostro schieramento, protetti dal nutrito fuoco di artiglieria. I morti e i feriti sempre più numerosi arrossano con il loro sangue queste cime così contrastate, ma si cerca di resistere ad ogni costo. La 9a compagnia e un plotone della 12a vengono accerchiati e subiscono gravissime perdite. I feriti non si contano più, moltissimi i caduti e numerosi i dispersi. Si cerca di sfondare il cerchio di fuoco: vi riesce il tenente Zolesi con 45 bersaglieri.
Il giorno successivo 11 aprile i combattimenti si fanno ancor più aspri, ma i bersaglieri resistono accanitamente, anche se la stanchezza, il freddo e il gelo rendono sempre più difficile un’ulteriore resistenza. Muore il sergente Angilletta, colpito da un colpo di mortaio, rimangono feriti tra gli altri i tenenti Merluzzi e Sicardi. Molti sono i bersaglieri colpiti da congelamento.
Con questa furiosa resistenza cade per i serbi dei greci ogni possibilità di chiudere in una tenaglia estrema l’ala destra della nona armata. Non solo, ma adesso sono proprio i serbi a doversi guardare alle spalle, perché i tedeschi, entrati nei giorni scorsi in territorio jugoslavo da più parti, si stanno avvicinando alla sponda opposta al Lago d’Ocrida. I bersaglieri del 4° attaccano ancora, mentre i serbi sono costretti a ripiegare. Il 12 aprile i nostri battaglioni raggiungono Radolista, mentre la compagnia motociclisti, avanzando lungo la sponda jugoslava del lago si incontra a Struga con le colonne motorizzate tedesche. Saldata la partita con la Jugoslavia nel settore del Lago d’Ocrida, occorre pensare adesso ai greci.
Il ponticello dei bersaglieri (Quaglino)
A qualche centinaio di metri dal punto ove la linea del Kalase scende a toccare la sponda del Lago d’Ocrida, No sulla strada che costeggia il lago stesso, si trova un ponticello. Un ruscello scende dalla montagna, vi passa sotto e si getta nel lago.
Ma, nell’avvallamento dietro la spalletta del ponte, vi sono dei bersaglieri: porta ordini, telefonisti, motociclisti… È questo il punto di transito obbligato per ogni persona o cosa che debba raggiungere la linea del Kalase ed è anche il punto più avanzato ove possono giungere gli auto ed i moto mezzi, poiché, dal ponticello in su, verso la linea sulla montagna, bisogna proseguire a piedi o a dorso di mulo.
Questo sarebbe niente se non ci fosse un ma. Dall’altra sponda, proprio quasi al confine fra l’Albania e la Jugoslavia, a Starova, villaggio ora in mano ai greci, vi è una batteria con i pezzi sempre pronti, puntati sul nostro fianco, e più precisamente sulla strada che costeggia il lago, nonché naturalmente sul ponticello.
Così, ad ogni movimento sospetto, subito arriva una sventola di colpi che quasi sempre vanno a segno. Inutile dire che in principio i morti e feriti sono stati numerosi. Poi si è capita l’antifona e allora di giorno non ci si muove più o quasi, lasciando per la notte ogni movimento di uomini e di mezzi. Però qualche volta anche di giorno bisogna muoversi, specialmente per lo scambio di ordini e messaggi tra la linea ed il comando di reggimento o di divisione. Allora entrano in gioco l’audacia, la spericolatezza ed anche l’eroismo di questi bersaglieri, i quali sanno benissimo la sorte che li attende se non sono velocissimi nei movimenti.
Alla loro abilità ed al loro sprezzo del pericolo è legata alla possibilità di sfuggire ai colpi dell’artiglieria. Se bisogna partire dal ponticello occorre con la moto a tutto gas, letteralmente schizzare via dalla strada prima che arrivi il proiettile ed allontanarsi a tutta velocità; se invece si arriva al ponticello, bisogna allora raggiungerlo a tutta velocità, frenare e buttarsi subito dietro la spalletta del ponte, sperando in Dio.
