I DIARI DI DANTE
III
QUADERNO III
Scritto a Cavtat - Ragusa dall'11 novembre 1941 al 21 giugno 1942
Periodo narrato compreso tra l'aprile 1941 e il giugno 1942
Aggiunta della sovracopertina: Hvar - Zavala - Stazione il 19 giugno 1942
Avvertenze
Il testo dei Diari di Dante è riportato su una colonna principale, affiancata a destra da due colonne di raffronto e complemento, nelle quali sono riportati gli stralci di due testimonianze “speciali”: sono quelle lasciateci da chi ha condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende: in particolare con quelle di Sergio Quaglino e di Luciano Scalone. Il primo è stato un ufficiale che ha scritto un libro di assoluta valenza memorialistica storica, descrivendo fatti, luoghi e persone coniugando in un perfetto equilibrio la passione determinata dagli eventi con il manifestarsi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, che ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.
La disponibilità di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari di Dante ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone le note appaiono alla fine di ciascun blocco.
Nelle colonne di raffronto e complemento, il racconto di Dante è affiancato e correlato a destra anche da:
– Cronologia essenziale internazionale
– Note esplicative o a commento del testo
– Collegamenti esterni o ad altri articoli interni sullo stesso tema (Categoria “EXTRA”, per esempio)
– Immagini e mappe
Il collegamento tra il contenuto dei Diari e quello dei due testi principali di raffronto è segnalato con una nota (in apice) solo se il nesso è specifico e circostanziato, altrimenti il raffronto è lasciato alla cura ed all’interesse del lettore con l’ausilio delle date, evidenziate all’uopo in grassetto su tutti e tre i testi.
Il collegamento tra parti del contenuto del testo dei Diari ed elementi presenti nelle colonne di raffronto e complemento (comprese parte delle immagini) è segnalato da una sottolineatura. Alcuni elementi presenti nella colonna di complemento (comprese alcune altre immagini) hanno invece solo un riferimento generico con il racconto e sono quindi privi di un collegamento specifico.
[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Le immagini con bordo e didascalia di color cremisi provengono dalla raccolta pesonale di Dante.
Qui di seguito sono riportati ulteriori formati utilizzati per ulteriori contenuti.
Cronologia essenziale
Note relative al testo dei Diari.
Testo tratto dal libro del Ten. Sergio Quaglino
Testo tratto dal libro del Bers. Luciano Scalone
ALL'INSEGUIMENTO DEI GRECI
IL RACCONTO
Strada facendo abbiamo trovato i nostri poveri compagni caduti il giorno prima, arrotolati nei teli da tenda, buttati là come un mucchio di stracci. Poveri ragazzi! C’era anche il caporale Raviglione[1], del 1915, che lasciava la giovane moglie Rosetta dell’età di ventun anni, caduto vicino ai compagni di squadra; con la sua ultima parola chiamò Rosetta e non aprì più bocca. Erano tutti in un mucchio solo con diversi altri compagni delle altre compagnie.
Cessava di nevicare e giù acqua, persino il tempo abbiamo a favore! Coraggio e sempre avanti! Dopo tanto camminare, ci hanno dato circa una mezz’ora di riposo. Il bersagliere Barbero si lamentava del mal di piedi, l’arma era pesante e Dante, con tutta la sua volontà, stava accanto all’amico, aiutandolo di tanto in tanto a portare l’arma. Per tutta la giornata si camminò e la sera siamo giunti al paese di ……,[2] a tre chilometri da Struga. Giunti tutti i ritardatari, c’è anche il maggiore, e in attesa che arrivi il rancio, andiamo noi a vedere di trovarci il posto per dormire. Metà stanchezza era sparita: per fortuna Dante si era trovato il tascapane pieno e durante la giornata se lo era mangiato tutto, potendosi così trovare ancora in forza. Intanto si fece buio, di posto non ne abbiamo trovato e così ci hanno assegnato il posto per fare le tende lì vicino, in un boschetto. Fu un lampo, in dieci minuti furono fatte le tende e dappertutto si accesero fuochi per farsi asciugare un po’. Il rancio non è ancora arrivato. Poi, cercando – tutto si trova, con un poco di paglia da metterci sotto, ci siamo fatti un bel letto e con la coperta e la mantellina ci siamo coperti per bene. Dante, prima di prendere il sonno, pensava alla sorella che già da dodici giorni non aveva più avuto possibilità di darmi sue notizie. Aspettavo posta da tutti, ma chissà quando avremo quella gioia di leggere tutti i nostri scritti in arrivo! C’era un pensiero per tutti i parenti e amici e, passandoli uno per uno, Dante si addormentava.
