I DIARI DI DANTE

QUADERNO IV - Da Giugno 1942 a Gennaio 1943

Avvertenze

Il testo dei Diari è affiancato a da contenuti e immagini di contesto e complemento (“riferimenti”). In particolare, sono riportati ampi stralci di due testimonianze “speciali”, lasciateci da due persone che hanno condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende e che ne hanno voluto, come il papà, lasciarne testimonianza e ricordo: sono quelle del tenente Sergio Quaglino e del bersagliere Luciano Scalone. Il primo ha scritto un libro di qualificata valenza memorialistica e storica, descrivendo fatti, luoghi e persone in un perfetto equilibrio tra il mito patriottico, la passione determinata dagli eventi e il succedersi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo, un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia,  ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione ad essa, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.

La ricerca prima e la disponibilità poi di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari  ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze, oltre ad aver dato spunto ad inaspettati approfodimenti e consentito sorprendenti scoperte storiche, che altrimenti sarebbero andate perse. Almeno per me.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone, i “riferimenti” appaiono alla fine di ciascun blocco contenitore.

[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Il testo di Quaglino è su sfondo verde, quello di Scaglione su sfondo giallo.

Capitolo 16 - OPERAZIONE ALBIA

IL RACCONTO

Zavala stazione, 22 giugno 1942.

22 giugno 1942. Sveglia, poi nel prato a fare un po’ di ordine chiuso e poi la circolare del capo azienda. Intanto, aspettando il rancio, si fa ancora adunata del plotone, poi la partenza del tenente Roatto e il pacchetto col sapone da barba e altri piccoli oggetti. Dopo il rancio, si sapeva che il 23 si andava in una postazione della milizia e che una squadra mitraglieri doveva andare a Ravno col secondo plotone della prima compagnia. Il sergente Soddu, che per quel giorno era comandante di plotone, si credeva di darmi un gran dispiacere a mandarmi via, ma era già quello che desideravo io. Ebbene, facciamo un bel sonno e poi prepariamo tutto. Portiamo giù tutta la nostra roba alla stazione, prendiamo il rancio e, appena terminai di mangiare, in anticipo arriva il treno. Intanto il treno viaggiava, un quarto d’ora di treno e poi si scende a Ravno, che, del primo sguardo, non è meno di Zavala e già qualche guspodizza si vede girare. Subito il tenente mi dà la consegna, mi indica la camerata e mi fa vedere dove ci portiamo tutta la nostra roba: e così fu fatto in poco tempo. Tutto era a posto, per la curiosità del paese tutti fuori e ritornano tutti contenti, altro che Zavala! C’è un paese ma…, e ci sono delle ragazze da ammirare! Così venne l’ora del riposo.

23 giugno, sveglia, una lavatina e poi c’è da mettere a posto la postazione, mentre i compagni a mettono a posto la camerata e così passò anche la vigilia di San Giovanni, posta nema. San Giovanni,[1] cosa vuoi fare? Uno stop! Dopo il rancio un bel bagno e tutta la roba da lavare. Dopo il secondo rancio andiamo a vedere questo paese, Ravno. Il più che ci interessava era il giornale radio: “i prigionieri alla piazzaforte di Tobruk sono saliti a 33.000” e tante belle altre notizie![2] Ritorniamo, la posta era arrivata, ma il tenente Pecchi se l’è tenuta, dicendo al postino che sarebbe venuto lui personalmente, l’indomani mattina, e pagherà anche la decade. E così siamo al 25. Un po’ di pulizia e poi aspettiamo che venga la posta. Sono le dieci, sta arrivando il treno, un bersagliere pensa di portarmi su la posta, e, dopo undici giorni è giunta una cartolina della sorella Rosa: è poco, ma basta per essere tranquillo. Una lettera l’ho ricevuta dallo zio Amedeo e così il pomeriggio passò scrivendo una lunga lettera alla sorella.

Il 26 giugno, in mattinata è venuto il tenente a fare la puntura ai nuovi arrivati. Dopo tanti giorni, il tempo cambiò, lasciando cadere un po’ d’acqua. Il pomeriggio viene l’amico sergente a distribuire quei pochi oggetti di corredo e a ritirare la roba di lana, mi consegna l’encomio solenne del 2 aprile, per la puntata di Stolac, la bella lettera della signorina…[3] e, dopo un anno, forse mi danno un paio di pantaloni di panno. Giorno 27, la solita canzone, dormire il più che si può, perché non si sa cosa fare per fare passare il tempo, ma oggi ho i pantaloni da stirare e così anche oggi passò. Il 28 arriva la nota del corredo in consegna, portata dal bersagliere Porrino, continuando poi con un po’ di stop.[4] Nella serata la bisticciata per il quarto di vino, anche questa la vedremo. 29 giugno, nulla di nuovo, posta nema vista. Il 30 è una giornata limpida, ma con un vento da cane. Arrivò poi la posta, ma dalla sorella Rosa nema vista, pazienza, speriamo sempre in bene, la salute è ottima, Lilia ha scritto e la cugina Gina anche.

Siamo al 1° luglio, sempre naja, ma al mattino si dorme sino a quando si vuole. Alle dieci incominciamo ad alzarci per lavarci o per quella poca pulizia, pronti per l’ora del rancio. Giorno 2, sempre la solita canzone, in serata mi giunse una lettera dalla sorella Rosa e la notizia dell’altro mese a pagamento[5]. Sempre buone notizie in Africa, proseguiva l’avanzata verso Alessandria, in Russia, Sebastopoli occupata, le notizie e le cifre precise le sapremo domani sera. Giorno 3 luglio. sempre la solita canzone in merito. Nella serata le novità sono buone a Sebastopoli[6]: 55.000 prigionieri e poi speriamo sempre in bene. La mattina del 4 andiamo a provare la mietitura e troviamo una bella guspodizza, Elena, di anni 18, ma la mietitura durò poco, perché il campo era piccolo e poi la giornata terminò con un bel temporale e con la paga della decade. Sempre coraggio, la salute ottima, la posta un po’ sì e un po’no arriva e anche l’amico Formica scrive che si trova a casa per due mesi. I giorni 5, 6 e 7 sempre la solita canzone e la solita radio gavetta oggi ha comunicato che i vecchi del reggimento rientrano in Italia, anche questa è bella. In seguito, giunse la raccomandata della Lilia: meno male che dopo tanto tempo anche lei comprende la mia sincerità e la guardia sempre con occhi aperti perché i ribelli ci sono sempre e la salute è sempre ottima. Giorno 8 luglio, giornata caldissima, 34 gradi all’ombra, figuriamoci al sole, nella serata la sbornia dell’amico Soddu, ma anche quella passò e il giorno 9 se ne partì per Zavala, non sapemmo neanche per sogno quello che fece.

Giorni 9, 10 e 11 luglio, il caldo non manca, novità è che ci aspettiamo la posta, speriamo almeno che oggi arrivi. Il sergente Soddu portò la posta, una lettera della sorella Rosa e un biglietto della signora Maddalena, che la signorina ha ricevuto la lettera. Almeno di quello sono rimasto contento. Giorno 12, la festa dei comunisti a Zavala.[7] 13 giornata nuvolosa, 14, 15 e 16 sempre la canzone solita, dopo quaranta giorni ci hanno dato mezza balla di paglia per undici uomini e per fortuna abbiamo le bindelle, altrimenti… Forse alla fine del mese prendiamo ancora il mese a pagamento, speriamo almeno quello, ma la licenza chissà quando la vedremo: pazienza e coraggio, basta la salute. Giorno 17, abbiamo preso la decade, contento per il pensiero della possibilità del vaglia di lire 1000, speriamo. I giorni passano, siamo al giorno 19 luglio, mi chiamano al telefono, chissà cosa c’è, mi chiama il furiere: «Pronto, pronto, caro Schiavi, c’ho una notizia da darti, il tenente Bologna[8] mi incarica di dirti che fra qualche giorno avremo il nostro guadagnato merito!» «Grazie, grazie, Piero, speriamo presto, pagheremo da bere! Appena hai la notizia ufficiale, fammelo sapere. Tanti saluti, ciao». Quanti pensieri! Sono alla stazione, arriva il treno da Hutovo, vedo il tenente Bologna, che proprio cercava di potermi parlare, mi narra tutto e poi mi fa: «Sappiamo che noi siamo i vecchi!» Ringrazio il tenente e il treno partì. Beh, aspettiamo, ora andiamo a mangiare la pastasciutta e poi andiamo a sentire il giornale radio. Tornando, abbiamo la notizia delle cinque pecore: andiamo bene! 20, giornata variabile, però contento che gli abbuffatori delle pecore sono saltati fuori. Sono le dieci circa, mi chiamano al telefono, forse ci siamo, non sono ancora cento metri dentro alla stazione che il caporale telefonista, che già sapeva tutto, mi fa segno: così è giunta la notizia della mia promozione, passato effettivo alla seconda compagnia e così si cambiano i compagni. Il giorno passò, ma pensieroso.

21 luglio, viene il pomeriggio, preparo tutta la mia roba, alle due e trenta prendo il treno e vado a Hutovo, dove stava il comando di battaglione. Dopo avermi presentato al signor capitano, c’è la destinazione a raggiungere il plotone del tenente Martinazzo, alla prima squadra. Intanto la giornata passo col compagno Tondulli. 22 mattino, verso le nove, siamo alla stazione con tutta la roba, e otto nuovi giunti del ’22. Arriva il treno, si sale sopra e si partì per Sjekose. Dopo una mezz’ora di viaggio siamo giunti e così siamo al nostro posto destinato, niente di male, tanto è tutto naia e già tanti compagni, tutti contenti, mi hanno ricevuto. E così passò anche questo giorno. Il giorno 23 mi alzo, porto le novità al tenente e poi mi vado a lavare alla stazione. Il caldo si fa già sentire e il posto più bello è rimanere sotto la tenda, in attesa della posta: aspetta e aspetta, ma non è arrivata e anche questa è passata. 24 luglio, andiamo a trovare i compagni a Ravno, così tutta la giornata passò trovandomi un po’ di qua e un po’ di là e anche per oggi la posta è nel mare. 25 sempre la solita vitaccia, lavarsi e poi sotto la tenda a guardare per aria, rammentare il passato, pensare alle persone care, pensare all’avvenire, eccetera.

26 luglio. Forse oggi si mangia la pastasciutta e così fu, una pasta che al quarto non se ne è mai mangiata in tre anni: bravi cucinieri! Giorni 27 e 28 sempre la solita vitaccia, in mattinata aspettiamo il capitano, che ci viene a trovare per domandarci come si sta ai capisaldi: la giornata è passata, ma il capitano non è venuto. Giorno 29, la faccenda del Chianti e lo smarrimento del portafoglio, al mondo di ogni cosa ne capita. 30 luglio, la solita canzone, niente di nuovo. 31, l’ultimo del mese, chissà se verrà qualche novità e così fu. Alle nove e trenta, giunto il treno con una lettera segreta per il comandante di presidio, e così ci fu l’ordine di partenza, dovendo però sempre aspettare il cambio. La notizia non segna tanto bene, però di sicuro non si sa nulla, vada come il destino vuole, sempre coraggio. Alle quindici è arrivato lo squadrone di “cravatte rosse”[9] e così, in quattro e quattr’otto, tutto il nostro materiale fu caricato sul vagone e poi con comodità venne una macchina che ci portò a Hutovo. Alle diciotto subito ci siamo riuniti all’altro plotone, fu fatta la tenda e poi a trovare i compagni. Infine, andai ad assicurarmi per il 1° agosto e a mettermi d’accordo con il collega che tutti aspettavamo e così andiamo a letto per terra.

1° agosto. Nessuna novità. Aspettiamo l’ora della pancia e così, per il primo giorno, la pastasciutta e i pesci; alla sera riso, formaggio e verdura fritta. Terminato, andiamo a trovare i compagni tutti riuniti a Hutovo. 2 agosto, domenica, novità nessuna. I giorni 3, 4 e 5 sempre la solita musica, ordine chiuso e accidenti alla naja. Sono le quindici, è arrivato il treno con la posta, ma anche il colonnello Verdi: sentiremo le novità. Ufficiali a rapporto, adunata e la notizia della partenza. Giorno 6, sono le tre, sveglia, si prepara tutto il fagotto e alle quattro si parte. Accidenti a tutte le montagne! Sino alle undici si cammina per rocce e montagne, un terzo del battaglione era per strada, i soliti “non mi affido, mi fa male ca, mi fa male anche là”. Si mangia la scatoletta e intanto arrivò l’acqua e il colonnello ad assistere alla distribuzione dell’acqua, cose mai viste. Alle sedici, pronti per partire e ancora dei bersaglieri stavano arrivando. La morale del disordine. Si parte e si fanno altri otto chilometri. Anche questi sono fatti, alle sei siamo fermi, arriva il carro del rancio, si mangia e poi su, alla quota, guardando il mare e lì si fanno le postazioni e la tenda. Aspettiamo i ribelli che vengono di qua, se la “Murge” e la “Messina” non li prenderanno. Giorno 7 agosto, finalmente giorno, è proprio vero che la naia… Oltre la marcia, ci mancava il temporale: tutti col telo sopra la testa e così si fece il bagno: bene, meglio così che un tacpump. Ci sistemiamo un po’ e intanto arrivò il caffè e poi il rancio, portai le sigarette e il vino a Matteo e così aspettiamo il rancio. Giorno 8, bella giornata, la notizia della partenza del colonnello per l’Africa[10], Verdi al comando del reggimento e il capitano Mazzoni[11] a comandare il XXVI battaglione. Il giorno 9, il nostro cappellano Gozzi venne a dir messa: ogni tanto è bello e giusto ricordarsi della religione. Dal postino seppi che sino a martedì la posta non sarebbe giunta.

Lunedì 10 agosto novità nessuna. Alle venti è arrivata la posta, fu distribuita, ma c’è buio e bisogna proprio aspettare il martedì mattina. Sei lettere mi sono giunte e, dopo averle lette, giù al bagno. Nel pomeriggio la notizia che si aspettava per la puntata, così fu e così fu trascorso anche l’undicesimo giorno. Il 12 sveglia alle tre e trenta, alle cinque partenza ed è proprio la mia squadra a prendere tutte le quote. Un’ora di cammino alla prima quota, ci siamo. Poi anche il Verdi e giunto e allora avanti, da una quota all’altra. Alle tredici finalmente si mangia la scatoletta, ma l’acqua dov’è? Così, giunti alla sera, quattordici quote furono prese: fortuna che i ribelli chissà dove sono! Formato il caposaldo, viene l’ordine di ritornare, accidenti al cielo non si in che quantità! Al ciel sereno, abbiamo riposato e il giorno 13, alle sei, partenza per una lunga e rocciosa mulattiera verso Podprolog[12]. Dopo cinque ore di cammino, giunti al paese, possiamo bere un po’ d’acqua, che tanto si desiderava. Alle undici viene l’ordine di consumare la scatoletta, ma per fortuna si trovarono tanti pomodori e così, per me, fu un pranzo. Alle dodici arrivò anche il XXIX battaglione e così vennero le sedici e si partì per Metkovic; altri tredici chilometri, ma c’è la strada. Alle venti e trenta siamo a Metkovic, alle ventuno e trenta arriva il rancio e la mensa. Al mattino tutti a lavarci alla Neretva è così fu per tutta la giornata, poi, alla sera, c’è la libera uscita, ma Dante non esce. Sono le ventuno, suona la ritirata e dopo poco tempo sentiamo cinque o sei colpi di moschetto dall’accampamento dell’artiglieria. Verso le ventidue ci chiamano su tutti in strada per quel fatto. Dopo fu distribuita la posta e mi è giunta in mano una lettera per l’amico Ansaldi[13] e pensavo di consegnargliela, ma Bertone mi viene invece a dire l’Ansaldi era rimasto ferito, cosa che mai si pensasse in cent’anni! Così, sono le cinque e trenta del 15 agosto, il poveretto spirò, dopo aver chiamato per tutta la notte i suoi cari. Come si fa? Il destino così ha voluto! Andiamo al fiume a lavarci e a lavarci la roba e aspettiamo che venga il giorno 16 per andarcene anche da Metkovic: nemmeno in libera uscita sono voluto andare! Giorno 16, sveglia alle quattro, alle cinque partenza, ci sono da percorrere ventuno chilometri, ebbene alle undici siamo a posto, dieci minuti e la tenda è fatta, subito arriva il rancio e così passò il pomeriggio, con un bel sonno e la giornata bella fresca. Il 17 partenza alle sei, quindici chilometri e poi arriveremo a Crveni Grm[14], poco lontano dai ribelli, e così passo la giornata, con la stessa moda di ieri.