Con tutto questo, ogni tanto il morto o il ferito ci scappano sempre. Questo, in breve ,è il ponticello dei bersaglieri.
A ricordo dei bersaglieri caduti al ponticello verrà qualche mese più tardi, a campagna albanese finita e nell’anniversario della festa del corpo, inaugurato un cippo di pietra.
La battaglia con gli jugoslavi dal racconto di Scalone
Il 22 marzo tutto il battaglione lascio il fronte, a darci il cambio venne un battaglione del 1° reggimento bersaglieri e saremmo andati a riposo nelle retrovie. Dopo aver percorso un poco di strada a piedi e di notte, per portarci fuori dalla portata dei cannoni greci, venne un’autocolonna di camion che ci caricò sopra e andò a scaricarci a Librashd, dove rimanemmo una decina di giorni. Il giorno 31 marzo venne la stessa autocolonna, ci caricò e ci portò a 30 km dalla frontiera. Il giorno 5 aprile tutto il quarto reggimento, al comando del nostro colonnello Scognamiglio, era a ridosso della frontiera albanese-jugoslava.
Dopo mesi di combattimenti con i greci, adesso ci sarebbero toccati gli slavi. L’indomani, mentre eravamo intenti a fare un cambiamento di tende, dalla vicinissima frontiera si sentì l’eco di un colpo di pistola e in seguito altri colpi di fucile e di mitraglie. Erano circa le quattordici e ci trovavamo a cinquecento metri circa dalla frontiera. Abbiamo allora abbandonato tutto e abbiamo imbracciato le armi, con l’ordine di disporci in formazione di combattimento e raggiungere al più presto possibile la frontiera. Appena arrivammo in cima, piazzai la mia mitragliatrice a ridosso di un sasso e mi sdraiai per terra con il dito sul grilletto. Cercavo di vedere qualcuno dove poter mirare e sparare.
Fu in questo frangente che sentii vicino a me un lamento umano: lasciai l’arma e, strisciando per terra, andai a vedere. C’era un bersagliere a terra, il quale, appena avvertita la mia presenza, si voltò, guardandomi con gli occhi sbarrati, aveva l’aria di chiedere aiuto, ma non parlava. Lo guardai per vedere se fosse ferito: con le mani si stringeva lo stomaco, si torceva e grondava sangue. Mi sono ritirato strisciando, così come ero arrivato, per avvisare il tenente che si trovava a pochi metri da me. Subito dopo vennero due porta feriti e lo portarono via. Appena fu notte continuammo ad andare avanti con diverse cariche, fino a raggiungere una posizione dominante, dove potevamo difenderci ed offendere più facilmente. Durante i combattimenti della notte del 6 aprile 1941, rimasero feriti due ufficiali della mia compagnia di nome Cutrino e Pirrone e perdemmo due bersaglieri, un mio amico che si chiamava Sartore ed un certo Brambilla. Prima che arrivasse il nuovo giorno giungemmo nel punto che ci eravamo prefissi e subito, improvvisando delle postazioni di difesa, che consistevano in muretti di pietra per ripararsi dalle pallottole e dalle schegge di granate nemiche. Il giorno 7 Aprile rimanemmo fermi tutto il giorno, ma la notte subimmo un contrattacco da parte degli slavi.
Quella notte stavo dormendo quando fui svegliato da un bersagliere che era di guardia in un avamposto. Mi tirai su, vedendo una valanga di scoppi di bombe a mano che venivano avanti di fronte a noi. Imbracciato il mitragliatore, iniziai a sparare centinaia di colpi a falciare, nel tentativo di bloccare l’avanzata e alla fine i nemici rinunciarono all’attacco. Alla luce del giorno vedemmo cinque soldati slavi che giacevano esanimi ad una cinquantina di metri da noi; quasi tutti i pini e gli altri alberi davanti alla postazione erano bucati dalle pallottole del mitragliatore. L’indomani al nostro posto venne la milizia fascista e il nostro battaglione cambiò settore, ché c’erano altre quote ed altre postazioni da assaltare. Camminammo tutta la notte lungo la retro linea, fino a giungere quota 1.500 metri, dove c’era ancora tanta neve e dove operava il ventinovesimo battaglione bersaglieri.