In quel paese era già arrivata la milizia. Nella notte, si sente un rumore di marmitte poco lontano: ma, stando là, sotto la tenda, al bel caldo, non c’era la voglia di uscire. La notte passò. Si fa giorno. Dante deve uscire dalla tenda per andare al gabinetto. Guardandosi in giro, vede un mucchio di roba, là nel luogo da dove proveniva il rumore che aveva sentito nella notte e va a vedere. C’era di tutto: marmitte piene di riso, gavette, cucchiai, eccetera. Dante prende un cucchiaio e si mette a mangiare. Vedo che altri amici stanno per avvicinarsi. Prendo due gavette pulite, me le riempio e poi mi avvio ancora alla mia tenda. Entro in tenda, sveglio l’amico Fava, che si sveglia borbottando, ma vedendo che gli consegno una bella gavetta di riso, col cucchiaio si mette a mangiare a tutta forza domandandomi da dove venisse il tutto. Dante racconta il fatto dicendo che, se avessimo aspettato il nostro, di rancio, saremmo stati freschi. Tirava un bel vento freddo e tutti se ne stavano nelle tende a riposare. Qualche attendente girava di qua e di là, ma dalla stanchezza della giornata passata il nostro corpo riposava. In tal modo, che sembrava di essere in paradiso. Sono le 9 e si sente la voce che è arrivato il nostro rancio.
Qua, allora, incomincia il giorno 12 aprile 1941, vigilia della Santa Pasqua. Tutti all’adunata per il rancio, ma era una babilonia. C’erano anche razioni doppie di vino, che si prendevano squadra per squadra, riempiendo le borracce, chi quattro, chi sei, proprio una babilonia veramente vergognosa, tutto per la fame. Neanche gli ufficiali erano capaci di tenerci. C’era il pane tutto bagnato, il brodo che puzzava, la carne lo stesso: di buono c’era solo la marmellata e con un po’ di tutto abbiamo mangiato. Intanto arrivò anche l’ordine che di nuovo si doveva partire: è proprio vero che non possiamo avere neanche una giornata di riposo. Anche qua coraggio, giù le tende e prepariamo tutto. Le armi furono caricate sul camion della cucina e alle 11 si parte verso Struga. Cammina e cammina, alle due siamo a Struga, un paese con negozi di tutte le qualità, ma non si può prendere niente. La colonna prosegue sempre, bisogna seguire e avanti. Lungo la strada abbiamo visto diverse macchine germaniche:[3] i soldati, tutti sorridenti, rispondevano al nostro saluto.
Verso le quattro ci accorgiamo di essere di fronte alla montagna[4] dove, la sera del giorno 9 aprile, gli slavi ci mitragliarono a tutta forza e qua le forze tornarono di nuovo, perché sapevamo che saremmo andati ad attendarci dove eravamo giunti il giorno 2 aprile, posto che era distante da lì solo alcuni chilometri. Arriviamo vicino al punto dove c’erano le nostre postazioni e lì troviamo i bersaglieri del XXIX battaglione. Già incominciava a farsi buio e si gira a sinistra prendendo la mulattiera che si era fatta la sera del giorno 6 aprile. Per il brutto tempo, la mulattiera è un fango solo, ma ormai ci siamo. Il bersagliere Barbero era partito sul camion dove avevamo caricato le armi: tutti avevamo avuto la stessa idea, sperando che Barbero potesse pensare di prendere ancora il nostro posto per mettere le tende e così fu: era là che aspettava i suoi compagni, seduto sulla sua arma, dopo che da vari giorni si sentiva poco bene. In quattro e quattr’otto la tenda fu in piedi alla bell’e meglio. Per fortuna, sul posto della tenda ci stava un po’ di paglia: l’abbiamo buttata perché era bagnata e siamo rimasti lì sul terreno, che almeno era asciutto. Sebbene sul duro terreno, ma stanchi come eravamo, abbiamo riposato lo stesso e la notte passò.