Giorno 18 agosto, pulizia delle armi e aspettiamo il 19, quando partiremo a prendere ‘sti barbari ribelli. Giorno 19, verso sera, la colonna partì, sei chilometri e ci siamo fermati sopra ad un paesetto, sotto la quota 1070, buona per domattina. E così, all’alba del 20, il primo plotone partì con venti cetnici davanti e alle undici si era sulla quota. Nulla da segnalare, i barboni si son presi paura delle cannonate e sono scappati e intanto salì tutto il battaglione. Verso sera avanti ancora, si passò la notte sulle rocce con il battaglione delle camicie nere davanti e il XXIX a sinistra. Il giorno 21 avanti, ma siamo in coda, acqua non ce n’è, coraggio, avanti ancora, sono le tredici e ancora si cammina. Troviamo un vigneto, tutta uva acerba, ma, per dissetarsi un po’, tutto era buono, e qua ci fermiamo: ma come si fa a mangiare? Per fortuna arrivano i muli, almeno un po’ d’acqua, mezzo litro a testa, è poca, ma niente era peggio. La giornata si passò lì, per fare il saccheggio delle patate e delle pecore. Il 22 avanti, alle dodici si trovano quattro case bruciate, ma per fortuna in una c’è una cisterna d’acqua; allora ci fermiamo a distruggere i vigneti. Alle quindici avanti, è notte e siamo al paese della partenza. Il compito è compiuto. La notte si passa qui nel vigneto, sperando che tutto fosse terminato. Giorno 23, partenza, avanti ancora, altra puntata: pronta sveglia e avanti. Sono le undici e ci fermiamo attorno ad una cisterna: così si passò il pomeriggio un po’ tranquilli e alla sera c’è stata la mensa.

Giorno 24 agosto, il caffè e così il 25 e il 26, non si sa come, anche loro passarono. Il 27 si parte, sveglia alle sei per partire alle nove, è naia e basta. Alle undici e trenta ci fermiamo, arriva il rancio e poi la notizia delle licenze e un po’ di morale elevato. Dopo ci fu il secondo rancio, adunata, avanti ancora e i furbi sbagliano mulattiera. Alle nove eravamo sulle quote segnate, acqua e uva ci sono, quindi che vuoi di più? Il 28 arrivò il nostro caffè e il rancio, il caldo non manca, la salute ottima, saluti e baci alla sorella. Giorno 29, sveglia alle cinque, adunata e avanti. Per tutta la giornata fu un pane, in serata siamo al paese della strage: i cetnici che rompono tutto, le capre bruciate, a un croato han tagliato il collo, le donne tutte a piangere. Giorno 30 agosto, presto e avanti, dopo due orette di cammino siamo all’altro paese dove c’è un’altra strage: [15] otto morti in una sola casa. Alle undici siamo a Djodjolac,[16] prendiamo le quote e intanto c’è qualche tacpump, così a orecchio sembra non sia tanto lontano, coraggio, la barba l’ho fatta ugualmente, sono arrivati due portaordini in moto. Verso sera portarono viveri di riserva, vino di pane e sigarette, in numero di 105 a testa, più l’ordine, per il mattino del 31, di partenza alle cinque. E così fu. Alle dieci ci siamo incontrati con la milizia, che aveva trovato un po’ di ribelli, che dal paese di Krcac ricevevano dei rifornimenti, ma furono costretti a lasciare tutto. Intanto, il battaglione, un po’ di qua e un po’ di là, occupò le quote che teneva la milizia e così noi, in due ore di cammino, andiamo a quota 1200 e siamo a cento metri dal mare! E qui, per la poca voglia, arriviamo al giorno 6 settembre, a Metkovic, di ritorno dal rastrellamento, stanchi e tutti sconquassati dalle fatiche e maggiormente dal caldo, ma sempre contenti che la salute è ottima. Il giorno 7 siamo a Grado per riposo e non abbiamo una notte di tranquillità per il servizio: sempre coraggio! Giorno 13, ne partono due per la licenza, coraggio, il quarto sono io, ovverosia il mio turno, e questa sera andiamo ancora al campo, una sera si monta e l’altra si smonta, sempre al campo, e intanto facciamo la cura dell’uva.

Giorno 20 domenica, il desiderio è giunto. Alle tre siamo al ballo, l’unica dimenticanza della naie e così, sino alle sei e trenta, Dante si slega un po’ le gambe. Lunedì mattina la notizia della partenza esperiamo che ora non chiudano le licenze e poi tutto passa. Intanto il capitano mi dispensa dai servizi, data la mancanza del tenente Martinazzo, ricoverato all’ospedale. Martedì 22 quattro tuoni, sembra volesse venire un po’ d’acqua, non sarà così facile, ma così è andata, con due giorni di acqua e proprio al mattino del 23 la triste notizia tempo povero tenente Donati.[17] Il giorno 24 il funerale e in licenza non si parte, così è la vita. Nella notte il caso dei sacchi di mangime ai nostri conducenti. Nella mattina del 25 radio gavetta funziona: la seconda compagnia va in addestramento su di un’isola. Il 26 passò e così anche l’ordine che la compagnia vada al campo di addestramento. Il 27 la compagnia parte, Dante si ferma, rimanendo in sussistenza alla compagnia comando, in attesa per la partenza della licenza. Passa uno, passa due, passa tre, e al bel giorno 3 ottobre la notizia della nave “Veglia” cannoneggiata. Cosa si può pensare? Che le licenze vengano sospese! E così fu, che, al giorno 5, sono sospese.

Ora, dovessi perdere il portafoglio, il mese l’ho preso, la lira dei capisquadra l’ho presa, la quindicina lo stesso, ho in tasca quasi 2000 lire e il vaglia non lo posso fare sino al 15 corrente: ma, con le tasche buone e i bottoni abbottonati, i soldi saranno sempre al sicuro; da Maria ci andiamo poco, il vino bianco dolce se lo beve lei. Ancora il giorno 14 ottobre siamo a Grado, sempre in attesa, ma in mare ci sono i pescicani che silurano forte, quindi si vive benissimo a Grado. Intanto venne il fatto del portafoglio del Tondulli e la bella faccenda di passare al ripostiglio della seconda. Nella serata del 20 ottobre scese Danielis e gli raccomandai tanto per il mio desiderio. Giorno 21, quelli che vanno a sposarsi partono, ma per noi non c’è verso di principio, sempre coraggio, la passerà questa naja, che mai una volta ci vuol andar bene: l’anno scorso quindici giorni e quest’anno altrettanto. Cosa vuoi farci, così è la vita, tutto passa, quell’ora verrà. Il 23 la semina delle patate con l’artiglieria, Pissinis mi manda dell’olio e io gli mando le sigarette. Il 24 arriva la posta: la moglie di Nino scrive a casa mia per la licenza. Il 25 viene Pissinis a trovarmi e domenica, dopo i nostri consigli e aver mangiato, arriva anche Lidio: cosa facciamo? Andiamo a ballare! E così, via all’aeroporto![18] E Pissinis, pian piano, rientrò alla sua squadra a Metkovic, due ore di ballo volarono, troviamo che c’è il cinema e così non abbiamo sentito il bollettino.[19]

Il giorno 26 passò e il 27 mattina stavo ad aggiustarmi la giubba e mi chiamano per andare a Kupari per dieci giorni di riposo: un po’ malcontento, dato che aspettavo non quella, ma la partenza per la licenza, pianto lì tutto, mi preparo il fardello e così all’una e mezza arriva il camion e ce ne andiamo a Kupari, una bella improvvisata, ma cosa vuoi farci. Siamo arrivati. Da Kupari bisogna andare a Ragusa per fare il bagno e così aspettiamo che arrivino altri per avere gli autocarri e portarci giù. Alle quattro si partiva per Ragusa, alle sette di ritorno, fatto il nostro bagno, sempre bersaglieri, a noi per primi ci danno la nostra chiave, le lenzuola, andiamo alla nostra stanzetta e per la prima sera andiamo a dormire.[20] Il 28, con comodo anche suonata la sveglia, ci alziamo aspettando l’ora della zuppa, tutti allegri, quattro lunghe tavole con più di trecento uomini che stanno mangiando la pastasciutta: cosa vuoi di più? Poca ma buona. Dopo mangiato andiamo a Srebreno a trovare i vecchi, che l’anno scorso piangevano alla nostra partenza e, tutti contenti, desidererebbero che tornassimo ancora, ma chi lo sa? Giorno 19 ottobre facciamo le foto, il 30 alle bocce e alla sera la sbornia.

1° novembre altrettanto, il due aspettiamo che portino le fotografie, sono le due e non è ancora venuta quella ballerina di Ragusa. Aspettiamo e verrà quell’ora, basta la salute, l’ora è ancora quella di prima. Giorno 5, la signorina non venne, ma le fotografie le mandò e così tutti contenti delle belle pose. In serata ci pagano e poi allo spaccio con la combriccola a consumare tutti i dinari. Il 6 mattina si prepara tutto e, dopo un’attesa, vennero i volanti autocarri e si lascia anche Kupari. Si passa da Srebreno, si rammenta la passeggiata da Mariza. Alle quattordici si giunge a Gruda, che c’è di novità? I compagni sono partiti per la licenza e Dante con Rossi si son presi la silurata. Accidenti a tutti! Ma che vuoi fare? Intanto la voce corre che si va in Italia, ma sì, io pensavo alla licenza. Poi venne l’ordine che le licenze sono sospese, allora andiamo a Prevlaka[21] a trovare i compagni della compagnia e sino al giorno 17 è stata una villeggiatura di viaggio, sulla strada lungo il mare, con l’autocarro dell’acqua a prendere gli oggetti di corredo. Il 17 si ritorna a Gruda per riunire il battaglione per la partenza in Italia, che ormai era certa, detta dal tenente Tobia all’invito del giorno 17. La voce era ormai larga a tutti e così era un continuo di una sola voce.

Giorno 19, si sente la voce che invece, dal bello al brutto, si va a rastrellamento: per fortuna che a Vrbanja[22] ci sono stato il giorno 18, altrimenti la facevo io la prova di marcia. Il morale si abbassa, in Africa ripiegano, i bombardamenti continuano. Giorno 20 novembre, si parte da Gruda, Maria l’hanno portata a casa con la sua confidenza. La giornata del 22 la passiamo a Metkovic, il 22 mattina, pronti per partire, poi l’ordine che non si parte, e così passo anche il 22. Il 23 il convoglio dei barconi parte, la giornata è bella, un po’ di vento nel pomeriggio, ma alle quindici siamo al porto di Spalato. Andiamo alla caserma Roma, nessuno ci vuol dare il posto da dormire, ma, dopo le sei, è giunto il nostro maggiore e subito ci fu il posto-paglia. Tutte le voci sono buone, le licenze ci sono, ma sono quelle del congedo e tu, Dante, aspetta! Be’, andiamo all’Unione Militare a prendere la bustina,[23] poi una passeggiatina e verrà l’ora del rancio. Ritorniamo a mangiare, c’è l’allarme, andiamo bene, qui tutti attorno alla caserma! Il 25 e il 26 passano a Spalato, il 27 siamo giunti con una bella autocolonna a Zadvarje, il 28 di scorta al passo, domenica 29 allarmi e poi a Blato, ventidue chilometri, accidenti al colonnello della fanteria. Lunedì a Dernis di scorta alla colonna e lì ci fermiamo.

Martedì 1° dicembre, di ritorno a Zadvarje, due ordini e contrordini e il secondo plotone andò ad affondare la mina che fece saltare l’autocarro. Il 3 c’è l’ordine che si ritorna, ma in serata, giù alla centrale, sparano e i casi sono due: andare o rimanere. E così, alle diciotto, ci fu l’ordine di rimanere. Il 4 tutta la giornata a sparacchiare, ma tutto il materiale ormai è partito e così aspettiamo il 5 per andarcene. 6 mattino, sveglia alle quattro e per le sei si può partire; dopo due primi giorni così belli, bisogna proprio aspettare il giorno della pioggia e passare dalla strada brutta. Il destino ci seguirà, giù dell’acqua e avanti! Il punto più brutto si pensava che fosse passato, ma viene ancora acqua, si mangia la scatoletta, tutti sono al verde, addio sigarette. Ma Dante pensa a tutto, così fuori le sigarette e tutti contenti: quando un uomo c’ha da fumare…[24] e poi basta! I pantaloni sulle ginocchia cominciano a bagnarsi e siamo a metà strada; tutto è andato bene, speriamo ancora bene. Alle 16 siamo a Dernis e le scarpe fanno cic-ciac. Siamo in un punto di passaggio, così ci mettono in un capannone a mucchio, come le api nel loro alveare. Fuori a mangiare, tanto De Paoli[25] paga. Una tavola da barca, nel ritorno, serve da pagliericcio e la notte passò, altro che barcone, a Spalato a piedi andiamo! La compagnia di testa tiene gli occhi aperti. Giorno 7, alle quindici a Spalato e il colonnello è all’ospedale: troppo bello! Scorta di qua, scorta di là, il giorno 8 c’ho giù la voce. Andiamo via ancora, il 9 di scorta al terzo plotone che va di là, a Traù. Giorno 11 si parte, la scorta si ferma a Castel Vitturi. Troppo tranquilli col tenente Viberti,[26] non si pensava neanche alla licenza. Il giorno 13 viene il maggiore, novità: domani andiamo via. Domenica 14 si parte per Traù e così andiamo a dormire nel cinema coi compagni sergenti e aspettiamo la licenza. Andiamo al comando e tutto è a posto. I giorni 15, 16 e 17 passano sempre in attesa di buone notizie. Il mattino del 17 i compagni partono per Spalato e Dante è ancora con loro. Il 18 mattina andiamo di scorta, però la licenza l’ho vista e così per tutta la giornata sto con l’ansietà del ritorno. Sono le sedici, siamo di ritorno, le notizie sono buone e così pure anche l’amico Ettore, anche lui è in partenza. Sempre il 18, nella serata, la rabbia con Pozzi per il fatto dei pantaloni. 19 mattina, sveglia alle cinque, e così in tempo a prenderci quella poca moneta, e poi ce ne andiamo al porto. In breve tempo tutti compagni sono arrivati, il battello parte e per fortuna che il viaggio è corto, altrimenti guai, altro che essere in altalena!