Gli slavi facevano molta pressione, i nostri soldati erano pochi di fronte all’estensione del fronte che dovevamo difendere e così noi andammo a supporto di quel settore. Nello stesso tempo le altre nostre forze armate, dislocate sui confini italo-jugoslavi penetravano in territorio jugoslavo da altre parti, marciando verso l’interno. Contemporaneamente dall’Austria e dalla Bulgaria intervenivano i tedeschi. Gli slavi, attaccati da più fronti, abbandonarono le armi, ritirandosi. Così, un bel mattino, di fronte a noi non avevamo più nessun soldato nemico: era la mattina dell’11 Aprile 1941.
Visto che c’era evidenza che il nemico si era ritirato definitivamente, potemmo andare avanti più speditamente e al calar del sole arrivammo in un paese chiamato Struga. Ci portammo ai lati della strada rotabile, camminando in fila indiana, una fila destra e una fila a sinistra dalla strada. Arrivati a Struga, tutti gli abitanti erano radunati in una piazzetta sopraelevata mediante un muro di sostegno che si staccava dal margine sinistro della strada. Stavano lì, muti, inorriditi, sicuramente colmi di paura. Nessuno dei soldati o degli ufficiali italiani gli rivolgeva alcuna parola.
[…]
La gente del paese, poi, ci festeggiò e, visto che noi eravamo tutti bagnati (aveva piovuto tutto il giorno), fecero a gara per portare della legna nella piazza grande del paese, disponendola lungo tutto il perimetro; poi l’hanno incendiata, invitandoci ad andare a scaldarci e quindi ad asciugarci.
L’indomani mattina partimmo per incontrare una colonna corazzata tedesca che era partita dalla Bulgaria e puntava nella nostra direzione. Ci incontrammo a nord della città dove siamo rimasti fermi per circa due ore, serviti per le comunicazioni tra gli ufficiali tedeschi e i nostri ufficiali. Poi ritornammo nuovamente verso il confine con l’Albania, percorrendo la strada che attraversa il confine, sul lato della città di Ocrida e che costeggiava per un tratto in lungo il lago andando a incrociare la strada che portava a Pogradec e al Monte Kalase: tornavamo sui luoghi dove avevamo passato tutto l’inverno, dove avevamo combattuto e sofferto il freddo, la fame e dove abbiamo lasciato un pezzo della nostra vita.
Per una descrizione dettagliata dell’organizzazione delle truppe sul fronte greco-albanese, vedasi:
ITALIAN GROUND FORCES ORDERS OF BATTLE, STRENGTHS AND PLANS IN THE INVASION OF GREECE, AUGUST 1939-APRIL 1941
Dante cambia fronte
In previsione del confronto con l’esercito jugoslavo, il “Comando Superiore Forze Armate Albania (generale Ugo Cavallero) dispone che il comando della 9a armata provveda a riorganizzare la Divisione “Arezzo” e il 4° reggimento bersaglieri e che li ponga a sua disposizione per l’imminente impiego sul nuovo fronte.
Il 4° reggimento bersaglieri opera con la colonna “Ferone” (che comprende la Div. Arezzo e un raggrupp. CC.NN.), che il 9 aprile 1941 inizia il movimento sulla direttrice di Struga, in territorio jugoslavo. L’11 aprile supera lo sbarramento avversario sul Mali Vlaj ed entra a Struga.
Alpini
Lo scrittore Mario Rigoni Stern partecipò col 6° reggimento alpini della divisione Tridentina alla guerra contro la Grecia del 1940-41 e si trovò ad operare nelle stesse zone del 4° bersaglieri di Dante. Nel suo libro “Quota Albania” racconta la sua testimonianza di soldato su quegli eventi, con in più l’autorevolezza e lo sguardo dello scrittore. Data la condivisione di esperienza, di luoghi ed evnti con il reparto di Dante, ho pensato di arricchire questa pagina con alcuni spunti e citazioni tratte dal libro.