Si fa giorno, è il 13 aprile, la bella domenica di Pasqua, il cielo è limpido e c’è un bel sole che asciugò in breve tempo la nostra roba che era tutta bagnata. Verso le 8 abbiamo preso il nostro caffè e in seguito tanta roba arrivò: dentro i pacchi c’erano un uovo di cioccolato per bersagliere, liquori e tante altre cosette. Appena prima del rancio vediamo arrivare il nostro colonnello, ormai la sua licenza era terminata, che domandò a tutti: «Come va, bersaglieri del XXVI?» « Benissimo!» E veramente eravamo davvero[5] tutti contenti, il bel giorno di Pasqua! Un bel sole e lontani dal pericolo, anche se da lontano si sentiva il rombo dei cannoni, perché ormai l’offensiva da vari giorni era scatenata. Coraggio!
Dante aspettava con gran desiderio la posta, sapendo che nel pomeriggio sarebbe dovuta arrivare. Dopo il rancio, bisogna preparare tutto, ché si parte fra qualche ora, e tutti i bersaglieri innalzavano gli occhi al cielo, chiedendosi se per loro non ci sarebbe stato mai un giorno di tranquillità. Così è la guerra, coraggio, presto sarà finita! I greci hanno lasciato Pogradec e stanno ripiegando a gran forza. Ci viene un po’ di coraggio, siamo là tutti pronti, seduti sulla nostra roba tutta affardellata e un po’ di felicità arrivò con la posta, mentre il cuore incominciò a battere come un motore a scoppio. Dante riceve una lettera dalla sorella Luisa e una da Rosa. Luisa pensò di mandarmi la fotografia con accanto il suo caro marito, ciao. Dante rimase contento che almeno ricevette notizie dalla sorella, ma risponderle non si può, perché subito si deve partire. Pazienza! A casa hanno i pensieri perché non hanno nostre notizie, ma peggio è per noi che sempre siamo sotto il pericolo!
Adunata! Ci andiamo a mettere sulla strada dove siamo arrivati con i camion, carichiamo le nostre cassette ed armi sui motocarrelli e intanto abbiamo in vista le nostre biciclette, portateci lì con i camion. Andiamo bene! Forse è giunta proprio la nostra ora per andare al macello, adesso che per due giorni c’è da pedalare! Era dal giorno 15 novembre 1940 che non toccavamo le biciclette: tutti cerchiamo di trovarci una bicicletta più o meno a posto, almeno con le ruote che girassero, perché quasi tutte erano state mitragliate dagli apparecchi e, appena pronti, via. Lì c’era il colonnello che voleva sbrigarsi per partire e alle due ci fu la partenza. Avanti! Pedala e pedala, le strade sono tutte brutte, rotte, piene di sassi, forza poca, allenamento di andare in bicicletta meno ancora, eppure si pedalò sempre con entusiasmo. Alle 6 siamo a Pogradec: quel povero paese si era preso una gran batosta, con tre colpi delle bombarde piazzate sul Monte Kalase nei giorni che noi stavamo lì. Con i tre colpi di bombarda i greci si erano decisi a lasciare il paese e ad andarsene, ma dietro le case c’erano ancora i soldati morti, non sotterrati dai compagni, scappati per la paura di essere presi. Era veramente un macello: sebbene il paese fosse un rifugio solo, con lo spostamento d’aria di un colpo di bombarda, nel raggio di cento metri una persona doveva essere ben robusta per non andare all’altro mondo.