Sempre coraggio e mai paura, entriamo in porto, il facchino è pronto, mi porta al ripostiglio e in poco tempo tutto è a posto. Lo scherzo della giubba e poi andiamo al comando tappa, dal comando tappa alla bonifica, poi si va di ancora di ritorno al comando tappa e poi a mangiare nella trattoria. Le voci sono buone, ma le navi sono poche e la sera rientriamo alla caserma Roma, accidenti anche a lei, per fortuna chi se la può squagliare è un bersagliere, ma a Spalato 100 lire al giorno sono poche. Il 21 dicembre mi tocca montare di servizio d’ispezione, il giorno 22, quando il destino vuole, ci chiamano per darci i viveri per quattro giorni e cioè sino al giorno di Natale. Invece della nave c’è la tradotta, sono le quattordici e trenta, la tradotta parte e appena a sera siamo a Dernis e mi trovo con l’amico Dondoni, con la speranza di proseguire. Le notizie più importanti sono le informazioni del Maggiorino, poi ci salutiamo e buona fortuna! Il 23 ce la passiamo lì, allora andiamo a mangiare il risotto, alla sera la frittura dell’asino, il 24 ancora e sempre dall’amico e giù delle belle padelle di asino. Il 25 mattino, se tutto va bene, andremo avanti. Così alle venti la tradotta si muove, alle tredici siamo a Knin, si prelevano i viveri e poi si riparte. Sono le quattordici e venti, passiamo vicino ai compagni del XXXI battaglione, alle diciassette siamo a Gracac, la notte ce la passiamo lì, il 26 mattino, tutti siamo in buona speranza di proseguire, ma, tutto al contrario, i bastardi hanno fatto saltare la linea e hanno preso un paese. Così si aspetta, si mettono a distribuire viveri, pure salame e scatoletta, e aspettiamo le novità, mentre l’artiglieria comincia a sparare. Ormai la stanchezza è doppia, è tutto al contrario, ma, quando il destino ha voluto, la cosa si cambiò. Il 28 mattina gli armati tutti a fare scorta per riparare la linea e anche quel giorno passò, con i feriti che arrivarono giù all’ospedale. Sono arrivati i compagni, la linea è pronta, ma più giù sparano e così, un bel momento, si ritorna indietro. Intanto si fa buio, dalla gioia non si vedeva che il momento della partenza, poi arrivò qui arrivò il treno con il XXXI battaglione e nevicava: poveri compagni! Il treno parte, dopo duecento metri c’è un piccolo incidente, ma la paura era grande. Si parte di nuovo e alle ventitré siamo a Knin e lì si dorme: ciao, qua siamo più al sicuro!

Al mattino del 29, alle sette, il treno parte, alle otto siamo a Dernis, faccio un salto e vado da Italo che ancora dormiva e mi dà la novità che il XXVI battaglione è anche lui a Dernis: basta essere disgraziati e poi si è detto tutto. Il treno parte, saluto l’amico e andiamo a Perkovic[27], dove devono decidere se portarci a Spalato o a Sebenico e così si gira per Sebenico. Sono le quindici, siamo a Sebenico con loro comodità e, dopo parecchi chilometri, ci portano ad un baraccamento che di 1000 persone se ne stavano 200, accidenti anche alle valigie che pesavano! Di ritorno al comando tappa, proprio vicino al porto, con la bontà di un alpino si trovò una stanza, ma Dante è basso di morale. Sempre bene, ma ora che c’ha la licenza, ha anche i foruncoli sul collo! E poi, con otto giorni di gallette, addio colorito. Pazienza! A letto arriva a notizia che si parte, ma sarebbe troppo bello, così, e la notte passò. Il 30 mattino ci alziamo presto, ma partono solo quelli che già erano lì dal giorno prima. Cosa vuoi fare? Meglio Sebenico che Gracac. Alle dieci chiamano quelli armati e anche loro partono: troppo bello! La barca non arriva e ancora ci fermano qui. Il 31 quelli arrivati partono. Quando Dio vorrà, verrà anche il nostro turno.

1° gennaio 1943. Ci alziamo sperando in bene. Mentre scrivo queste parole sono le undici, ma, il primo dell’anno, nulla di nuovo…

Fine del Quaderno IV

Fine dei Diari di Dante
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[1] Un altro santo: le ricorrenze dei santi punteggiavano il calendario e la vita, e i militari al fronte ne ricordano i riti e i festeggiamenti.

[2] … e tante belle altre notizie. – Il 21 giugno 1942 le truppe italo-tedesche completavano la conquista della piazzaforte di Tobruch, in mano inglese dal 21 gennaio 1941, catturando oltre 33.000 soldati britannici.

[3] La bella lettera della signorina… – Ancora dei puntini per un donna anonima: qui tra un corredo, un encomio e un paio di pantaloni Dante ne riceve una lettera.

[4] Un po’ di stop. – Come in altre occasioni si riferisce a fasi ripetute di addestramento formale.

[5] La notizia dell’altro mese a pagamento. – Si tratta di un supplemento che gli spetta per la mancata fruizione di una licenza di 30 giorni. Dal suo foglio matricolare ne risultano corrisposte due in totale.

[6] Sebastopoli. –  La vittoria dell’Asse, in effetti, fu molto celebrata, anche se alla battaglia parteciparono solo truppe tedesche e rumene, mentre la partecipazione italiana si limitò ad un supporto navale, fornito della 101ª Flottiglia MAS.

[7] La festa dei comunisti a Zavala. – Anche qui una spiegazione sarebbe stata utile, ma anche qui rimaniamo con un interrogativo non da poco, soprattutto… dal punto di vista politico-militare.

[8] Tenente Bologna. – Francesco Bologna, dell’Ufficio tattico, già incontrato al capitolo 11. Decorato con medaglia di bronzo (Borove 18 aprile 1941).

[9] Cravatte rosse. – Si tratta di un reparto della 13ª divisione di fanteria “Re”, già prima impegnata in combattimenti nella Croazia settentrionale. Successivamente condurrà altre aspre battaglie, in particolare la “Battaglia della Neretva”, combattuta, tra il gennaio e l’aprile 1943, tra le forze dell’Asse e l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia all’apice del “Piano Bianco”. La battaglia, aspramente combattuta e segnata da esiti altalenanti e drammatici, si concluse con un successo per i partigiani jugoslavi di Tito che, nonostante le gravi perdite, riuscirono a sfuggire alla manovra d’accerchiamento tedesca e a sconfiggere nettamente i reparti italiani e cetnici.

[10] – Partenza del colonnello in Africa. – Si tratta del colonnello Nicola Straziota (v. nota 111), che va a prendere il comando del 7° reggimento bersaglieri, che sarà impegnato in Libia e in Tunisia, dove perderà oltre il 60% degli effettivi. Il colonnello Straziota proseguirà con successo la sua carriera militare nell’esercito della Repubblica.

[11] – Capitano Mazzoni. – Non ci sono ulteriori informazioni. Quaglino indica invece che a subentrare a Verdi sia il capitano Ciro Raimondo, “un simpatico notaio di Vercelli”.  

[12] Podprolog. – La grafia originale suggerisce questa località come compatibile con il contesto.

[13] Ansaldi. – Vedere nota 68.

[14] Crveni Grm. – Nella grafia originale del papà era “Gorman” ed è stata la decifrazione toponomastica (riuscita) più complicata dei diari.

[15] Al paese della strage… dove c’è un’altra strage. – Anche Scalone, nelle sue memorie, racconta delle stragi e dei particolari che ha visto, compresi due sacerdoti uccisi: i due battaglioni operano infatti insieme, come abbiamo letto, dal 13 agosto e partecipano quindi agli stessi, tragici eventi e le loro storie incrociano la Storia. Durante alcune azioni dell’operazione italiana “Albia” contro i partigiani di Biokovo, nei villaggi della regione di Vrgorac, furono compiuti grandi massacri di civili croati. Chiese, case e fienili sono stati bruciati e, oltre alle donne, anche incinte, e agli anziani, sono stati uccisi anche tre sacerdoti: fra Ladislav Ivanković (parroco di Košice), don Ivan Čondić (parroco di Rašća) e don Josip Braenović (parroco della parrocchia di Biokovska). Questo è stato uno dei crimini più brutali durante la seconda guerra mondiale, commesso dai cetnici in collaborazione con gli italiani, che li hanno portati sul luogo in camion. In Italia l’eccidio è finito sotto lo stesso accomodante silenzio concesso a tutti crimini commessi nei territori balcanici e curiosamente, ma non inspiegabilmente, anche in Jugoslavia, ove le autorità dello stato federale hanno taciuto sul crimine o addirittura lo hanno attribuito agli ustascia. Solo negli anni ’90 si è iniziato a parlare apertamente del fatto che i cetnici lo avessero fatto e a cercare il perché della mistificazione: la Jugoslavia era una creazione della Grande Serbia, e i principali criminali e portatori di quello stigma dovevano essere i croati, che dal canto loro e in altre zone ne hanno fatto anche di peggio, se il peggio esiste in queste cose.

[16] Djodjovac. – La grafia originale italianizzata suggerisce questa grafia croata, che però sinora non ha consentito di individuare correttamente la località, anche se la zona appare ben delimitata dagli altri toponimi viciniori sin qui acclarati. Idem per la località di Krcac, citata tra qualche riga.

[17] Tenente Mario Donati (Romentino, 22/06/1915) – Data di Decesso/Dispersione: 23/09/1942 – Luogo Decesso: Jugoslavia – Luogo Sepoltura: -.  Decorato con medaglia di bronzo a (Borove, 18 aprile 1941).

[18] Aeroporto. – Proprio scritto così: era il nome di un locale?

[19] E così non abbiamo sentito il bollettino. – È la conferma che quindi il bollettino di guerra è un rito quotidiano quasi obbligato e cui i soldati tengono molto per essere informati sull’andamento della guerra.

[20] A noi per primi ci danno la nostra chiave. – Ci sono delle belle fotografie, di cui parla più avanti, che il papà ci ha lasciato di questo posto di villeggiatura e che hanno consentito l’individuazione del luogo e del resort.

[21] Prevlaka. – Località situata su una stretta penisola, punta meridionale della Croazia.

[22] Vrbanja . – Ci sono alcune località in Croazia e in Bosnia con questo nome, ma nessuna pare essere compatibile con i luoghi descritti in questa fase.

[23] La bustina. – Il copricapo d’ordinanza per ufficiali e sottufficiali.

[24] Quando un uomo c’ha da fumare… – Detto da un non fumatore, denota molta comprensione del vizio altrui.

[25] De Paoli. – Caporale Ettore De Paoli – Decorato con Croce di guerra al V. M. (Monte Furka, 21 novembre 1940).

[26] Tenente Viberti. – Lorenzo Viberti (1914 – La Morra -Cuneo). – Decorato con Croce di guerra al V. M. sul fronte greco-albanese (Darke, 22 novembre 1940) e poi con medaglia d’argento alla memoria (Fronte greco-albanese, Croazia, Germania, 1941-1942-1943, 13 luglio 1945). Sorpreso dagli eventi dell’armistizio, rifiuta una licenza per non dover abbandonare il reparto in un momento così critico e per poterlo difendere con l’onore delle armi. Impeditogli di combattere, affronta con fermezza la dura prigionia, rifiutando ogni proposta di adesione allo stato fascista. Anche l’ultima, che gli verrà sottoposta quando, affetto da una malattia inguaribile, potrebbe far ritorno a casa al prezzo di una semplice firma. Morirà nelle pieghe di un tribolato rientro in Italia il 13 luglio 1945.  

[27] Perkovic. – Località coincidente con lo snodo ferroviario.

Il primo dell'anno niente di nuovo

Dopo tre anni di paura, di dolore e di morte in un incondizionato tributo di fedeltà alle istituzioni, dopo l’illusione collettiva e individuale di una vittoria possibile solo nella retorica dei bollettini, dopo aver combattuto in terre lontane per la “grandezza della patria”, Dante, a pochi chilometri dal confine, non riesce a rientrarvi, perché c’è un nemico appena fuori di casa che glielo impedisce. Chissà se ci avrà pensato…

Il racconto di Dante finisce qui, nell’attesa di ritornare a casa in licenza dopo una lunga e tribolata attesa e lasciandoci sospesi in quei puntini. Non so il motivo per il quale il papà non ha più scritto, lasciando ancora in bianco le ultime pagine del suo quarto quaderno di memorie. I quaderni saranno custoditi a Milano dalla sorella Rosa, che glieli renderà al suo ritorno a casa nell’agosto del 1945, dopo la prigionia in Germania. Forse ha ripreso a scrivere, una volta rientrato dalla licenza: se lo ha fatto, gli scritti sono andati perduti dopo l’8 settembre. Non siamo mai entrati nei particolari: già il solo parlare dei diari era un’impresa, per lui che sapeva e per me, che avevo imparato ad averne paura, come di mostri dormienti in una cesta di vimini che intravedevo in cantina.

Sappiamo dal suo foglio matricolare che, dopo tanta altalenante attesa, riuscirà finalmente ad andare in licenza, dalla quale rientrerà a metà febbraio 1943, per essere inghiottito da un destino che doveva ancora presentargli il suo volto più spaventoso.

Poi ci sono i documenti della prigionia, dello stalag e del ritorno, con la prima foto senza divisa.

Ecco Dante, durante il viaggio di ritorno da Wietzendorf, ripreso in penombra, a sinistra, già tornato alla sua grande passione: il ballo.
Abbiamo la data certa della forografia, ma non il luogo: ogni ricerca finora non ha data esito certo.

Riflessioni

Alla fine del racconto del papà mi s’impongono delle riflessioni, da rilasciare dopo averne accumulato gli spunti nel corso della trascrizione, specie nell’ultima parte di essa.

Sono riflessioni che, a partire dall’inizio, rimbalzeranno in successione da una sponda all’altra della storia, su ciascuna delle quali è assiepata una moltitudine composita di preconcetti e di ideologie, tra i quali occorre fare soprattutto chiarezza e ordine, separando i fatti dalle convinzioni, contestualizzando gli eventi nei tempi e nei lughi in cui avvennero e riconoscendo il più possibile le tante tonalità di grigio presenti tra il bianco di una sponda e il nero dell’altra, non volendo dare a ciascuno dei due colori alcun significato, se non quello che sono uno l’opposto dell’altro.

Principalmente, anche se forse è scontato, vorrei ribadire che riportare un racconto essenzialmente incentrato sulla guerra non vuole dire né esaltarne gli aspetti violenti, né condividerne i principi, ma, al contrario, cerca di offrire l’ennesimo contributo, dall’osservatorio più realistico perché adagiato sulla tragicità degli eventi, per guardare ai fatti così come avvennero, così come furono vissuti e come sono giunti a noi, senza intermediazione alcuna, se non quella delle mie note, e della Storia già scritta, sulla quale zoomare all’occorrenza.

Ma la violenza c’è, anche se, dopo lo stupore iniziale, il papà quasi la riduce a scomoda ma necessaria quotidianità, tra attese e speranze: quindi, alla fine, di quella violenza, oltre che testimone, egli è stato anche attore, con la sua Breda, o è stato più che altro vittima, con tutto quello che ha subito e con quello che gli è stato tolto?  Lascio aperta la prima domanda, che potrà essere temperata con alcune delle riflessioni che seguono, mentre, per quanto riguarda la seconda, direi che tutto ebbe inizio una domenica di settembre del ’39, a Stradella, quando, tra il suono di una fisarmonica e l’attesa dell’imminente vendemmia, arrivò una cartolina che lo spedì all’inferno.

Cittadino leale, rimise il grigioverde e riconobbe in un’arma il suo nuovo strumento di lavoro: era di nuovo soldato e il soldato ha sempre assunto connotati positivi, così come assurto dall’immaginario collettivo a difensore della patria. In tale veste, al soldato viene perciò insegnato a sparare e ad uccidere. Omologato ciò e al netto della retorica, tutto il resto è… naia. E se poi è anche guerra, eccepiamo? Aggressore o aggredito? Vai a distruggere o difendi la tua terra in pericolo? Nella Prima guerra mondiale, al di là della forma e della propaganda, un taglio netto non ci fu mai, mentre, nella Seconda, la Storia ha stabilito, senza equivoci e marginalizzando inevitabili complicanze locali, chi offendeva e chi si difendeva, chi occupava e chi combatteva l’occupante, chi caricava i forni e chi vi bruciava. Chiarito questo, occorre poi separare la responsabilità collettiva, della nazione, del capo, della classe dirigente, del dittatore, dalla responsabilità individuale, di chi, al fronte, marcia su terre altrui e spara a quelli che provano a fermarlo?