Quello che segue è il primo di essi.
Spazzacamini al fronte
(Rigoni Stern – Op. cit. Pag. 67 e segg.)
Quella sera, era l’undici dicembre, arrivò la comunicazione che delle camicie nere erano in marcia verso di noi.
Il colonnello mi mandò a chiamare perché andassi loro incontro e facessi da guida: nevicava fitto, e, disse, c’era pericolo che si perdessero.
Presi con me Agnoli e fu un camminare balordo perché i militi si sparpagliavano in gruppi quant’era lunga la mulattiera: avevano anche buona volontà, ma proprio non ce la facevano.
Finalmente, alla meno peggio e dopo ore di cammino e di gridi nella notte, riuscimmo ad arrivare al nostro comando; il seniore andò a dormire con i nostri ufficiali e i militi con i loro centurioni e capo manipoli dietro il bosco, dove si trovava la compagnia comando.
tutto il giorno dopo nevicò con vento virgola e stemmo ad asciugarci nei nostri ripari. Ma era anche molto freddo.
[…]
Fu un tribulare quel giorno che accompagniamo le camicie nere a prendere posizione tra la 53 del Vestone e la 58 del Verona, verso lo Shkalles.
Questi spazzacamini provenivano dalla bassa novarese e le montagne le avranno viste andando in gita con il dopolavoro, o quando il vento portava via la nebbia dalle risaie.
A guardarli, con quella montura irrazionale e ridicola, facevano pena: il fez con il fiocco nero, i fasci sul bavero, la camicia di tela da grembiuli per scolaretti, il pugnale di traverso dalla parte della milza, gli stivaletti da sabato fascista sui marciapiedi: arrancavano nella neve con il fiato grosso e bolso. Chissà, poi, cosa avevano dentro gli zaini e i fagotti che si tiravano appresso. Ma non ci offrirono niente: neanche una sigaretta.
Noi facevamo come i cani da pastore che tengono in branco le pecore: si stimolava e si punzecchiava; si aiutavano, anche, i più malandati a portare i fagotti e le armi.
Impiegammo dodici ore tra l’andare e ritornare; una strada che, anche con la bufera, facevamo in un terzo di quel tempo. Nel ritorno, a notte, incontrammo ancora qualche ritardatario impaurito e smarrito: come quel caposquadra con tre dita di nastrini sul petto, che ci chiese quanta strada c’era ancora per arrivare, se i greci erano vicini, se c’era pericolo, se c’era sempre così tanta neve.
Più avanti i nostri piedi si imbatterono in qualcosa di duro nascosto tra la neve: era un fucile mitragliatore che avevano perso e che raccogliemmo per portarlo agli alpini del Verona.
Per più giorni, quando percorrevamo quella pista, trovavamo oggetti abbandonati dalle camicie nere: le calze ci erano preziose.
[…]
Ero appena passato, quando i greci arrivarono sotto le postazioni delle camicie nere, e queste, senza nemmeno tentare un lancio di bombe a mano per fermarli, abbandonarono tutto e fuggirono come lepri davanti ai segugi.
Scapparono nella valle, ma il bello è che non si fermarono una volta giunti lontani dal combattimento: proseguirono fino al comando di divisione, dove, vedendoli in quello stato, credettero che i greci fossero alle calcagna, e caricarono muli e carrette per ritirarsi verso Elbasan.
La situazione si era fatta preoccupante, ma gli alpini resistevano con rabbia; le batterie del maggiore Calvo concentrarono il fuoco dove i greci si erano impadroniti delle trincee degli spazzacamini.
[…]
Quando venne sera i greci smisero di attaccare e, invece di approfittare del varco lasciato libero dai militi, si fermarono e piazzarono verso il vuoto le armi che trovarono abbandonate da essi. E io, per non cadere nelle loro mani, dovetti fare un ampio giro per ritornare al comando di reggimento.
Prima dell’alba, due plotoni del Vestone con il capitano Bongiovanni e il tenente Baietti e un plotone del Verona, piombarono dall’alto verso i fianchi dei greci. La sorpresa riuscì: li fecero tutti i prigionieri, recuperarono le armi lasciate dalle camicie nere e, naturalmente, ripresero la trincea.