Sempre si pedala. Quanta truppa che si sorpassava mai! Davanti, lungo la strada, macchine di tutti i colori e sorti. Pure il nostro colonnello ci seguiva, chilometro per chilometro. La pianura del lago di Ocrida è terminata e incomincia la bella salita, dove, all’inizio, ci stavano i camion che trasportavano il XXXI battaglione. Tutti i bersaglieri domandarono del cugino, dell’amico, del compagno, chi ferito, chi morto, chi sperduto, qualcuno ancora sano e salvo, ma la maggior parte non c’erano. Dante domandava della compagnia comando di battaglione, per sapere se i due amici Maggiorino e Italo fossero anche loro in viaggio, ma nulla si può sapere. Avanti, la bicicletta incominciava ad essere dura e non voleva più andare avanti. La notte è buia e ci sono punti difficili: quei malvagi prepararono le mine e buttarono per aria le strade! C’era il genio che, man mano che si andava avanti, ci seguiva per farci la strada, ma c’erano dei punti dove ci volevano delle ore per poter passare, perché c’erano delle buche così profonde e larghe che ci stavano dentro dei palazzi. ma grossi. Ma noi, poveri sfortunati, appena c’era un piccolo sentiero, si andava avanti. Fortuna che il giorno di Pasqua ci hanno mandato qualche cosa di buono, altrimenti la bici buttava per terra noi, che invece la si doveva spingere. Dopo tante soste e fermate, ma senza mai abbastanza tempo per riposare, siamo sulla salita, sapendo che poi, davanti avremmo avuto la famosa pianura di Corizza, ricordandoci bene la notte del ripiegamento. Quanti chilometri, con ‘ste biciclette, anche in Albania abbiamo mai fatto!
Sono le tre del giorno 14 aprile, siamo fermi sulla strada opposta di Corizza, il freddo ormai si poteva dire che era sparito, ma nella notte, l’ora proprio giusta, tutti eravamo ammucchiati con la mantellina addosso e tanti accesero il fuoco; ci siamo fermati lì quasi un’oretta, poi avanti di nuovo. Si pedalò fino all’alba, fintanto che il nemico ci ha visti e subito si mise a sparare colpi di mortaio; se non si fossero fatti sentire, tutto il battaglione sarebbe andato a finire prigioniero, così come ci rimase il primo plotone della 3a compagnia, che si trovava in testa, dopo che il caporal maggiore Leone,[6] amico di Dante, era morto. Dopo alcuni colpi di mortaio e l’impossibilità di andare avanti con le nostre armi, venne poi l’artiglieria alpina. Ci siamo messi incontro alla scarpata della strada, a sinistra, e lì ci siamo stati fino alla sera senza mangiare, ma chiunque l’avrebbe fatto. Al mattino, verso le 10, stava per arrivare il camion del rancio, ma, non appena spuntato alla vista, subito veniva circondato da colpi di mortaio (e qua venne in mente il fatto del camion della cucina del XXXI battaglione, quando siamo entrati in Francia). Al più presto ha dovuto fare dietrofront e noi guardiamo per aria! Una bella giornata, di tanto in tanto qualche colpo di mortaio faceva abbassare la testa, ma, per tutta la giornata, si riposò e fu quasi un sonno solo. Il tascapane era vuoto, ma, finalmente, verso sera arrivò la bella notizia che appena al tramonto si ritornava indietro e che, al primo paesetto, ci sarebbe stato il rancio: e così fu.
Dante si assicura che tutti i compagni di squadra siano a poca distanza e si è pronti per la partenza. Si parte: coraggio, anche oggi è passata! Dopo alcuni chilometri troviamo il paese tanto desiderato e anche il rancio: minestra, frutta cotta, marmellata e vino, ma la fame era esagerata. L’amico Fava, mi avvisa che si allontana per andare alla cucina, dall’amico cuciniere Monti, che lo forniva di tutto: lardo, formaggio, vino e pane. Tanto il mio tascapane, come il suo, furono riempiti. Nel tempo di un’oretta fu consumato il rancio e poi avanti. Il rancio fu abbondante, ma dalla fame che avevamo tutto fu divorato come dei leoni chiusi nelle gabbie. Lungo la strada sempre si mangiò e infine, verso le 10, si giunge alle porte di Corizza, con il ricordo dei bombardamenti della notte del 22 novembre 1940, nel ripiegamento. Lì, con una mezz’ora di riposo, tutta la scorta del tascapane fu distrutta e finalmente potevo dire di essermi sfamato. Adunata alle bici, poi avanti, e tutti in ordine passiamo davanti a un generale che stava già a Corizza. Una cosa veramente sollecitante fu vedere quella povera gente offrire di ogni cosa ai bersaglieri: sigarette, gallette, liquori, pane e tante altre cose, di cui Dante si è riempito persino lo zainetto della bici. Intanto si attraversava tutta la città, ma tuoni di cannone arrivavano a poca distanza: ciò per evitare che noi avanzassimo troppo in fretta, quei barbuti di greci! Ma sempre avanti! Fuori da Corizza un tre o quattro chilometri c’erano dei capannoni di legno e lì ci fermammo provvisoriamente. Appena sistemati ci danno gallette e scatolette, Dante s’intascava tutto perché la fame ormai era sparita.