Dante, nel nostro caso, partecipò a tre “guerre” (Francia, Grecia e Jugoslavia) e furono tutte di aggressione. Esse, poi, degenerarono, in diversa misura, anche a guerre di occupazione e genocidio. Questi due connotati si sommano e inchiodano l’Italia a ben precise responsabilità che non hanno un confine ben preciso con quelle della Germania, se non quella discriminante offerta dalla cobelligeranza e dalla Resistenza. E i soldati che portarono tutto ciò a compimento? Non possiamo evidentemente, anche qui, porre un taglio netto tra le responsabilità dei decisori politici e degli alti gradi militari da una parte e quelle dei soldati semplici esecutori di ordini dall’altro. Il dibattito c’è sempre stato, una risposta precisa mai: responsabilità individuale, responsabilità collettiva, eccetera. Pur tenendo ciò sempre ben presente, non ci deve viceversa essere impedito di conoscere e, se possibile, dare il doveroso riconoscimento a dei soldati che, per sola fedeltà istituzionale e mandati allo sbaraglio nelle più sciagurate condizioni, seppero uscirne “a testa alta”, talvolta da eroi, forti solo di quella e delle loro doti. Anche per questo, da un lato per conoscere, dall’altro per riconoscere, ritengo giusto aver dato pagine ai racconti di guerra di mio padre, per quanto, prima lui e poi anch’io, li abbiamo tenuti troppo, per una vita, nel limbo dei segreti

Le riflessioni si stanno sommando e si confondono, ma una sintesi correntemente accettata può essere quella per la quale se il soldato è bravo, forte, tenace, coraggioso e elimina un buon numero di nemici, egli è un buon soldato, specie se salva anche dei compagni in pericolo a sprezzo della propria vita: poi, se vince, è il massimo. Al contrario, se nella guerra il soldato scatena, al di là e al di fuori degli ordini, le più sue più crudeli attitudini alla violenza sugli indifesi, egli si candida a criminale di guerra. Ma anche, qua, evidentemente la scala di grigi tra il bianco ed il nero, è infinita, specie in un contesto di fuoco, dolore, distruzione, rabbia, fame e tanto altro, in cui tutto è caos, tutto è paura, tutto è odio.

Oggi gli armadi sono tutti aperti anche per quanto riguarda i crimini di guerra commessi dagli italiani, che non lesinarono, come sempre nelle guerre di conquista, ferocia e sopraffazione, attraverso atrocità contro le popolazioni civile delle zone conquistate e contro i partigiani che operavano sui territori. Le librerie italiane sono ormai piene, infatti, di libri che narrano e spiegano gli eventi della Seconda guerra mondiale: quelle che mancano sono le opere sugli accadimenti, anche di secondo o terzo livello, (come quelli gli eccidi di cui Dante è testimone, di cui non ho trovato nulla, sinora, nelle decine di testi italiani consultati) che costituiscano la rimozione puntuale delle certezze scontate, dei pensieri unici, delle convinzioni ideologiche radicate e che aiutino a capire e conoscere tutti gli aspetti della partecipazione dell’Italia nel suo ruolo effettivo di aggressore e di occupante: due termini che, fino a pochi anni fa, non ho mai sentito associare al nostro paese, né a scuola, né in casa, né con gli amici, né coi parenti, nemmeno con qualche ex partigiano, con cui ho avuto occasione di parlare.

Alla fine della guerra, in ogni caso, il giudizio era diviso tra un’opinione pubblica internazionale che considerava i militari italiani quali criminali di guerra e un’opinione pubblica interna tendente a considerarli buoni italiani, vittime, purtroppo, della guerra fascista e il bambino che fui sa quanto questo concetto fosse penetrato in tutte le famiglie, con le contraddizioni che la tenera età non gli impediva di cogliervi. Occorsero decenni e l’apertura di tanti archivi per avere una risposta storica da affiancare a quella già colta, ma oscurata: le truppe del Regio Esercito, durante l’occupazione di Jugoslavia, Grecia ed Albania, si abbandonarono a forzature etniche, repressioni contro i civili, internamenti, esecuzioni sommarie, tutte cose che si chiamano “crimini di guerra”. Eppure, tutto ciò costituisce un tema del quale l’opinione pubblica italiana ha sempre rifiutato il riesame, mentre l’elaborazione “del lutto” per il passato fascista è stata sostituita da una generale rimozione autoassolutoria centrata sul falso mito del “buon italiano”. Le ragioni di tale mito trovano origine nella particolare situazione internazionale del dopoguerra e la realpolitik prevalse, penetrando col nome di opinione pubblica nell’ipocrisia dello spirito di ciascuno, a coprire l’imbarazzo di un passato di cui, un po’ tutti, si vergognavano.

Al sorgere delle prime domande adolescenziali, allo svelamento della Resistenza, all’evocazione del “tutti a casa”, alla constatazione di fatto di un diffuso consenso popolare al fascismo, capii tutto quello che c’era allora da capire, senza fare altre domande, né al papà che, “aveva sparato in alto”, né alla mamma e alla nonna, che lo confermavano, preferendo stupirmi coi loro ricordi dell’occupazione, dei tedeschi in casa, della Sicherheit in arrivo da Broni, dei “mongoli” incombenti da Varzi, dello zio Carlo che nascondeva i partigiani… Alla fine, per me ed i miei coetanei, tutto finì per sembrare un film, dal quale i genitori erano tornati vivi dopo averlo girato e del quale si era persa la pellicola: in effetti, a pensarci bene, nei tanti film di guerra che andavano allora per la maggiore, si vedevano solo i buoni, americani e inglesi, contro i cattivi, tedeschi e giapponesi. E gli italiani? Guerra per finta, brava gente!

Solo qualche amichetto, raro, ma c’era, ti veniva incontro con la mano destra alzata e sbattendo i tacchi, confessando, con un sorrisetto idiota, le simpatie di famiglia per quel tempo in cui i treni erano in orario e gli operai non facevano lo sciopero, al prezzo di qualche purgata all’olio di ricino… Ma poi si giocava insieme a pallone: la banalizzazione del fascismo cominciava già da lì, tra le pieghe di quel tempo, in cui l’esigenza nazionale s’infilava nell’inconscio collettivo e si spalmava nel quotidiano individuale.

Tra una riflessione e l’altra, devo anche dire che ho cercato di capire quanto il papà, effettivamente e al di là dei suoi silenzi e del racconto, fosse stato vicino agli eccessi di violenza “oltre il dovere dell’obbedienza” accennati prima, di persona o col suo reparto. Bene, egli ce lo racconta quando, alla fine di agosto del 1942, nel corso di un’ennesima “puntata” contro i ribelli, i cetnici che precedevano il suo battaglione compirono due ben circostanziate stragi ai danni di civili croati: pulizia etnica certo, ma anche lavoro sporco su commissione, spinta complicità: i cetnici, lì, ce li avevano portati gli italiani, con “trentatré camion”, come recita la precisa testimonianza di chi c’era. In tutte le altre “puntate” contro i “ribelli” ci sono “solo” scambi di colpi, rastrellamenti, imboscate, sabotaggi, guerra “normale”, al massimo, corredata, ahinoi, da qualche furto di bestiame e dall’incendio di qualche vigneto. Vero è che, negli ambiti divisionali e territoriali nei quali Dante si è trovato ad operare, alcuni vertici militari o esecutori materiali, alla fine della guerra furono denunciati per crimini di guerra e finiti sul relativo registro (CROWCASS) e nessun nominativo del 4° reggimento bersaglieri vi è presente, né ho mai letto nulla in merito da altre parti. Eppure, una sorta di corto circuito della coscienza in qualche modo si realizza quando, la firma del generale Giovanni Antonio Pivano, il cui nominativo è presente nell’elenco CROWCASS con l’accusa di tortura, appare in calce all’Encomio Solenne[1] assegnato mio padre per il soccorso prestato ad un compagno ferito in una situazione di estremo pericolo: il comandante supremo è un criminale di guerra, il soldato un eroe. Difficile trarne una regola, inevitabile una marea di analisi e di valutazioni…

Tra le quali, ancora, dobbiamo fare un salto di sponda. A partire dalla divisione Pinerolo e dalla divisone Acqui, ci furono molti ufficiali italiani che non si sottomisero all’umiliazione di cedere le armi alle truppe tedesche, come il generale Amico, citato da Dante nel suo racconto. Egli è sì presente nel registro dei criminali internazionali, ma risulta al tempo stesso decorato con medaglia d’oro per essersi rifiutato di cedere le armi, dopo l’8 settembre, ai tedeschi, che già con lui avevano un conto aperto circa la gestione degli ebrei nei territori sotto il suo controllo. Per quanto riguarda il reggimento di papà, furono trucidati dai tedeschi, negli stessi frangenti, il comandante del reggimento, colonnello Verdi e il capitano Conti, dell’ottava compagnia.

Scendendo al livello personale del papà, al suo racconto, dove fame, freddo, paura, sangue e coraggio sono intercalati da illusione, razzismo e anacronistici miti patri, anche qui vediamo due sponde opposte e contrastanti: dopo tutto quanto combinato, diciamo pure, dalla parte sbagliata, a Sebenico si prepara invece ad opporsi ai tedeschi che gli chiedono di deporre le armi, ma viene tradito dalle alte sfere con tutto il suo reparto e di fatto non gli vien consentito di combattere l’ultima battaglia, quella dalla parte giusta, quella del riscatto. Gli rimase solo un monosillabo: no! Lo disse una volta lì, a Sebenico, privato degli ufficiali, ignaro di ogni conseguenza, a fronte della promessa di rimpatrio in Italia; lo disse altre volte in campo di concentramento, quando aveva già provato la durezza della sorte che gli era toccata, altro che la vittoria! Lo disse insieme ad altri 650.000 soldati, che, come minimo dimenticati da tutti e senz’altre armi che la determinazione e la dignità, seppero vincere la loro guerra. La vittoria, sotto in tutti gli aspetti, fu loro pienamente riconosciuta solo decenni dopo e non solo sotto l’aspetto morale e simbolico: 650.000 sì, al netto di probabili, successive, defezioni, sarebbero state almeno trenta divisioni di veterani da schierare dai nazifascisti contro gli alleati, con immaginabili conseguenze sui tempi della guerra e della liberazione e con la probabile riscrittura della Resistenza.

Dopo le tante considerazioni e riflessioni storiche sin qui fatte, è il momento di riportare il diario alle sue umili dimensioni di racconto, dalla grammatica e dalla sintassi rivedibili, ma testimonianza di base autentica di un contadino-amante-del-ballo-con-bicicletta-e-mitragliatrice-al-seguito per conoscere ed esplorare la vita militare al fronte, quella di tutti i giorni, tra il crepitio delle armi e i compagni che muoiono, in attesa della posta e del cibo che non arrivano, nell’illusione di una licenza o della fine, vittoriosa, della guerra. La gavetta, la tenda, il pagliericcio, il vino, l’obbedienza, il dovere… Questo aspetto essenziale del racconto va salvaguardato, a prescindere dal contesto storico e di tutti i distinguo di cui ho riempito queste pagine (ed ho tralasciato ancora qualcosa…). Anche perché il papà non si limita a testimoniare di fatti e di persone, ma accompagna per lo più ad essi i sentimenti, le riflessioni, gli stati d’animo, le considerazioni che quei fatti e quelle persone generano al momento. Con delle grosse sorprese, certo, come quella di avermi taciuto per tutta la vita di essere stato ad Atene e di esserne stato abbagliato dalla bellezza.

 

[1] L’encomio solenne è oggi una ricompensa militare prevista dal vigente regolamento di disciplina militare, all’articolo 77. È una lode particolare per lodevole comportamento o rendimento in servizio ed è pubblicata nell’ordine del giorno del corpo, di unità e di comandi superiori, affinché sia da esempio a tutti. Esso può essere rilasciato da un ufficiale di grado non inferiore a generale di corpo d’armata o grado equivalente, che ne detta la motivazione la quale deve essere trascritta nel libretto personale del militare.

RIFERIMENTI

L’operazione Albia

Nell’ambito dell’attività di presidio del territorio ex jugoslavo, una delle più incisive operazioni di controguerriglia del Regio Esercito dell’intero conflitto fu la cosiddetta operazione “Albia” che condussero congiuntamente, nell’estate del 1942, i corpi d’armata VI e XVIII a partire dal 12 agosto, quando il papà, neo sergente Dante Schiavi, racconta l’evento dal suo punto di osservazione, annotando: “Il 12 sveglia alle tre e trenta, alle cinque partenza ed è proprio la mia squadra a prendere tutte le quote. Un’ora di cammino alla prima quota, ci siamo. […] Alle tredici finalmente si mangia la scatoletta, ma l’acqua dov’è? Così, giunti alla sera, quattordici quote furono prese: fortuna che i ribelli chissà dove sono! Formato il caposaldo, viene l’ordine di ritornare, accidenti al cielo non si in che quantità!”

La prima fase dell’operazione si protrasse fino al 22 agosto e si svolse nella zona compresa tra le foci della Narenta e la strada Metkovic-Vrgorac, per poi concludersi, con la nuova denominazione “Biokovo”, a sud di Mostar, nella seconda zona, tra il 28 agosto e il 2 settembre. I partigiani persero in tutto un migliaio di uomini, gli italiani cinquantotto, la M.V.A.C. 127.

All’operazione parteciparono reparti delle divisioni “Bergamo”, “Messina”, “Sassari” e “Marche”, compresi due battaglioni bersaglieri (come sappiamo, il XXVI di Dante ed il XXIX), con il supporto di artiglieria e di carri leggeri, per un totale di circa diecimila uomini. Determinanti furono anche l’intervento dell’aeronautica e l’attivazione di una rete di comunicazioni radio di grande potenza che consentirono anche l’intervento della Marina, che operò con tiri contro costa.

L’operazione ebbe purtroppo dei tragici “effetti collaterali”, in particolare il compimento di alcune stragi a danno dei residenti croati, compiute materialmente dai cetnici serbi, ma con il supporto ed in collaborazione con l’esercito italiano.

Di questi fatti, nella disponibilità corrente di pubblicazioni e di documenti in rete, non esiste quasi nulla, almeno in italiano, in parte perché essi rientrano (data la gravità, a pieno titolo) nella amplissima e ormai storicamente smascherata rimozione nazionale della nostra occupazione balcanica (e della nostra partecipazione alla Seconda guerra mondiale in generale), ma anche per un curioso fatto di disinformazione, scientificamente architettato dalla Jugoslavia di Tito e durato fino ad un decennio fa, quando alcuni studiosi croati hanno portato alla luce quei fatti e svelato l’inganno di quello strano silenzio.

Questo, pepetrato nella zona di Vrgorac, è stato  uno dei più brotali crimini cetnici nella seconda guerra mondiale, che i sopravvissuti e i parenti delle vittime non hanno mai dimenticato. Pur essendo stato commesso in collaborazione con gli italiani e nonostante la grave contrapposizone tra Italia e Jugoslavia protrattasi per oltre dieci anni dopo la fine della guerra, le autorità comuniste hanno taciuto sul crimine o addirittura lo hanno attribuito agli ustascia, per non screditare l'”anima serba” della repubblica federale jugoslava.

Questi fatti sono ripresi nel seguito dei “Riferimenti” a questo capitolo dei diari, a fianco del racconto che, purtroppo, Dante ne fa, perchè c’era.