[…]
Nel bosco, prima di arrivare al comando del Verona, incontrammo due camicie nere disperse e disarmate. Il colonnello si sfogò a bastonarli: – Vi faccio fucilare! – diceva tra i denti. Le prendemmo con noi e mi disse di spararci se avessero tentato di andarsene. Le riaccompagnammo su, tra gli alpini.
Gli avvenimenti della guerra di Grecia
15 ottobre: decisione dell’invasione della Grecia.
25 ottobre: ignoti attaccano un posto di frontiera albanese.
25 ottobre: tre bombe esplodono nella legazione italiana di Santi Quaranta.
28 ottobre: alle tre del mattino il nostro plenipotenziario ad Atene consegna l’ultimatum a Metaxas, che lo respinge.
28 ottobre: alle 5 e 30, i primi reparti italiani entrano in Grecia (Epiro).
29 ottobre: entrano in azione nel settore dell’Epiro, dal mare verso l’interno, il Raggruppamento Litorale, le divisioni Siena, Ferrara, Centauro e Julia, alle quali si aggiungerà poi la Bari. In Macedonia occidentale, ossia nella zona di Corizza, si muovono la Parma e la Piemonte, prima ad operare, alle quali si aggiungerà la Venezia, spostata dal confine jugoslavo.
31 ottobre: la Siena avanza con difficoltà per la pioggia e per i fiumi in piena.
1° novembre: i greci, sinora sottrattisi al contatto, attaccano violentemente in Macedonia occidentale e le nostre divisioni si ritirano e fino al fiume Devoli.
4 novembre: i greci rafforzano il settore e cominciano a premere.
7 novembre: la divisione Julia, posta sul perno del fronte tra le due armate italiane e a rischio accerchiamento, deve ripiegare su Corizza.
9 novembre: Visconti Prasca è sostituito al comando dal generale Ubaldo Soddu, sottosegretario alla Guerra.
10-12 novembre: continua l’affluenza non organica di nuovi reparti e affluiscono in Albania sei battaglioni alpini.
12 novembre: aerei inglesi attaccano a Taranto la flotta italiana.
14 novembre: nuova offensiva greca in Macedonia occidentale.
17 novembre: Erseke è abbandonata e i greci minacciano il fianco dell’XI armata.
18 novembre: Mussolini ha un’idea e dichiara che “Spezzeremo le reni alla Grecia.”
18 novembre: la Julia deve rilevare in prima linea la divisione Bari, travolta, non senza accuse di scarso valore.
20 novembre: la Julia, al ponte di Perati, è investita da massicce forze greche.
21 novembre: viene consegnata al duce una lettera di Hitler, secondo il quale l‘iniziativa italiana ha avuto “conseguenze psicologiche spiacevoli” e “conseguenze militari molto gravi”, ossia “avete fatto una figura di merda e avete perso”.
22 novembre: gli italiani abbandonano Corizza.
26 novembre: il maresciallo Badoglio presenta le proprie dimissioni da Capo di stato maggiore generale. Al suo posto viene chiamato il generale Ugo Cavallero.
28 novembre: gli euzoni prendono Pogradec e tolgono a Soddu un caposaldo essenziale per la nuova linea difensiva.
4 dicembre: Soddu è preoccupato della situazione e avanza l’ipotesi di una trattativa.
7 dicembre: Argirocastro viene evacuata.
29 dicembre: il generale Soddu viene sostituito al comando d’Albania dal generale Cavallero.
5-6 gennaio: i greci attaccano e prendono Klisura.
19-20 gennaio: incontro Mussolini-Hitler a Salisburgo.
29 gennaio: muore il generale e primo ministro greco Ioannis Metaxas. Al suo posto il re nomina Alèxandros Korizis.
23 febbraio: Mussolini, a Roma, promette che le cosa cambieranno con la primavera.
1° marzo: truppe tedesche entrano in Bulgaria con il consenso di re Boris.