Davanti a noi stava il XXIX battaglione, che, sfortunatamente, era proprio sotto il tiro delle artiglierie nemiche e per noi vedere portare indietro i poveri compagni feriti era una cosa pietosa. Ma ormai eravamo abituati a tutto e non ci facevamo neanche caso, sebbene le cannonate arrivassero a cento metri di distanza da noi: macché paura! Ognuno, tranquillo, pensava solo di potersi riposare un po’, ma non ancora passati dieci minuti tranquilli, arrivarono i motocarrelli con le armi e le cassette: ognuno deve andare a prendersi la roba che aveva in consegna e controllare che le cassette con le munizioni siano in ordine. E anche questo fu fatto, tutto a posto. I bersaglieri non possono rimanere un po’ tranquilli nemmeno una mezz’ora e arriva l’ordine che sempre si deve andare avanti. Qui viene il bello! Biciclette, armi e cassette, si fanno due chilometri e poi, dovendo cambiare strada e prendere delle mulattiere, danno l’ordine di lasciare tutto, senza lasciarci prendere neanche il tascapane: ma tutti si pensava alla fame e, insistendo della cosa non giusta, ci prendiamo il tascapane e la mantellina, tutto in ottimo stato. Anche la nostra artiglieria avanza, trovando il posto adatto, e giù delle cannonate! Noi si camminava uno dietro l’altro tutti silenziosi. Dante, sopportando tanto male, con la sua volontà cercava di stare vicino ai compagni. Al primo alt, Dante prende il coltello e taglia tutto il didietro della scarpa, ché era lì che gli dava il male al cordone del piede. Tutto andò bene e più nessun male. Sempre si camminava col nostro maggiore in testa e avanti. Tutta la notte si camminò, anche il tempo cambiò e si mise a piovere.
Sono le tre del giorno 15 aprile e siamo ad un piccolo paesetto, tutto silenzioso, solamente qualche abbaio di cane si sentiva da lontano; forse il maggiore, fermandosi qui un po’ di tempo, cercava di trovare la strada giusta per proseguire. Fu un attimo: tutti i bersaglieri che sfuggono per andarsi a riparare, dalla gran acqua che cadeva: il maggiore, vedendo questo disordine, si mise a gridare e a lasciar cadere bastonate da tutte le parti. Sapendo il difetto del comandante, fu un attimo per il battaglione a riunirsi e qui siamo all’alba. Davanti ci vediamo il tenente colonnello Zunin,[7] lui comandante del reggimento per pochi giorni in sostituzione del colonnello comandante, in altri servizi ben impegnato. Stanchi e tutti bagnati, lo stesso si camminava su per una ripida montagna. Verso le 10 tutto il battaglione è riunito alla cima della montagna e gli ufficiali danno l’ordine di controllare se tutti i bersaglieri fossero presenti: fortuna che Dante aveva tutti uomini in gamba, perché alcuni bersaglieri mancavano da parecchie ore, sperduti nella brutta notte passata, anche a causa del gran buio. Veramente non si sapeva come fare a passare fossi e burroni: eppure con la volontà tutto si otteneva. Dante si era tagliato la scarpa, ma ora entrava l’acqua che era un piacere e cosi ero completamente bagnato dalla testa ai piedi. Non importa, sempre coraggio, Dio vede e provvederà.