29.08.1942 – Za vrijeme talijanske operacije Albia četnici pobili 145 stanovnika Vrgorske krajine (Durante l’operazione italiana Albia, i cetnici uccisero 145 abitanti della Vrgorska Krajina)

Con il rafforzamento del movimento partigiano a Biokovo attraverso il battaglione “Josip Jurčević” a metà del 1942 e l’avvicinamento della prima brigata proletaria in questa zona dopo la conquista di Livno il 7 agosto 1942, si crearono le condizioni per la fusione dell’area partigiana in Bosnia con quella in Dalmazia, fino al mare. Consapevole di questo pericolo, il comando italiano percepisce la necessità di effettuare una più ampia operazione militare intorno al Biokovo, nell’Imotski Krajina, e il conseguente accerchiamento e distruzione del battaglione “Josip Jurčević” sulle cime del Biokovo. Durante l’estate del 1942 l’esercito italiano condusse due minori offensive contro i partigiani di Biokovo, ma entrambe con scarso successo. Tuttavia, l’ambiziosa operazione “Albia” doveva cambiare le cose in modo significativo a favore dell’Italia. L’8 agosto il comandante della 2ª Armata italiana, generale Mario Roatta, ordina al suo subalterno generale Renzo Dalmazzo, comandante del VI Corpo, di redigere quanto prima un piano operativo, tenendo presente che “è assolutamente necessario per ripulire il quadrilatero Baška Voda – Ploče – Vrgorac dalle formazioni ribelli Zagvozd”. Con la partecipazione del XVIII e VI Corpo d’Armata, Roatta informava Dalmazzo che durante l’operazione poteva contare anche sull’aiuto dell’aeronautica e della marina. Solo sei giorni dopo, il 14 agosto, il generale Dalmazzo presentò il piano dell’operazione “Albia” e ne ordinò l’avvio nei giorni successivi. Alla divisione “Messina” (VI corpo) è stato ordinato di sgomberare l’area all’interno delle linee partigiane Vrgorac-Metković-Ploče-Zaostrog, mentre alla divisione “Bergamo” (XVIII corpo) è stato affidato il compito di distruggere i partigiani di Biokovo. L’obiettivo è che la divisione “Bergamo” avanzi a est verso la linea Kozica-Drašnica, e la divisione “Messina” a ovest verso la linea Kokorići-Zaostrog, entro il 27 agosto. Era previsto che le forze partigiane sarebbero state prese in una tenaglia nell’area all’interno di quelle linee. Quando ciò avverrà, si creeranno le condizioni per l’avvio della fase finale dell’operazione “Albia”, in cui i partigiani accerchiati saranno annientati. Per l’operazione erano previsti dodici battaglioni di fanteria e tre divisioni di artiglieria delle divisioni “Bergamo” e “Messina”, più l’aeronautica dalla base di Mostar e la marina dal canale di Lesina, le milizie rurali ustascia dell’Imotska e della Vrgorska krajina e un distaccamento della milizia volontaria anticomunista (M.V.A.C.). I cetnici di Stolac e Nevesinje avrebbero dovuto essere usati come forze ausiliarie. In tutto più di diecimila soldati. Di fronte a loro stavano circa 720 membri del battaglione partigiano “Josip Jurčević”. All’inizio dell’operazione “Albia”, l’esercito italiano opera nella parte occidentale dell’Imotski Krajina, volendo tagliare un forte cuneo che separi definitivamente i partigiani di Biokovo dalla prima brigata proletaria e da altri reparti che tentarono di sfondare dalla direzione di Livno. L’occupazione italiana di Zagvozd il 12 agosto, impedendo lo sfondamento dei partigiani e del distaccamento della Dalmazia centrale dalla direzione di Aržan e Lovreć verso Biokovo, è più avanti (17-18 agosto) cruciale in questo piano. I partigiani di Biokovo erano allora attivi nel profondo dell’Imotska Krajina, verso Runovići, Podbablje, Poljići e Krstatici. All’altra estremità del campo di battaglia, la divisione “Messina” avanza dalla direzione di Ploče verso le cime del colle Rilić, sopra Gradac, e da Vrgorac a ovest. Aspettandosi un accerchiamento, il 19 agosto i partigiani si ritirarono dalla loro base Rilić nel villaggio di Grnčenik, dove il giorno successivo entrarono gli italiani e la milizia ustascia di Dusina e Veliki Prolog. Nei giorni successivi si fa sempre più forte la pressione delle milizie italiane e ustascia sulle postazioni partigiane nell’Imotska Krajina, per cui le unità del battaglione “Josip Jurčević” si ritirano verso le pendici del Biokovo. Il 26 agosto, le unità italiane della divisione “Bergamo” sfondano la strada Rodić da Makarska a Kozica, con i partigiani che resistono sul sentiero. Allo stesso tempo, altre unità della stessa divisione attaccano da Zagvozd lungo la strada Napoleonica e, il giorno successivo, proseguono verso Turia e Župa, con l’obiettivo di collegarsi con le unità provenienti dalla direzione di Vrgorac, mentre quelle che attaccano da Makarska vanno verso Kozica. La conquista di Turia e Staza sono uno degli obiettivi più importanti di quell’attacco. Anche le unità che avanzano da Grnčenik lungo Rilić costringono i partigiani a ritirarsi dal Rilić verso Biokovo. Il generale Dalmazzo, soddisfatto della ritirata dei partigiani dai centri abitati e delle comunicazioni verso le parti alte del Biokovo, ordinò il 26 agosto l’inizio della seconda e ultima fase dell’operazione “Albia”. I reparti italiani dovranno sfondare completamente le linee previste dalla prima fase dell’operazione entro il 28 agosto, mentre il giorno successivo, 29 agosto, entreranno in azione per sgomberare i partigiani accerchiati nell’area: Vlaka – Brikva – Velika Kapela – Sokolić – Sv. Juraj. Le unità dell’Erzegovina orientale della M.V.A.C. assegnate al VI° Corpo, cioè cetnici delle regioni di Stolac e Nevesinje reclutati nelle unità ausiliarie italiane. I cetnici avranno il compito di impedire il ritiro dei partigiani verso Živogošće e con l’aiuto delle navi verso le isole. I partigiani si ritirano simultaneamente da tutte le direzioni verso la vetta più alta di San Giorgio.

Sapendo che sono circondati e che sono minacciati di distruzione, il comando del battaglione “Josip Jurčević” prende una decisione sul movimento di gran parte dell’unità dal 28 al 29 agosto ad ovest verso la vetta di Sveti Ilija, da dove scenderà da Biokovo e attraverso Grabovac romperà l’accerchiamento italiano in direzione di Studenac e Aržane e lì si collegherà con la prima brigata proletaria. Fu quindi prevista un’uscita nella direzione opposta nella qaule il comando italiano voleva condurli. Alla fine, il piano fu messo in atto e la maggior parte del battaglione uscì dalle grinfie italiane su Biokovo la notte del 29 agosto, anche se la quinta compagnia e parte dei contadini rimasero sulla montagna. A causa del pericolo del rastrellamento italiano, la compagnia si diresse verso il Biokovo orientale, divisa in più gruppi e riuscì così a sopravvivere intatta all’offensiva. Allo stesso tempo, mentre i partigiani si stavano ritirando attraverso Grabovac, in Bosnia, diverse centinaia di cetnici dall’Erzegovina orientale furono portati a Vrgorac da camion militari italiani. Il giorno successivo sono stati trasportati con i camion a Ravča, dove, a causa della strada distrutta, hanno proseguito a piedi. In quel fatidico 29 agosto 1942, unità cetniche massacrarono la popolazione della Vrgorska Krajina negli insediamenti lungo la strada napoleonica. Secondo la ricerca che ho condotto insieme al giornalista Igor Majstrović nel 2012, che ha portato a un elenco delle vittime per nome, il 29 agosto, un locale è stato ucciso nel villaggio di Majići (Zavojane), 17 nel villaggio di Dragljane, 22 a kkk Vlaka, 68 a Kozica e 37 a Rašćani. , quindi un totale di 145 per lo più uomini, ma anche anziani, donne e ragazzi. Erano tutti civili di nazionalità croata, e tra loro c’erano tre sacerdoti: il parroco di Košice, fra Ladislav Ivanković, il parroco di Rašće, don Ivan Čondić, e il parroco di Biokovska, don Joze Braenović. Quel giorno sono stati registrati numerosi feriti e stupri, centinaia di edifici familiari e commerciali sono stati dati alle fiamme e i loro residenti sopravvissuti sono stati completamente impoveriti. Fu il più grande crimine cetnico commesso in Dalmazia durante la seconda guerra mondiale, da cui l’ovest della Vrgorska Krajina non si riprese mai del tutto. Nei loro rapporti, le unità cetniche hanno confermato le loro attività nella Vrgorska Krajina. Nel rapporto del Comando delle Unità Operative della Bosnia-Erzegovina Orientale del 6 settembre 1942, sulle operazioni cetniche, si dice: “Pochi giorni fa, 5 battaglioni dei nostri cetnici sono partiti da Stolac via Ljubuški e Imotski e sono partiti da Stolac via Ljubuški e Imotski e scoppiò vicino a Makarska sul mare Adriatico. Questo movimento è stato completato in meno di 17 ore. Questa spedizione punitiva incendiò e distrusse completamente 17 villaggi ustascia”. In un rapporto del 5 settembre 1942, il maggiore Petar Baćović dice nel suo rapporto al duca Draža Mihajlović: “… Aggiungo successivamente, in relazione alla partenza della nostra spedizione punitiva a Ljubuški e Imotski, che i nostri cetnici … tra Ljubinje (Ljubuški, op. a.) e Vrgorac scuoiarono tre preti cattolici. I nostri cetnici hanno ucciso tutti gli uomini dai 15 anni in su. Donne e bambini di età inferiore ai 15 anni non sono stati uccisi. 17 villaggi sono stati completamente bruciati”. In risposta a questo rapporto, il quartier generale di Draža Mihajlović ha inviato la seguente risposta per telegramma: “No. 424 per Ištvan: sono soddisfatto del tuo rapporto sull’irruzione in mare. Usa questa azione per creare un canale sicuro per il collegamento con la Divisione Dinarica. Dovremmo posizionare i nostri distaccamenti su questo canale, e accanto a loro, distaccamenti croati, guidati da ufficiali croati che avevano precedentemente favorito il duca”. Dopo la guerra, Draža Mihajlović è stata processata, tra l’altro, per i crimini nell’operazione “Albia”, di cui hanno testimoniato anche tre residenti di Vrgor al processo di Belgrado. I comandanti italiani riuscirono a evitare un processo postbellico, e loro – Roatta e Dalmazzo – dichiararono l’operazione Albia un grande successo all’inizio di settembre 1942, citando dati falsi di 942 e 1008 partigiani martiri e ingenti materiali bellici confiscati. L’operazione “Albia” fu un fallimento italiano, anche se i partigiani riuscirono a uscire dal calderone che era stato preparato per loro, ma a seguito del massacro cetnico si verificarono numerose vittime civili. Oltre al fatto che “Albia” è stato il più grande crimine cetnico in Dalmazia, è stata anche la più grande vittima del popolo Vrgor nella seconda guerra mondiale. Questi sono fatti che fino ad ora non erano sufficientemente conosciuti al di fuori di Vrgorac, e che la gente di Vrgorac vuole finalmente cambiare attraverso le ricerche storiche condotte negli ultimi anni e quelle pianificate per il futuro.

Autore: Branko Radonić

Vjesnik.org/hr/kalenda
Novosti sa zaštitom spomenika žrtvama fašizma u Dragljanima


Il massacro di Zabiokovlje

Zabiokovlje è l’area alle spalle del monte Biokovo.
Quella che segue è la traduzione automatica, salvo alcune correzioni per palesi improprietà, dell’articolo:
“Kolovoza 1942. Vrgorac – zašto se u Jugoslaviji nije spominjao najveći četnički zločin nad Hrvatima u Dalmaciji?”

(https://narod.hr/kultura/29-kolovoza-1942-vrgorac-zasto-se-u-jugoslaviji-nije-spominjao-najveci-cetnicki-zlocin-nad-hrvatima-u-dalmaciji)

29 agosto 1942. Vrgorac – perché il più grande crimine cetnico contro i croati in Dalmazia non è menzionato in Jugoslavia?

Chiese, case e fienili sono stati bruciati e, oltre alle donne incinte e agli anziani, sono stati uccisi anche tre sacerdoti: fra Ladislav Ivanković (parroco di Košice), don Ivan Čondić (parroco di Rašća) e don Josip Braenović (parroco della parrocchia di Biokovska) ). Questo è stato certamente il giorno più sanguinoso della storia recente di Vrgorac, ma anche uno dei crimini cetnici più brutali durante la seconda guerra mondiale, che i parenti delle vittime ricordano con particolare tristezza. Il crimine è stato commesso dai cetnici in collaborazione con gli italiani, e le autorità comuniste hanno taciuto sul crimine o addirittura lo hanno attribuito agli ustascia.
È stato uno dei giorni più sanguinosi della storia di Vrgorac, che i parenti delle vittime ricordano ogni anno alla commemorazione con particolare tristezza e dolore. Non c’è casa da Dubrava a Rašćan che quel giorno non fosse avvolta di nero. Per molto tempo, questo terribile crimine è stato taciuto durante il periodo dell’ex stato.
“A nessuno è stato permesso di dire che questo crimine è stato commesso dai cetnici, hanno anche cercato di distorcere la storia sottolineando che è stato fatto dagli ustascia” – ha detto alla commemorazione delle vittime di Vrgorak nel 2013, il parroco di Kozice, Fr. Marko Bitanga.
Durante la campagna cetnica del 29 agosto 1942, durante le azioni finali nell’ambito dell’operazione italiana Albia contro i partigiani di Biokovo, nei villaggi della regione di Vrgorac fu compiuto un grande massacro di civili croati.
A quel tempo, 141 civili furono uccisi nei villaggi di Rašćane, Kozica, Dragljane e Župa, tra cui tre sacerdoti cattolici: Fra Ladislav Ivanković di Kozic, Don Ivan Čondić di Rašća e Don Josip Braeonović della parrocchia.
Secondo testimoni sopravvissuti, il crimine è stato commesso da unità cetniche al comando del maggiore Petar Bačević, subordinato al quartier generale cetnico del famigerato duca cetnico Draža Mihajlović, e che gli italiani hanno portato a Dubrava con 33 camion.
Riferendo sui crimini, il maggiore cetnico Bačević ha scritto a Draža Mihajlović che i cetnici della sua “spedizione punitiva” tra Ljubuški e Vrgovec “hanno scuoiato vivi tre sacerdoti cattolici” e che “hanno ucciso tutti gli uomini dai 15 anni in su”. “Sono tornato da un viaggio in Erzegovina. Quattro dei nostri battaglioni, circa 900 uomini, hanno marciato attraverso Ljubuški, Imotski e Podgora e sono scoppiati vicino a Makarska verso il mare. Diciassette villaggi furono bruciati, 900 ustascia furono uccisi, diversi sacerdoti cattolici furono scorticati vivi. Per la prima volta dopo il crollo, hanno gettato in mare la bandiera serba e hanno applaudito il re e Draža. Le nostre perdite sono minime”, ha scritto il maggiore cetnico nel suo rapporto. Dobroslav Ravlić, da bambino, ha assistito al massacro dei cetnici: “Mio padre mi teneva tra le braccia, i cetnici prima lo spogliarono e gli chiesero se voleva ucciderlo a modo suo, e poi uno di loro quando mi vide gridò: lascialo andare! Hanno avuto pietà di lui a causa mia, probabilmente. Il maggiore Petar Bačević era al comando dell’operazione ed era in contatto diretto con Dražo Mihailović, e in quel momento 397 case e stalle, circa l’85% degli edifici, furono date alle fiamme a Kozica. Ma la propaganda jugoslava diffuse la notizia che ciò era stato fatto dagli Ustaše e che tra loro c’erano gli Ustaše di Dusina, un villaggio a Vrgora. Quel mito è vissuto a lungo e solo negli anni ’90 si è iniziato a parlare apertamente del fatto che i cetnici lo avessero fatto”, ha sottolineato Ravlić. E in risposta alla domanda sul perché questo terribile crimine contro i croati della Dalmazia sia stato taciuto o addirittura voluto attribuire ai croati (Ustasha), non è necessario speculare. In realtà, la Jugoslavia era una creazione della Grande Serbia, e si supponeva che i principali criminali e portatori di quello stigma fossero i croati. Ecco perché dalla stessa fonte è stata diffusa la notizia dei 700.000 serbi uccisi a Jasenovac e del massacro dei croati a Vrgorac. Sebbene le vittime fossero croate, anche allora i colpevoli avrebbero dovuto essere croati. Non è simile oggi?