2 marzo: Mussolini parte per l’Albania per assistere all’offensiva italiana verso Klisura.
9 marzo: gli italiani attaccano in direzione di Klisura, ma senza risultati di rilievo. Combattimenti violenti si accendono attorno a quota 731, Monastero.
16 marzo 1941: l’offensiva verso Klisura viene sospesa.
21 marzo: Mussolini lascia l’Albania.
25 marzo: la Jugoslavia aderisce al Patto Tripartito Italia-Germania-Giappone.
27 marzo: in Jugoslavia un colpo di stato anti-tedesco ribalta la situazione e depone il reggente, sostituito con il giovanissimo re Pietro II e conferendo il potere al generale filo-britannico Simovic.
6 aprile: inizia l’operazione “Marita”, con l’invasione tedesca della Jugoslavia e della Grecia.
9 aprile: le truppe tedesche entrano a Salonicco.
10 aprile: gli italiani si muovono, da nord, in direzione della Jugoslavia.
12 aprile: i greci si ritirano da Macedonia occidentale ed Epiro per evitare l’accerchiamento tedesco.
13 aprile: approfittando della ritirata greca, il fronte italiano si getta in avanti. I greci combattono intensamente per ritardare l’avanzata degli italiani ed infliggere loro le maggiori perdite possibili.
14 aprile: i soldati italiani entrano a Corizza e, in Epiro, riprendono Klisura e Monastero.
18 aprile: l’XI armata italiana entra in Argirocastro, mentre i tedeschi avanzano verso Gianina.
18 aprile: il primo ministro greco Korizis si toglie la vita.
19 aprile: al passo delle Termopili, reparti inglesi bloccano temporaneamente i tedeschi, consentendo al grosso delle truppe di imbarcarsi per Creta.
20 aprile: a Larissa, contro gli ordini di Papagos, il generale Tsolakoglou si arrende ai tedeschi. Nel documento di resa non sono menzionati gli italiani, ai quali i greci rifiutano di arrendersi.
23 aprile: viene replicata la firma della resa, questa volta anche alla presenza degli italiani.
Le forze in campo
Le otto divisioni italiane schierate all’inizio dell’invasione ( Siena, Ferrara, Centauro, Julia, Parma, Venezia , Bari, Piemonte) più il “ Raggruppamento” del litorale furono, via via, affiancate , nel corso del tempo, dalle divisioni Taro, Arezzo, Tridentina, Cuneense, Pusteria, Pinerolo, Lupi di Toscana, Brennero , Modena, Legnano, Acqui, Cuneo, Alpini Speciale , Puglie, Casale, Cacciatori delle Alpi. La Messina e la divisione Marche arrivarono a guerra finita.
Centomila uomini scarsi, servizi compresi, all’inizio delle ostilità, quasi mezzo milione di uomini alla fine.
I caduti.
Secondo i dati ufficiali del Ministero della Difesa italiano, riportate nel libro di Mario Cervi, l’impresa di Grecia costò al nostro esercito 13.755 morti, 50.874 feriti. 12.368 congelati, 25.067 dispersi (in massima parte, secondo il Ministero, caduti sul campo).
I greci, sempre secondo fonti ufficiali, ebbero 13.408 morti e 42.485 feriti: i tedeschi 1323 morti e 3411 feriti; i britannici, fra morti, feriti e prigionieri, persero più di 15.000 uomini.
Gerarchi al fronte
Mussolini, irato per l’andamento negativo della guerra e per la relativa brutta figura, reagisce a suo modo e, tra le varie misure adottate, invia al fronte “per punizione” numerosi gerarchi. Tra questi Cianetti, presidente della Confederazione Lavoratori dell’Industria, ossia del sindacato fascista, che venne destinato come “volontario” col grado di capitano alla divisione Pinerolo. Questo il suo racconto dell’arrivo al fronte (Bedeschi, Op. cit. – pag. 111):
“A mezzogiorno giungo a Bregu Iulei. Tre o quattro capanne, tende, soldati. Mi indicano la capanna del colonnello dalla quale esce un capitano seguito dal colonnello comandante. «Che vuoi?» mi chiede il colonnello.