Qua è stato un su e giù per montagne per tre giorni, il 15, il 16 e il 17, ma chi la purga sono sempre i bersaglieri, da tre giorni senza mangiare, fortuna che ci siamo presi il tascapane e quel poco che avevamo ci ha portato un po’ avanti, altrimenti stavamo freschi! E nemmeno la mantellina volevano lasciarci prendere! Era bagnata, ma qualche cosa riparava anche lei. In quei tre giorni, che furono veramente tremendi, ne abbiamo viste di tutte le sorti. Parlando poi del giorno 16 aprile, finalmente venne l’ora per poterci tutti orientare, essendoci trovati sulla montagna dove il giorno 15 novembre 1940 avevo piazzato l’arma contro gli apparecchi e dove giù sulla strada stavano le biciclette la sera del 22 novembre 1940, quando fuggimmo nel ripiegamento.
Dante, che comandava la terza squadra del primo plotone, era in rinforzo alla terza compagnia che stava sulla montagna. Da lì si vedevano tutti i compagni che attraversavano lo sbarramento fatto durante l’inverno dai greci, che, conoscendolo bene, lo avevano superato e che adesso lo battevano con l’artiglieria. Vedere i nostri compagni cadere feriti e morti era una cosa pietosissima, ma, con tutto il nostro impeto, i greci furono respinti in breve tempo. Così venne l’ordine di ritornare sulla strada di Erseke, ma chi aveva della forza? Nessuno, ma lo stesso bisognava camminare e, con partenza alle 10, si camminava su e giù per le montagne sulle mulattiere, finché poi, al tramonto, finalmente, venne la fortuna di fermarsi in un piccolo paese, dove, grazie alla generosità degli albanesi a nostro favore, trovammo le capanne dove mettevano le pecore. Quella notte, bene o male e certamente tutti bagnati, la passammo lì. Mangiare niente, ma più che il mangiare, il nostro desiderio era il riposo e la notte passò.
Giorno 17 aprile, il battaglione è tutto adunato e si va avanti. Dopo poche ore di cammino ci venne alla vista la strada che si avvicina a Erseke. Alle 14, giunti sulla strada, la stanchezza era il doppio della stanchezza, ma intanto che ‘sti bastardi di greci sono in fuga e bisogna inseguirli. Giunti sulla strada, ci hanno dato un dieci minuti di tempo per riposarci un po’ . Dopo arrivò il nostro colonnello comandante Scognamiglio, che scende dalla macchina e, ad uno per uno, domanda come andava e con tutte le sue buone maniere dava più che altro coraggio, per poter compiere in seguito il proprio dovere. C’era un vai e vieni di macchine, generali, colonnelli, eccetera. Da lì giunse l’ordine di stare più intervallati e tenerci al riparo il più che si poteva, ma per quello il pericolo era un minimo, perché stavano scappando e non potevano dare risposta alle nostre mitragliatrici, che li spingevano tutta forza. Pian piano si va avanti: sotto, sotto, coraggio! Arrivano anche i viveri, siamo poca distanza di un piccolo paesetto a poca distanza da Erseke, si cammina, passiamo questo paese con queste poche case sulla destra della strada e ci fermiamo: mi giro e mi accorgo che il che mancano i bersaglieri Randazzo[8] e Poni[9], tutti e due della squadra. Dove sono? Dove saranno? Erano qui pochi minuti fa! Passano neanche cinque minuti e mi arrivano lì con una cassetta di uva secca, del peso di mezzo quintale. Con la fame che c’è, chi è capace di tenere un po’ in ordine per distribuirla? Neanche il padreterno! era deciso dal tenente di distribuirla un po’ per squadra, ma i padroni volevano darla a chi volevano e così in quattro e quattr’otto. tutti si buttarono sopra la cassetta. Una cosa incredibile, ma la fame… Il bello era che l’uva era tanto pressata che, anche avendo le dita di ferro, non si poteva riempirsi la mano. Lì uno e tira l’altro spinge, tenendo io la mia mano sulla cassetta per fare anch’io quello che facevano tutti. Ma il Randazzo si vedeva sparire tutta la sua uva, così strappa via la cassetta e si allontana, avendo almeno l’unica buona idea e la possibilità di riempirsi il di riempirsi il tascapane: va bene, non tanto, ma una mezza tasca riuscì ad averla. Nel mangiare mi vedo del sangue sulla mano sinistra: cosa ho fatto? Come mai ho la mano insanguinata? Mi accorgo nel lavare la mano che dalla cassetta spunta un chiodo che tiene il coperchio: questo fu l’accaduto e fu l’unico sangue di Dante perso nella guerra[10].