Disinformazione

La disinformazione non ha confini né di spazio, né di modo, né di tempo e questo ne è una conferma, per quanto giunta in un’occasione inattesa e sorprendente, a margine di altri approfondimenti.
Ci sarebbe da scriverne all’infinito, anche per evidenti analogie con fatti italiani del passato e del presente.
Limitandoci al contesto balcanico ex jugoslavo, riporto solo qui sotto un articolo relativo allo stesso argomento, ma scritto da un punto di vista diverso.
Una precisazione circa la località citata di Jasenovac.
Jasenovak  fu il terzo campo di concentramento per dimensioni, dopo Auschwitz e Buchenwald, di tutta la seconda guerra mondiale, dove  avvenne la maggior parte dei massacri operati dagli Ustasha contro le popolazioni non croate o non-cattoliche dello Stato Indipendente di Croazia. I cappellani militari davano regolarmente l’assoluzione anticipata e una benedizione speciale alle truppe ustasha per i massacri che avrebbero compiuto degli “infedeli” serbo-ortodossi.
A proposito di disinformazione, appunto: non è che se ne sappia molto, dalle nostre parti, di questo campo di concentramento gestito da uno stato nostro alleato e autorizzato, a quanto risulta, dal Vaticano.

(www.balcanicaucaso.org)
(www.carnialibera1944.it)

Un articolo pubblicato sul più letto quotidiano croato ha sminuito le atrocità commesse nel campo di concentramento di Jasenovac, nel tentativo di riabilitare il regime ustascia della Seconda guerra mondiale e negare la sua complicità nell’Olocausto. Un commento.
03/09/2018 –  Menachem Rosensaft – (Articolo pubblicato originariamente da Balkan Insight il 27 agosto 2018)

Ci sono realtà terribili della storia che non devono essere messe in discussione, distorte o negate da nessuno che abbia un minimo di integrità morale o senso di decenza.
Rientra in questa categoria il massacro di milioni di ebrei nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Majdanek, Belzec, Chelmno e Sobibor durante l’Olocausto della Seconda guerra mondiale.
Questo vale anche in quanto la Germania nazista ha perpetrato questo crimine ultimo contro l’umanità insieme ai suoi complici internazionali fascisti.
Jasenovac è stato tra il 1941 e il 1945 il più grande campo di concentramento in ex Jugoslavia. Una pagina nera della storia del XX secolo tutt’oggi oggetto di controversie.
Qualsiasi tentativo di negare, banalizzare o minimizzare la gravità di questo genocidio, o di assolvere in qualunque modo i suoi esecutori, è, in poche parole, moralmente osceno.
Per questo motivo negare l’Olocausto è un reato in Germania, Francia, Russia, Italia, Austria, Romania, e in molti altri paesi.
Papa Francesco ha denunciato la negazione dell’Olocausto come “follia” e il suo predecessore, Papa Benedetto XVI, l’ha definita “intollerabile”.
È anche molto importante tenere a mente che i tedeschi non sono stati gli unici a uccidere in massa ebrei, rom e altri, durante l’Olocausto. Nella regione corrispondente all’attuale Transnistria, all’epoca parte della Romania, la Guardia di Ferro di Ion Antonescu, alleata di Hitler, partecipò appassionatamente al massacro di circa 150.000-250.000 ebrei. Mentre nello stato indipendente della Croazia fascista degli ustascia, guidato Ante Pavelić, venivano commessi brutali genocidi contro serbi, ebrei e rom.
Secondo il Museo del Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti, le autorità croate hanno ucciso tra i 320.000 e i 340.000 serbi residenti in Croazia e Bosnia durante il regime degli ustascia e più di 30.000 ebrei croati, questi ultimi uccisi in Croazia o ad Auschwitz-Birkenau.
Per portare a termine il genocidio gli ustascia crearono una rete di campi di concentramento locali, infami per brutalità e paragonabili alla barbarie dei campi di sterminio e di concentramento tedeschi.
Il più tristemente noto era formato da cinque campi, insieme denominati Jasenovac, vicino a Zagabria, nonché spesso chiamati “Auschwitz dei Balcani”.
Di nuovo, secondo il Museo del Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti, in questi campi gli ustascia hanno brutalmente ucciso tra le 77.000 e le 104.000 persone, serbi, ebrei, rom e croati oppositori del regime. Il complesso del Memoriale di Jasenovac ha identificato 83.145 serbi, ebrei, rom e antifascisti uccisi in quei campi.
Per anni, elementi estremisti in Croazia hanno cercato di assolvere gli ustascia e minimizzare le atrocità perpetrate a Jasenovac.
L’esempio più recente di questa tendenza è il commento di Milan Ivkosić, “Jasenovac ripulito dall’ideologia, dai pregiudizi e dalle falsità comuniste”, pubblicato il 17 agosto sul quotidiano croato Večernji list, il più letto nel paese.
Ivkosić scrive con convinzione e apparentemente senza vergogna in riferimento al libro di Igor Vukić ‘Il campo di lavoro di Jasenovac’, che, secondo Ivkosić “è in opposizione al mito decennale di Jansenovac”.
Pur riconoscendo che le condizioni nel campo erano dure, Ivkosić dichiara, grottescamente, che “c’era divertimento all’interno del campo. C’erano incontri sportivi, in particolare calcio, concerti, performance teatrali, alcune create dai detenuti stessi”.
Divertimento? A Jasenovac? Il tentativo di Ivkosić di ripulire quel luogo e gli ustascia dalla loro essenza malvagia è riprovevole. Lo stesso vale per il suo sprezzante riferimento a un “mito di Jasenovac”.
La brutale uccisione di decine di migliaia di esseri umani in quel campo non è un mito, signor Ivkosić.
“Jasenovac era un inaudito campo di sterminio, non ne esisteva un altro simile nel mondo,” ha affermato l’ ex prigioniero Milo Despot, in un’intervista di storia orale, fatta e conservata al Museo del Memoriale dell’Olocausto degli Stati Uniti.
“I tedeschi si sbarazzavano dei detenuti in modo rapido, mentre a Jasenovac l’uccisione era più crudele – con mazze, martelli e coltelli, meno con i proiettili,” ha raccontato Milo.
“Non c’erano camere a gas, ma non mancavano altre barbarie. Molti prigionieri finivano con la gola tagliata o con il cranio sfondato; altri venivano fucilati o impiccati agli alberi lungo la Sava”, ha scritto nel 2006, il reporter Nicholas Wood del New York Times, parlando di Jasenovac.
Mi chiedo se Ivkosić consideri uno dei precedenti quattro esempi di comportamento degli ustascia a Jasenovac come “divertente” per i detenuti: nel suo racconto orale, Milo Despot ha raccontato di aver assistito all’uccisione di più di cento ragazze serbe su di una chiatta, eseguita da un’unità di ustascia, che, prima di ucciderle le hanno fatte spogliare. Poi hanno tagliato loro la gola e le hanno gettate nel fiume.
In un’altra intervista, Mara Vejnović, altra testimone, ha dichiarato di aver visto gli ustascia uccidere un gruppo di bambini con gas tossici, in una caserma di Jasenovac.
Eduard Sajer era stato incaricato di scavare una fossa comune in uno dei campi di Jasenovac. Raccontò come le guardie ustascia uccidevano i detenuti, colpendoli alla testa con delle mazze; anche il fratello più giovane di Eduard è stato ucciso in questo modo. Eduard spiegò che lui e gli altri ragazzi che scavavano hanno dovuto poi trascinare i corpi nella fossa. L’unica cosa che Eduard ha potuto fare per il fratello è stato prenderlo tra le sue braccia e metterlo delicatamente a riposare per sempre.
Egon Berger, nelle sue memorie, “44 mesi a Jasenovac”, ha descritto così il frate francescano croato Tomislav Filipović Majstorović, conosciuto anche come Fra Sotona (“fratello di Satana”), il famigerato comandante di Jasenovac: “Frate Majstorović, con il volto completamente truccato, vestito elegantemente e con un cappello verde da caccia, guardava con piacere le sue vittime. Si avvicinava ai bambini, anche accarezzando loro la testa. Era accompagnato da Ljubo Milos e Ivica Matković.
“Frate Majstorović disse alle madri che i loro bambini sarebbero stati battezzati e li prese. Il bambino che frate Majstorović teneva in braccio toccò innocentemente il falso viso del suo assassino. Le madri, sconvolte, capirono la situazione. Offrirono le loro vite in cambio della misericordia per i bambini. Due bambini vennero messi a terra, mentre il terzo venne lanciato in aria come un pallone. Frate Majstorović, con un pugnale rivolto verso l’alto, lo mancò per tre volte, ma alla quarta, tra una battuta e una risata, il bambino venne trafitto dal pugnale. Le madri si gettarono a terra, tirandosi i capelli e gridando terribilmente. Le guardie ustascia della 14esima divisione le portarono via e le uccisero. Dopo che anche i bambini furono brutalmente uccisi, le tre bestie si scambiarono del denaro, a quanto pare c’era una scommessa in atto, avrebbe vinto chi per primo avesse conficcato un pugnale in un bambino.”
Distorcendo la terribile realtà di Jasenovac, Ivkosić ha profanato la memoria di migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini innocenti che sono stati assassinati in quel luogo.
Večernji list, pubblicando questa vergognosa rubrica di Ivkosić, si è fatto complice dell’inammissibile campagna volta all’assoluzione degli ustascia e dei loro crimini. Ora, sia Ivkosić che Večernji list, dovranno essere chiamati a rispondere.

Jasenovac, Croazia, 1942: i nostri… benedetti alleati.

Le immagini di questa sezione sono tratte da: www.carnialibera1944.it

BIBLIOGRAFIA PER L’OCCUPAZIONE DELLA BALCANIA

LIBRI, SAGGI E ARTICOLI
Davide Conti – L’OCCUPAZIONE ITALIANA DEI BALCANI. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943) – Odradek 2008

Gianni Oliva – SI AMMAZZA TROPPO POCO – Mondadori 2006
Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti – UNA GUERRA A PARTE. I MILITARI ITALIANI NEI BALCANI 1940-1945 – Il Mulino, 2011
Alexis Mehtidis – ITALIAN GROUND FORCES ORDERS OF BATTLE AND STRENGTHS IN THE INVASION OF GREECE, AUGUST 1939-APRIL 1941 PART D ARMIES
Alexis Mehtidis – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part Ix 2nd Army-Slovenia-Croatia-Bosnia.Herzegovina
Alexis Mehtidis – Italian Army 8 September 1943-Regio Esercito 8 Settembre 1943 Part XI VI Corps-Croatia
Alberto Becherelli – L’OCCUPAZIONE ITALIANA DI DUBROVNIK (1941-1943) – Annali, Museo Storico Italiano della Guerra n. 28/2020   
Federica Saini Fasanotti e Basilio Di Martino (a cura di) – L’ESERCITO ALLA MACCHIA. CONTROGUERRIGLIA ITALIANA 1860-1943 – USSMD
Salvatore Loi – LE OPERAZIONI DELLE UNITÀ ITALIANE IN JUGOSLAVIA (1941-1943). NARRAZIONE DCUMENTI – USSME 1978  