«Ho una lettera per lei da parte del comando di divisione.»
«Ah, vieni dal comando di divisione? E vieni a portarmi una lettera? Perdio, me ne frego delle scartoffie, pane ci vuole, munizioni ci vogliono, non scartoffie! Figli di cane, mi mandano le scartoffie.»
«Signor colonnello, la prego di leggere.»
Legge e poi: «Beh, sei assegnato al reggimento?»
«Signorsi.»
«A che fare?»
«Ecco, signor colonnello … »
Urla, urla: «A che fare, sacramento! Io non ho bisogno di ufficiali, ma di pagnotte. I soldati muoiono di fame».
«Scusi signor colonnello, se lei permette io sono il capitano … »
«Si, si ho visto che sei il capitano Cianetti, credi che sia cieco? Ma a me servono le pagnotte non i capitani».
A Cianetti bastano pochi giorni al fronte per rendersi conto della situazione Scrive infatti (Bedeschi, idem):
“«Assassini, mille volte assassini!», gridai sottovoce una notte di temporale, portando la mana alla bocca perché le sommesse parole non giungessero alle orecchie di quelli che mi stavano d ‘intorno “.
Assassini a chi? Non c’era anche il ministro Cianetti nella riunione in cui fu decisa la guerra? Cosa fece poi fino al 25 luglio del ’43?
Lapis
(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 52)
Santini, il giorno dopo, mi offre due cartoline in franchigia; ci hanno detto di scrivere che poi uno raccoglierà la posta per portarla indietro, fin dove incontrerà un paese con un comando che la farà proseguire.
Uno cartolina, scrivere una cartolina che arriverà al mio paese. La rigiro tra le dita: è da quando mi sono imbarcato a Brindisi che non do notizie. Quanti giorni saranno? Dalla mia agendina vedo che oggi dovrebbe essere il 27 di novembre; sempre se non sbaglio, perché i giorni sopra Corizza, su quei monti, sono segnati con un’unica data.
Scrivo l’indirizzo con il lapis copiativo e il coperchio della gavetta mi fa da tavolo. Una a casa, ai miei, e l’altra a lei, a Venezia. Ma cosa dire? Cosa si può scrivere di qui? E se anche dico dove sono e come sono, cosa ne capirebbero? Allora scrivo solo che sto bene, e firmo.
[…]
Durante la notte viene dato l’allarme perché le pattuglie greche sono entrate in contatto con la nostra linea, e le ore al freddo, con il fucile in mano, nel buio, e la neve che fiocca, sono lunghe e dure. Viene il desiderio di addormentarsi con questa neve attorno come piuma e non svegliarsi più.
Leggendo il brano di Rigoni Stern riportato qui sopra fa riflettere, mentre viene in mente Dante alle prese con l’attesa di ricevere notizie e la preoccupazione di farne avere ai suoi cari ( e alle sue… care), non si può fare a meno di riflettere sulla effettiva difficoltà, se non impossibilità, di raccontare quell’esistenza. Proviamo ad immaginarci là, in quelle condizioni: credo proprio che le parole abbiano un limite, oltre il quale nessuno, nemmeno uno scrittore od un poeta possano andare, perchè rimane, con la solitudine, solo il silenzio.
Anche perchè, posato il lapis, torna subito la battaglia.
Due muli per battaglione
(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 55)
Quando è notte arrivano i muli, ma sono pochi e non una colonna, e non hanno viveri o bevande forti, ma rotoli di reticolati e casse di munizioni.
I conducenti sono tutti coperti di fango dalle scarpe alla testa: solamente dagli occhi e dalla voce si capisce che sono uomini e non strani animali. Ma parlano poco, nemmeno hanno la forza di bestemmiare.
I muli sono ricoperti di fango come loro: pelo e fango fanno un unico strato. Soffiano dalle froge vapore bianco, le orecchie abbassate dondolano al passo come i basti sulle groppe magre. Ogni tanto inciampano o scivolano nel fango, inginocchiandosi: allora uno strappo alla cavezza e una parola di pietà o di rabbia li fa rialzare in piedi e proseguire.