Niente di male, tanto in guerra il sangue non fa paura e avanti! Intanto il Randazzo mi riempie una tazza di uva e non si fanno duecento metri che ancora c’è un alt: i due che seguono sono scomparsi. «Ma, porca miseria, possibile che ogni momento della giornata debba guardare chi c’è e chi non c’è? Siamo in cammino eppure vogliono allontanarsi!» Non passano dieci minuti che arrivano con un pacco di gallette: tutti addosso a queste, tutti le volevano e così tutto andò a bordello. Poi a Dante riesce di darne un po’ per squadra alle tre squadre del plotone. Comunque nella pancia qualcosa abbiamo messo e avanti ancora. Passiamo il ponte di Erseke, dopo un duecento metri troviamo una bella fontana e tutti ci riempiamo la borraccia di acqua. Passato questo, c’è un altro ponte, che i greci credevano poter far saltare per aria, ma senza riuscirci, ché non hanno fatto in tempo e così nessun rallentamento c’è stato per il nostro inseguimento. Alla curva della strada c’è stato un altro alt e allora giungono i motocarrelli con i viveri. Finalmente! Cosa c’era di buono? Una pagnotta a testa di quelle greche, di pane suo abbondante, due scatolette di carne, un pezzo di carne e una scatola di Chiarizia. Finì che nessuno sapeva dove mettersi la roba, la pagnotta riempiva da sola il tascapane, ma, un po’ di qui e un po’ di là, tutto fu intascato senza nessuna difficoltà.
Si fa il tramonto, dove andremo questa sera? Avanti al buio, sotto la pioggia che da vari giorni continuava a piovere e poi alt, ci fermiamo. Dopo un po’ di tempo il comandante di compagnia ci chiama: «Venite qua!» Poiché non si vedeva niente, si andava dalla parte dove si sentiva la voce, mentre la forza era come mettere in piedi un paio di pantaloni: ma, con un colpo di qua e uno di là, siamo giunti vicino ad una casa con un angolo che era stato già buttato giù da un colpo di una cannonata. Come si fa ? Passerà anche questa notte tutti ammucchiati! Eppure la notte passò. Al mattino presto, ancora col buio, attorno alla casa arrivano dei carri e uno viene per batterci contro: allora tutti a gridare «Ohelà[11], siamo noi, siamo italiani!» Se fosse giunta una cannonata, ce la saremmo presa e ti saluto Ninetta![12]
Mattino del giorno 18 aprile, la giornata è scura: appena giorno, pronti e avanti! Il morale era un po’ più alto della sera: un po’ di riposo e qualche cosa nella pancia e potevamo dirci ancora bersaglieri![13] Sono le 8, siamo al centro di Erseke, il colonnello ci guarda passare e intanto le cannonate incominciano ad arrivare, perché nella notte hanno avuto il tempo di piazzare i cannoni. Il bersagliere non ha tregua, avanti sempre, fortuna che il tempo si ristabilisce e sembra voglia farsi vedere il sole. Cento metri e poi alt, venti metri e poi alt: la giornata è bella e ci vedono molto bene e così giù cannonate a tutta forza. Siamo fuori dal paese e per fortuna a sinistra della strada c’è questo fosso, altrimenti saremmo stati freschi. Intanto qualche ferito tornava indietro, prima il caporale Casaro[14] della nostra compagnia, ferito leggermente, poi torna un caporal maggiore della terza, che ha tutta una gamba squarciata; un altro aveva proprio una mano staccata, il caporale Sandrone[15], della compagnia comando aveva via un orecchio e tornava piangendo: una cosa pietosa, eppure bisogna andare avanti. Pian piano, giù e giù, siamo a fianco di un ponte sopra un grosso torrente, dove scorreva un’acqua limpida: passare sul ponte erano guai, ma passare nell’acqua c’era da bagnarsi anche