Altre fonti / Per saperne di più

CRONOLOGIA DELL’OPERAZIONE ALBIA

Luglio/Agosto 1942
Unità partigiane di Bosnia ed Erzegovina sono presenti nell’area di Livno – Tomislavgrad – Kupres – Bugojno.
Pericolo di collegamento con unità partigiane di Krajina bosniaca, Erzegovina, Dalmazia e di altre aree Croazia.
Battaglione partigiano “Josip Jurčević” ha 720 uomini e controlla area da Cetina alla Neretva, con eccezioni locali.
Basi partigiane in villaggi e frazioni inaccessibili di Biokovo e Rilić, in stalle abbandonate, rifugi di fortuna a Biokovo.  
6 agosto 
Il comandante della 2ª Armata italiana, generale Mario Roatta, ordina al suo subalterno generale Renzo Dalmazzo, comandante del VI Corpo, di redigere quanto prima un piano operativo, tenendo presente che “è assolutamente necessario per ripulire il quadrilatero Baška Voda – Ploče – Vrgorac dalle formazioni ribelli Zagvozd”.
Inizia nella massima segretezza la pianificazione per un attacco alla zona della Dalmazia meridionale, che prevede la partecipazione del XVIII e del VI corpo d’armata.
Il piano di attacco, denominato “Albia”, è del generale di corpo d’armata generale Renzo Dalmazzo.
L’a
rea operativa è delimitata dai fiumi Cetina (a ovest) e Neretva (a est), a sud dal bordo costiero tra questi due fiumi e a nord da linea Cista Provo – Studenci – Imotski – Bijača (vicino a Ljubuški) – Novi Selo – Vida – Metković.
L’’operazione può contare anche sull’aiuto dell’aeronautica e della marina.
11 agosto
Schieramento della divisione “Bergamo” nella zona di Cista Provo e Lovreć per separare la brigata da Biokovo.
L’attacco italiano inizia già l’11 agosto 1942, quando il 2° battaglione del 26° reggimento di fanteria della divisione “Bergamo”, insieme ad una compagnia di carri armati, rastrella la zona tra Šestanovac e Grabovac, proseguendo con i carri verso Zagvozd, che i partigiani avevano occupato il 9 agosto.
Parti del battaglione “Josip Jurčević” li fermano nel villaggio di Svaguše.
12 agosto
Dopo ripetuti attacchi, gli italiani penetrano verso Zagvozd e i partigiani si ritirarano nella zona di Vlaka.
Il 59° battaglione camicie nere (Div. “Bergamo”), a Lovreć trova resistenza da reparti diversi di partigiani.
L’occupazione italiana di Zagvozd è cruciale e impedisce lo sfondamento dei partigiani del distaccamento della Dalmazia centrale da di Aržan-Lovreć verso Biokovo, attivi nel profondo dell’Imotska Krajina, verso Runovići, Podbablje, Poljići e Krstatici.
14 agosto
Gli italiani fanno solo attività di ricognizione verso Imotski, bruciando case e trattenendo persone.
Il generale Dalmazzo presenta il piano dell’operazione “Albia” e ne ordina l’avvio nei giorni successivi.
Alla “Messina” tocca di sgomberare l’area all’interno delle linee partigiane Vrgorac-Metković-Ploče-Zaostrog.
Alla divisione “Bergamo” è affidato il compito di distruggere i partigiani di Biokovo.
L’obiettivo è che, entro il 27 agosto, la divisione “Bergamo”avanzi a est verso la linea Kozica-Drašnica, e la divisione “Messina” a ovest verso la linea Kokorići-Zaostrog.
In particolare, dal 16 al 27 agosto 1942 la divisione “Bergamo” dovrebbe ripulire l’area del monte Biokovo e la divisione “Messina” ripulire il quadrilatero Vrgorac – Metković – Ploče – Zaostrog.
Entro il 27 agosto, quelle unità avrebbero dovuto raggiungere la linea Kozica (villaggio Rodić) – Biluša – (2 km a est di Drašnice) – sv. Stjepan (a sud-est di Drašnice), e da sud-est il villaggio di Kokorići – Grlica – Zaostrog.
In seguito, il battaglione “Josip Jurčević” va circondato e distrutto nella zona di Brikva – V. Kapela – Sokolić.
Le unità navali italiane dovrebbero impedire il trasferimento dei partigiani alle isole di Hvar o Brač.
15 agosto 1942
Prima dell’inizio dell’operazione, il comando della “Bergamo” invia parte delle sue forze nella zona di Cista Provo e Lovreć per impedire la penetrazione di reparti partigiani a sud, verso Zadvarje e Zagvozd.
L’artiglieria colpisce posizioni sul Biokovo, (Oštri Vrh , Proždorac , Sv. Jure).
L’aviazione italiana bombarda le frazioni di Katavići e Pivčevići sopra il villaggio di Zavojane.
16 agosto
Si schierano i reparti della divisione “Messina” a sud-est (Vrgorac – Metković – Ploče – Zaostrog) per impedire la fuga dei partigiani verso Dubrovnik, mentre la fuga verso le isole è impedita dalla marina.
La popolazione di molti villaggi fugge sulle montagne e si unisce ai partigiani.
A causa dei forti combattimenti nella zona di Lovreć – Studenci, parti della divisione “Bergamo” non riescono ad effettuare l’attacco pianificato con tutte le forze sulla parte nord-occidentale del Biokovo.
L’avanzata italiana verso Župa è impedito dalla forte resistenza di parti del battaglione “Josip Jurčević”.
Parti della divisione “Messina” e dei cetnici iniziano a “ripulire” il quadrilatero Vrgorac – Metković – Ploče – Zaostrog.
17 agosto
La situazione a nord di Biokovo si fa difficile per le truppe italiane.
18 agosto
Per tale motivo il 18 agosto sono immesse nuove forze in direzione Šestanovac – Lovreć.
Dopo una forte lotta, i partigiani si ritirano verso nord.
All’altra estremità del campo di battaglia, la “Messina” avanza dalla direzione di Ploče verso le cime del Rilić, sopra Gradac (Grado o interno?), e da Vrgorac a ovest.
19 agosto
Aspettandosi un accerchiamento, i partigiani si ritirano dal Rilić (villaggio di Grnčenik) dove il giorno successivo entrano gli italiani e la milizia ustascia di Dusina e Veliki Prolog.
20 agosto
Dopo piccoli combattimenti con la 3a compagnia del battaglione “Josip Jurčević”, parti della divisione “Messina” sono entrate nei villaggi di Pasičina e Trnova.
una compagnia del battaglione “Josip Jurčević” ha attaccato i cetnici vicino al villaggio di Staševica. Quel giorno (20 agosto) l’aviazione italiana ha bombardato i villaggi di Gradac, Turjak e Malovan.
21 agosto
Nei giorni successivi si fa sempre più forte la pressione delle milizie italiane e ustascia sulle postazioni partigiane nell’Imotska Krajina, per cui le unità del battaglione “Josip Jurčević” si ritirano verso le pendici del Biokovo.
26 agosto
Unità della “Bergamo” sfondano la strada Rodić, da Makarska a Kozica, ma i partigiani resistono sul vicino sentiero.
Allo stesso tempo, altre unità della stessa divisione attaccano da Zagvozd lungo la strada napoleonica.
26 agosto
Il generale Dalmazzo, soddisfatto della ritirata dei partigiani dai centri abitati e delle vie di comunicazione verso le parti alte del Biokovo, ordina l’inizio della seconda, cioè dell’ultima, fase dell’operazione “Albia”.
Le forze italiane raggiungono le posizioni previste.
Poi il 25° reggimento fanteria “Bergamo” va verso la direttrice Makarska – Tučepi – Podgora – Drašnice – Igrane, rezione Tučepi – Kozica, mentre il 26° reggimento “Bergamo” va in direzione di Zagvozd – Lovrinčevići – Turija – Župa – Rašćane – Kozica.
Le forze italiane ricevono l’ordine per la fase finale dell’operazione.
I reparti della divisione “Messina” e i cetnici devono sgomberare la zona di Vlak – Brikva – Kljenak.
I reparti della divisione “Bergamo” devono avanzare in direzione di Lovrinčevići – Kozica, cioè Tučepi – Kozica, per impedire il ritiro dei partigiani a nord o lungo la costa o verso le isole.
Con il supporto dell’artiglieria e dell’aeronautica, gli italiani cercano di dominare i passi di Turija e Staz (sulla strada Tučepi – Kozica), ma non riescono ad allontanare la 3a compagnia del Battaglione “Josip Jurčević”.
27 agosto
Le truppe italiane proseguono verso il passo Turia e Župa, con l’obiettivo di collegarsi con le unità provenienti da Vrgorac, mentre quelle che attaccano da Makarska vanno verso Kozica.
La conquista di Turia e Staza sono gli obiettivi più importanti dell’attacco.
Anche le unità che avanzano da Grnčenik verso il Rilić costringono i partigiani a ritirarsi da Rilić verso Biokovo.
I partigiani stanno arretrando verso la cima di Sveti Jure per assicurarsi la ritirata verso la Bosnia.
I reparti italiani hanno l’ordine di sfondare le linee previste dalla prima fase dell’operazione entro il 28 agosto.
Il 29 agosto, entreranno in azione per sgomberare i partigiani accerchiati nell’area: Vlaka – Brikva – Velika Kapela – Sokolić – Sv. Juraj.
Le unità dell’Erzegovina orientale della M.V.A.C. e i cetnici avranno il compito di impedire il ritiro dei partigiani verso Živogošće.
I partigiani si ritirano simultaneamente da tutte le direzioni verso la cima di San Giorgio (Sv. Juraj).
Le forze italiane attaccano ferocemente in entrambe le direzioni.
Alla Compagnia della Gioventù partigiana fu ordinato di ritirarsi verso la vetta di Sveti Jure per difenderne gli accessi e garantire un collegamento in caso di ritirata verso la Bosnia.
Gli italiani prendono il controllo del passo Turi e la comunicazione tra Zagvozd – Župa – Rašćane – Kozica.
28 agosto
Sapendo che i partigiani sono circondati e che sono minacciati di distruzione, il comando del battaglione “Josip Jurčević” decide di avviare i suoi uomini verso ovest, alla vetta di Sveti Ilija, da dove scendere dal Biokovo e, attraverso Grabovac, rompere l’accerchiamento italiano in direzione di Studenac e Aržane, per collegarsi con altri reparti.
I partigiani escono quindi dalla direzione opposta rispetto a quella verso la quale il comando italiano vuole spingerli.
29 agosto
La notte, il piano è messo in atto e la maggior parte del battaglione esce dall’accerchiamento italiano sul Biokovo, anche se la quinta compagnia e parte dei contadini rimangono nascosti sulla montagna.
Un gruppo di 650 partigiani riesce a infiltrarsi nelle assottigliate postazioni italiane vicino al villaggio di Grabovac e a fuggire verso Aržan.
La terza compagnia “Vid Mihaljević” non è riuscita a fuggire con il corpo principale, si è divisa in gruppi più piccoli che hanno sfondato nella parte orientale del Biokovo.
Anche il quartier generale del battaglione lascia il Biokovo.
20 partigiani rimangono sul monte con l’obiettivo di mobilitare nuovi combattenti e formare nuove unità.
Mentre i partigiani si ritirano attraverso Grabovac diverse centinaia di cetnici dall’Erzegovina orientale sono condotti, su camion militari italiani, a Vrgorac e poi a Ravča, da dove, a causa della strada distrutta, hanno proseguito a piedi.
Unità cetniche massacrano la popolazione della Vrgorska Krajina nei villaggi lungo la strada napoleonica.

Questa sintesi cronologica si basa sulle  fonti indicate sotto (comprese quelle di cui è riportata la traduzione) e, a parte qualche (leggera) differenza di date o di alcune (più accentuate) manifestazioni di enfasi, sono sostanzialmente coincidenti. Anche il racconto del papà, quello del tenente Quaglino (che però, nel frangente, non entra nei particolari, diversamente dalla descrizione di altre azioni) e del bersagliere Scalone presentano una totale univocità di datazione e di descrizione degli eventi.

Colonna autotrasportata italiana nei dintorni di Gradac - www.wikiwand.com/sh/Operacija_Albia#Media
https://www.wikiwand.com/sh/Operacija_Albia#Media
Il dettaglio delle località citate nei diari e nei riferimenti, nell'ambito dell'Operazione Albia.
In un ingrandimento della mappa schematica già riportata sopra, è colorata in verde la zona coperta dal battaglione di Dante nel corso dell'Operazione one Albia.


La strage agli occhi di Scalone.

Il giorno 18 agosto partimmo da Fort’Opus e andammo un’altra volta Vrgorac. Lo spostamento fu effettuato a piedi, per per la durata di tre giorni, durante i quali mi ammalai. Tornai al mio posto il 22 agosto, in coincidenza della partenza che questa volta era diretta ad una catena di monti caratterizzata da impervi boschi, balzi e distese di rocce. Il primo giorno raggiungemmo un’altra cima e proprio in cima a quella quota ci fermammo.

Qualcuno della mia squadra aveva catturato una pecora, io l’ho macellata e, dopo aver trovato una grossa pentola in un casolare abbandonato, ne facemmo un bollito, ma senza sale. Non era molto gustosa, ma la mangiamo lo stesso.

L’indomani mattina andammo ancora da una cima all’altra, fino a raggiungere un bosco fitto, molto roccioso. Si andava avanti con cautela, la zona era stata da molto tempo dominata dai ribelli e alcune spie ci dissero che nel paese dove era diretta la nostra missione si trovava un comando partigiano.

[….]

I partigiani sfuggiti alla nostra puntata si scontrarono con un’altra formazione mista di italiani e cetnici dalla parte opposta alla nostra. Lo scontro tra partigiani e cetnici fu violento. Reparti italiani intervennero per dare manforte ai cetnici e i partigiani, vista l’impossibilità di farsi un varco in quel settore, si sganciarono e nella nottata si dileguarono attraverso i boschi, lasciando sul terreno molti morti.

[….]

I cetnici, che operavano davanti, a noi si addentrarono lungo la vallata, dove c’erano cinque piccoli paesetti, i cui abitanti furono soggetti a sevizie, stupri e uccisioni, mentre le case venivano saccheggiate e bruciate. Alla fine del rastrellamento, i cetnici si portarono via il bottino razziato. Quando arrivammo noi, potemmo solo constatare il solito macabro scenario di morti sparsi qua e là, nelle case, nelle strade e nei campi. I cetnici, dove avevano trovato gente, l’avevano abbattuta al suolo, senza pietà. Provai ancora più compassione quando, ad un crocevia di campagna, vidi due preti cattolici, distesi per terra, massacrati con in mano ancora le loro carte d’identità.

Una bella vista del massiccio del Biokovo, teatro principale dell'Operazione Albia. In basso a destra, dopo la frattura all'altezza di Podgora, si vede l'inizio del massiccio del Rilic, sul quale operò prevalentemente Dante nel corso dell'Operazione Albia.

Un sergente dei bersaglieri in un’operazione di corpo d’armata: sintesi degli spostamenti di Dante nell’ambito dell’Operazione Albia.

02-ago – A Metkovic – Viaggio e ritorno a Hutovo
06-ago – Da Metkovic a postazione, 30 km
12-ago – Da postazione precedente a nuova, dopo 14 quote raggiunte
13-ago – Da postazione precedente a nuova, verso Podgora,  15 km
13-ago – Postazione precedente e congiungimento con XXIX btg.
13-ago – Da postazione precedente a Metkovic, 30 km
14-ago – Metkovic – Sosta
15-ago – Metkovic – Muore Ansaldi
16-ago – Da Metkovic a postazione, 18 km
17-ago – Da postazione precedente a Crveni Grm, 16 km
18-ago – Crveni Grm – Sosta, pulizia armi
19-ago – Da Crveni Grm a paesetto, 6 km, sotto quota 1070
20-ago – Da paesetto a postazione quota 1200, 15 km
21-ago – Da postazione precedente a nuova postazione
22-ago – Da postazione precedente a nuova postazione
23-ago – Da postazione precedente a nuova postazione, con cetnici, 15 km
24-ago – In nuova postazione – Sosta
27-ago – Da postazione precedente – A luogo non specificato, quote segnate
28-ago – In nuova postazione – Sosta
29-ago – Da postazione precedente a paese strage, in serata
30-ago – Da paese prima strage a paese seconda strage, 7 km
31-ago – Da paese seconda strage a quota 1200, fronte mare
06-set – Da quota 1200 rientro Metkovic, 5 giorni di cammino a tappe
02-set – Da Metkovic a Grado.

Difficile dare un nome a ciascuno dei due paesi indicati da Dante come luogo delle due stragi, in quanto i massacri ebbero luogo in diversi vaillaggi lungo la strada Napolenica. Un civile fu ucciso a Majići, 17 furono uccisi a Dragljane, 22 a Vlaka, 68 a Kozica e 37 a Rašćani. Erano tutti civili di nazionalità croata, compresi tre sacerdoti cattolici.

"A un croato han tagliato il collo... - (wikimedia.commons.org)


Le operazioni del XXVI battaglione nel 1942 raccontate dal tenente Quaglino

Mentre il XXXI battaglione è di presidio a Varcar-Vacuf in attesa del disgelo e della primavera 1942, torniamo a Ragusa ove, coi nostri appunti, ci eravamo fermati all’ottobre 1941.

Dunque, il 4° Bersaglieri ha ora alle sue dipendenze solo più due battaglioni: il XXVI al comando del maggiore Verdi ed il XXIX comandato dal maggiore Bizzarri, oltre naturalmente alla compagnia comando reggimentale ed alla compagnia motociclisti. Però ben presto anche il XXIX battaglione deve lasciare il reggimento per trasferirsi a Konjic, un paese lungo la ferrovia Metkovic-Serajevo, ove particolari compiti di difesa l’attendono.

[…]

Seguiamo invece i fatti e gli avvenimenti cui andranno incontro gli altri reparti del reggimento, ed in modo particolare quelli del XXVI battaglione e della compagnia comando reggimentale. Ne parleremo ora congiuntamente poiché, eccetto che negli ultimi mesi prima dell’armistizio, questi due reparti, unitamente al comando di reggimento, opereranno sempre insieme.

A Ragusa il comando di reggimento si è installato in una villetta alla periferia della città, sulla strada che porta a Castelnuovo di Cattaro, mentre il XXVI battaglione, parte accantonato e parte attendato, è dislocato nella parte opposta della zona, ad eccezione della 3a compagnia, che, al comando del tenente Arduino, è distaccata a Hum, piccolo nodo ferroviario a 6 km da Ragusa e quindi già nell’interno, rispetto alla costa.

I reparti del 4° Bersaglieri sono ora alle dipendenze della divisione “Marche” (generale Amico), e vengono immediatamente impiegati nelle previste operazioni belliche, atte a fronteggiare la persistente aggressività dei partigiani, sia isolatamente che con altre unità della divisione stessa.

Intanto ai primi di dicembre il colonnello Moricca lascia il comando del reggimento, che viene assunto dal colonnello Nicola Straziota, giunto celermente a Ragusa da Venezia addirittura in… sommergibile! Col nuovo colonnello si riprendono tutte le azioni militari già stabilite in precedenza. Tuttavia, il comando della divisione “Marche” ritiene ad un dato momento di effettuare un’azione di rastrellamento di più ampia portata nella zona circostante, allo scopo di snidare ed annientare le formazioni partigiane che stanno diventando sempre più pericolose per i nostri presidi e sempre più cagione di troppe perdite fra i nostri soldati.