Sono in cerca di noi da quattro giorni. Quando arriviamo al comando facciamo le ripartizioni dei reticolati e delle munizioni. Ma sui muli noi si aspettava che arrivassero pagnotte, o qualcosa da poter cucinare e finalmente scaldarci lo stomaco.
Il colonnello decide di far ammazzare due muli per battaglione, ma il caporale dei conducenti non sa quali scegliere e i conducenti, che hanno sentito l’ordine, tentano di scappare nella notte, giù per la valle. Una squadra corre a fermarli.
Ora, accompagnati da noi, i quattro destinati salgono le montagne coperte di neve, ognuno tirandosi dietro il proprio mulo, condannato a morire per sfamare gli alpini.
Carabinieri!
(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 59)
Piccoli gruppi di alpini ogni tanto abbandonano la linea e scendono verso le case degli albanesi per cercare qualcosa da mangiare, o per riposare qualche ora al caldo. Forse sono i loro stessi comandanti di plotone che, a turno, glielo permettono. Però i carabinieri aggregati al comando hanno avuto l’ordine di rastrellare le case, radunare gli alpini e scortarli fino lassù. A morire.
Questa sera una quarantina di alpini del Vestone, qui vicino ai nostri ricoveri: sono circondati dai carabinieri armati che respingono inesorabilmente nel gruppo chiunque cerca di uscirne.
Senza alcun riparo, addossati uno all’altro uno sull’altro, la neve li sferza, il vento si porta via i loro lamenti che nessuno può ascoltare. Così avevo visto una mandria sui miei monti durante una nevicata estiva. Ma questi sono uomini! Vorrei portare loro qualcosa, magari del fuoco, ma l’appuntato dei carabinieri mi allontana, spingendomi via col moschetto.
Mi metto sotto un albero, aderente al tronco come volessi entrare dentro e farmi legno per non sentire quei lamenti e non vedere mai più uomini così. Ma loro continuano, monotoni, insistenti: e quando sembra che il vento e la tormenta li ammutoliscano, allora, improvvisamente, un urlo da bestia ferita a morte fa riprendere il triste coro.
Un’ombra entra nel cerchio: è il colonnello Augusto Reteuna, comandante del 6° reggimento alpini, e parla loro. Minaccia, ironizza, prega; cerca di risvegliare il loro orgoglio, ma, quando finisce di parlare, il lamento riprende. Resterà immobile, per tutta la notte, in mezzo a loro, e non si siederà, non fumerà; starà lì, in piedi, appoggiato al suo bastone, in silenzio. Facendosi torturare dai lamenti degli alpini che dovrebbero che dovrebbe comandare e dalla bufera che non trova sosta.
All’alba i carabinieri li accompagnano sul Valamare. Salgono in lunga fila grigia, curvi, per affrontare il vento e la neve. Con loro salgo anch’io.
Al colonnello, quella notte, si congelò un piede. Senza farlo sapere ad alcuno, qualche giorno dopo si fece levare due unghie dal capitano medico suo amico: me lo disse un mese dopo, mentre andavamo per la mulattiera del Papallazit e gli domandai perché camminasse con dolore.
Approfondimenti
Bibliografia – Fonti (in revisione)
Le altre parti dei Diari
Extra
Testi collegati
Testo tratto dal libro del Ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal libro del Bers. Luciano Scalone
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Il testo dei Diari di Dante è riportato su una colonna principale, affiancata a destra da due colonne di raffronto e complemento, nelle quali sono riportati gli stralci di due testimonianze “speciali”: sono quelle lasciateci da chi ha condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende: in particolare con quelle di Sergio Quaglino e di Luciano Scalone. Il primo è stato un ufficiale che ha scritto un libro di assoluta valenza memorialistica storica, descrivendo fatti, luoghi e persone coniugando in un perfetto equilibrio la passione determinata dagli eventi con il manifestarsi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, che ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.
La disponibilità di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari di Dante ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone le note appaiono alla fine di ciascun blocco.
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