[…]

Le operazioni militari durano parecchi giorni ed impegnano duramente i bersaglieri ed i reparti di accompagnamento, particolarmente nella zona di Trebinje e Bileca. Il comportamento dei bersaglieri è ammirevole, tanto è vero che il comandante della “Marche”, in un suo ordine del giorno sulle operazioni testé ultimate, ritiene doveroso darne atto con un encomio solenne ai colonnello Straziota, qui di seguito riportato: «In azione bellica contro rilevanti forze ribelli, riusciva, con ardita azione, superando gravi difficoltà e stroncando la resistenza avversaria, a portare i suoi reparti al raggiungimento degli obiettivi assegnatigli. Trebinje – Bileca (Croazia), 17-24 dicembre 1941»

L’anno 1942 che sta per incominciare vede i reparti del 4° dislocati a Ragusa e dintorni, impegnati in continue azioni contro i ribelli, tanto che ad un certo punto non si è più in grado di poterle ricordare tutte con un certo ordine cronologico.

Tuttavia, qualcosa possiamo ancora accennare, in base ai nostri sia pur frammentari appunti. Nella seconda quindicina del mese, sia il XXVI battaglione che la compagnia comando reggimentale lasciano Ragusa e si trasferiscono a Jablanica, paese a mezza strada tra Mostar e Konjc, alle dipendenze della Divisione ’”Cacciatori delle Alpi”.

Nella zona si trova anche la Divisione Alpina ’’Taurinense”, il che favorisce cordialissimi incontri tra i bersaglieri del nostro 4° e gli alpini del loro 3°, anche perché in entrambi i reggimenti vi sono ufficiali e soldati che si conoscono e che sono quindi lieti di ritrovarsi, sia pur lontani dalla patria, ma uniti sempre nel senso del dovere e del pericolo comune e soprattutto orgogliosi chi della penna nera, chi del proprio svolazzante piumetto.

Il trasferimento da Ragusa a Jablanica avviene a mezzo ferrovia. Intendiamoci: si tratta di un tronco ferroviario a scartamento ridotto che, dalla città costiera, inerpicandosi su per la zona pietrosa e brulla del retroterra, si addentra nell’Erzegovina e, attraversando Mostar, giunge sino a Sarajevo e oltre.

Di questi paraggi abbiamo già accennato, in quanto a Konjc, non molti chilometri oltre Jablanica, già si trova il nostro XXIX battaglione. Siamo quindi relativamente vicini ad un altro reparto del 4°. La base reggimentale, cioè una specie di deposito dei materiali delle compagnie e degli auto e motomezzi che al momento non è indispensabile avere al seguito, rimane invece a Mostar, accantonata in un’ampia caserma alla periferia della città.

Anche qui vorremmo aggiungere qualche impressione su questo centro abitato, che si presenta con un aspetto tipicamente orientale, sicuramente accentuato sia dai non pochi minareti che svettano aguzzi oltre i tetti delle basse case, sia dai costumi propri della popolazione stessa. Ma questo esula ovviamente dalla nostra narrazione, per cui conviene tornare ai nostri bersaglieri ed alle missioni operative che li attendono.

Giova però far rilevare, per inciso, che ora diventano più frequenti le scorte ai treni, poiché è attualmente di particolare importanza che la linea ferroviaria tra la costa e Sarajevo sia sempre in efficienza, data la quantità dei reparti  delle varie unità italiane che dalla ferrovia devono ricevere rifornimenti di viveri, materiali, armi e uomini. Conseguentemente diventano subito numerosi gli atti di sabotaggio che i ribelli compiono contro i convogli ferroviari, i cui vecchi e sgangherati vagoni sono ridotti in condizioni ancor più pietose per i segni delle guerriglie. Questi convogli viaggiano ora sempre con un carro-pianale, agganciato davanti alla locomotiva, dotato di una seconda spianata interna distante 30 cm da quella esterna. Nello spazio ricavato viene immessa terra e sassi allo scopo di proteggere la scorta che prende posto sul carro. Ben presto però i partigiani incominciano a sbullonare i binari e a collocare mine, specialmente a strappo, che esplodono sotto il convoglio, provocando il deragliamento del treno, sul quale aprono poi il fuoco nel trambusto generale. Vittime sono i viaggiatori e i militari della scorta.

Vogliamo ora ricordare qualche azione bellica compiuta in questo primo trimestre del 1942, chiedendo venia delle lacune, delle eventuali inesattezze nel citare nomi e località e del non preciso ordine cronologico degli avvenimenti.

Accenniamo anzitutto ad una azione eseguita verso Sarajevo, che dà modo al XXVI battaglione ed alla compagnia comando reggimentale di ricongiungersi sia pur temporaneamente con il XXIX battaglione a Konjc. Poi ad un’altra operazione particolarmente pericolosa, condotta per liberare un battaglione della “Cacciatori delle Alpi”, che era stato attaccato da forze soverchianti ed era rimasto quasi semidistrutto.

Ricordiamo poi ancora un’azione condotta con la “Cacciatori delle Alpi” ma agli ordini del nostro comandante, colonnello Straziota, il quale dispone in questa occasione, oltre che del XXVI battaglione e della compagnia comando reggimentale, anche di due battaglioni di fanteria divisionale, di una batteria di artiglieria e di uno squadrone carri.

I combattimenti sono assai cruenti e purtroppo parecchie sono le nostre perdite in morti e feriti. Anche il comandante dello squadrone carri viene ucciso in combattimento, mentre i bersaglieri del 4° si distinguono ammirevolmente per il loro valore ed il loro eroismo.

È sempre alle dipendenze della “Cacciatori delle Alpi” e, successivamente, della “Taurinense”, che il 4° Bersaglieri (XXVI battaglione e compagnia comando reggimentale) partecipa ad una azione offensiva diretta dal generale Roatta, ed effettuata con l’impiego di 5 divisioni italiane ed una tedesca (Operazione “Trio” – N.d.T.).

Ovunque i nostri bersaglieri sono di esempio per il loro comportamento ardimentoso e combattivo, anche se, purtroppo e sovente, morti e feriti lasciano dolorosi vuoti fra le nostre file.

In tutte queste azioni spesso impera il “vuoto”’, nel senso che, se i bersaglieri muovono con misure di sicurezza (sempre attuate), non si incontra mai il nemico, che sfugge ad ogni possibile agganciamento. Eppure, abbiamo le prove che esso è sempre presente dalle braci e dai fuochi che vengono trovati nelle varie zone che vengono rastrellate. È il nemico che sceglie il momento e la località ove attaccarci, cercando la sorpresa e la superiorità. Non rimane che muovere con le suddette misure di sicurezza, che consistono nell’avanzare con un reparto in avanguardia, uno a protezione del fianco sinistro ed un altro di quello destro, occupando tutte le alture che vi sono lungo la direzione di marcia. Sembra di far tanta fatica per nulla ed invece è indispensabile procedere così per evitare gravi perdite e rischiare di non essere in grado di assolvere il compito affidatoci.

Nell’aprile 1942 i bersaglieri dislocati a Jablanica si spostano a Metkovic, allontanandosi dalla base reggimentale di Mostar, poiché i reparti sono nuovamente chiamati ad operare nella zona circostante, ma questa volta separatamente.

Mentre il XXVI battaglione agirà in altre località viciniori, la compagnia comando reggimentale ed il comando di reggimento dovranno affrontare i partigiani a Zegulja e a Lubinje e successivamente a Stolac.

[…]

Mentre la compagnia comando reggimentale è impegnata nell’azione di Stolac, il XXVI battaglione prosegue le sue operazioni di rastrellamento nelle zone di Hutovo e Plana. I partigiani non danno tregua ai reparti italiani che sono sempre più pressati dai continui attacchi del nemico, fattosi ora più ardito ma soprattutto dimostratosi via via più numeroso e più organizzato. Ai primi di giugno la compagnia comando reggimentale ed il XXVI battaglione sono nuovamente riuniti, prendendo parte ad operazioni di contrattacco nella zona a nord delle Bocche di Cattaro, intese a respingere i partigiani che ne hanno di sorpresa occupato il porto. A missione compiuta i reparti, anziché tornare alle basi di partenza, raggiungono nuove e differenti posizioni.

[…]

I bersaglieri sono presto nuovamente impegnati in varie azioni che portano i reparti ad agire separatamente in base alle esigenze delle operazioni belliche, ma sempre per ora lungo la fascia costiera o nel vicino retroterra. Vlaka, Vrgorac, Zavala, Hutovo, sono le località che indicano le principali azioni condotte dai bersaglieri della compagnia comando reggimentale e dal XXIX battaglione tra la fine di maggio e la prima quindicina di luglio. Nell’agosto i bersaglieri sono ancora chiamati a svolgere una importante azione alle foci del fiume Narenta, ove parecchie migliaia di partigiani sono annidati per sferrare un attacco in forze contro i nostri presidi della zona (Operazione “Albia”, N.d.T.).

I reparti del 4° Bersaglieri, rinforzati da un battaglione di fanteria divisionale (la divisione, di cui mi sfugge il nome, è al comando del generale Tucci), (Divisione “Messina” N.d.T.) iniziano i movimenti preliminari dell’azione sotto il comando del colonnello Straziota, quando a questi giunge improvviso l’ordine di trasferimento in Africa Settentrionale per assumere il comando del 7° reggimento Bersaglieri, in vista della grande offensiva di El Alamein. L’ordine deve avere immediata esecuzione. Per il colonnello Straziota è ben dura cosa lasciare i bersaglieri del 4° così, di sorpresa, dopo ben otto mesi di vita in comune, durante i quali ha avuto modo di apprezzarli e di essere a sua volta da loro stimato ed amato. Ma gli ordini sono ordini e non si discutono, specialmente quando è un altro reggimento di bersaglieri che necessita di una guida sicura e di un comandante esperto in un momento particolarmente importante delle operazioni in Africa. Purtroppo, non vi possono essere saluti particolari, poiché alcuni reparti del 4° sono in azione ed altri sono distaccati lontani dal comando di reggimento. Comunque, il periodo trascorso alla testa del reggimento non è per il colonnello Straziota scevro di intima soddisfazione e di giusto orgoglio poiché, se è vero che i battaglioni erano impiegati separatamente a difesa di vari presidi, è altresì certo che in quegli otto mesi il 4° Bersaglieri compì azioni offensive brillantissime e di grande importanza per la difesa dei settori operativi ad esso via via affidati.

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Colla partenza del colonnello Straziota, destinato in Africa, il comando del reggimento è assunto dal tenente colonnello Ugo Verdi, già alla testa del XXVI battaglione. Il capitano di complemento Ciro Raimondo, un simpatico notaio di Vercelli, viene assegnato come comandante del XXVI battaglione e rimarrà in carica sino alla metà del febbraio successivo (Dante riporta invece il nome del capitano Mazzoni, N.d.T.). A metà settembre, intanto, nuovo spostamento per il comando di reggimento e la compagnia comando reggimentale che, trasferendosi a Castelnuovo di Cattaro, si riuniscono nuovamente col XXVI battaglione, mentre il XXIX rimane a Slano.

Con l’autunno del 1942, si può dire che incominci per le truppe dell’Asse il rovesciamento della situazione militare, per cui, di fronte alle numerose vittorie conseguite su tutti i fronti di combattimento, si profilano ora le prime decisive battute d’arresto, i primi definitivi ripiegamenti, le prime avvisaglie di quello che sarà, dopo tanto sangue, l’annientamento e la sconfitta degli eserciti stessi. Ma qui non sta a noi trattare la condotta militare della guerra nel suo complesso, ma solo far risaltare il fatto che, man mano che le operazioni belliche volgono negativamente per le truppe italo-tedesche, cresce proporzionalmente la aggressività degli avversari e quindi, nel settore che ci interessa, cioè la Jugoslavia, dei partigiani di Tito.

Il 4° Bersaglieri vede quindi intensificarsi l’impiego dei suoi battaglioni lungo la fascia costiera della Dalmazia, in zona sempre più vicina al mare, premuto, come anche le altre truppe dislocate in Balcania, dalla necessità di difendere la costa ed i presidi ivi costituiti, abbandonando quelli che, siti nel più profondo retroterra, non rappresentano ora, per il loro mantenimento, che un inutile sacrificio di uomini e materiali.

Nell’impossibilità di seguire, attraverso i pochi dati in nostro possesso, i movimenti e le azioni belliche di tutti i battaglioni del reggimento, continueremo ad occuparci essenzialmente del XXVI battaglione e del comando di reggimento con relativa compagnia comando reggimentale.

Durante questi mesi di autunno si fa dunque più frequente il movimento dei suddetti reparti del 4°, i quali vengono via via impiegati ove il Comando Superiore ritiene utile la presenza dei bersaglieri, allo scopo, in questo settore di fronte, di arginare e contrastare i continui attacchi dei partigiani. Da Castelnuovo di Cattaro, ove si trovano dal settembre, la compagnia comando reggimentale ed il XXVI battaglione si spostano ai primi di novembre a Ragusa.

Il 18 novembre nuovo trasferimento: da Ragusa, con un trenino a scartamento ridotto, i bersaglieri si portano a Metkovic, ove il 19 si imbarcano per Spalato. Ma anche qui ci si ferma poco. Il 10 dicembre successivo giunge l’ordine di compiere un altro piccolo sbalzo a nord, sempre lungo la costa, e il giorno dopo siamo a Traù. Poco tempo rimane per visitare gli insigni monumenti dell’arte veneta di questa cittadina, poiché la nostra permanenza è nuovamente assai breve. Il 15 dicembre è arrivato intanto il nuovo cappellano don Berti, il quale viene a sostituire padre Cozzi che aveva lasciato il reggimento qualche tempo prima in seguito a malattia.

Nel frattempo, il colonnello Verdi parte per una licenza in patria ed il comando di reggimento è assunto dal maggiore Borrelli, attuale comandante del XXIX battaglione. Il 25 dicembre, appena terminato il pranzo di Natale, è annunciato un ulteriore spostamento del comando di reggimento e del XXVI battaglione a Dernis, un paese ancor più a nord e situato nell’interno, ad una sessantina di chilometri da Sebenico. Nella zona l’attività partigiana è diventata assai pericolosa ed i bersaglieri devono concorrere alla protezione dei nostri presidi che ancora si trovano nei dintorni.

A Dernis i reparti del 4° Bersaglieri sono affiancati a quelli di un reggimento della Divisione “Cagliari”, comandato questo dal colonnello Biddau, un ufficiale autoritario ed intransigente che troveremo più tardi con noi in prigionia, ove però il suo comportamento di soldato e di italiano, di fronte ai tedeschi, susciterà ammirazione e rispetto e soprattutto sarà di esempio e di incoraggiamento per coloro che dovranno dividere con lui la triste vita della prigionia in mano germanica.

1943, fino all’8 settembre.

Abbiamo lasciato Dante il primo gennaio 1943, in attesa di rientrare a casa, dopo un anno e mezzo, per la sospirata licenza. In mancanza del suo racconto diretto, il diario del tenente Quaglino ci consente, da quella data, di seguire da vicino le sue vicende attraverso la narrazione di quelle che hanno visto coinvolto il suo battaglione (XXVI), fino ai drammatici giorni dell’Armistizio.

Dante rientra dalla licenza il giorno 17 febbraio, ma, quasi sicuramente prima di aggregarsi al suo reparto impegnato in combattimento, il giorno 20 viene ricoverato in ospedale per malattia e ne sarà dimesso il successivo giorno 27. Ciò gli consentirà di evitare i sanguinosi scontri di quei giorni, descritti nel diario di Quaglino, che vedranno tra le vittime l’amico Pissinis, della cui morte Dante apprenderà al rientro dall’ospedale.

Leggi: IL XXVI BATTAGLIONE NEL 1943 (Extra 3)