la pancia. E lì, alla notte, acqua o non acqua, dentro e avanti, avanti, ma tutti pensavano alla pelle; non ancora duecento metri e, passato il torrente, l’attendente del tenente è ferito alla gamba destra e anche lui ritorna. L’ordine per noi era di seguire la prima squadra, ma dal fuoco dei cannoni tutti si sbandano e più nessuno andava avanti. Ad un bel momento arriva il bersagliere Pissinis[16] e ai primi che trova dice che per forza bisogna andare avanti e radunarsi all’altro ponte, ché là c’è il comandante del battaglione. Allora, così, sbalzo su sbalzo e sfruttando il terreno il più possibile, siamo giunti al torrente. Incontro il tenente che piangeva per la girata presa dal maggiore perché aveva il plotone tutto sbandato. Un po’ di qua e un po’ di là, a cento metri, sulla destra, c’era il ponte con una alta scarpata, dove tutti si raggrupparono al riparo, intanto che anche gli altri ci seguivano. Non ancora due minuti di tempo che la squadra era tutta riunita e una cannonata nel torrente ne ferì cinque non gravemente, ma quelli non potevano più proseguire e venivano portati sotto il ponte per essere medicati. Intanto il caporal maggiore Ansaldi[17], che comandava la prima squadra, manda indietro un bersagliere a prendere l’arma che ancora stava addosso al povero Pisoni[18], che venne ridotto da un colpo in uno stato spaventoso, oltre la sua morte da eroe. Ansaldi riuscì a prendere l’arma per raggiungere i suoi compagni, mentre il maggiore gridava come un pazzo, ma ormai conoscevamo bene il suo carattere e per noi era un divertimento sentirlo.
Lasciando indietro i poveri morti e feriti, il battaglione deve sempre andare avanti, col compito di fare un aggiramento sulla destra, il maggiore in testa e noi che lo seguiamo. É tutto nel nostro interesse fare sbalzi corti, sfruttando sempre tutti i ripari che il terreno ci dava a favore. Le mitragliatrici sparavano a tutta forza, i feriti non si guardavano più; decisione e mai paura, siamo vicino al punto scoperto, il maggiore è seduto sotto ad un cocuzzolo ed essendo lui al riparo dava parole di conforto, ma, pensando noi che si andava alla morte, c’era da piangere. Quel tratto è di pochi metri, ma il male era che, oltre ad essere scoperto, era una fangaia e più di cinque o sei ci entrarono con un po’ di fiacca e andarono dentro al fango, da dove poi levarsi erano guai. Chiuso questo, dietro ho il bersagliere Assandri[19] che mi segue, anche questo è passato, e giù dentro nel canale, dove siamo al riparo. Dopo, fatti un duecento metri, l’Assandri si accorge che c’ha la scarpa destra slegata; ci fermiamo, guarda la scarpa e vede che la scarpa è strappata: un colpo di moschetto ha strappato la scarpa in quel tratto scoperto. Vedendo questo, lui cambia colore. Gli dico: «Cos’hai? Il piede sanguina? No? Allora niente di male!» Tratto per tratto andiamo giù e dopo, fatto un cinquecento metri, c’è un altro punto scoperto: cento passi decisi e anche quello è passato. Giù di corsa verso la vallata opposta e poi ci mettiamo vicino alla scarpata. Siamo fermi e il sole riscalda un po’ la schiena, ma non è ancora mezz’ora di tempo che siamo lì, che di fretta torna indietro un portaordini; gli domandiamo se ci fossero novità e lui ci dice che il maggiore[20] è ferito gravemente.
Intanto il battaglione è fermo e possiamo mangiare una scatoletta. Il tenente fa adunata del plotone e uno dietro l’altro lo seguiamo, il fuoco era cessato un po’, passiamo ancora da quel punto scoperto, nessun ferito, siamo a posto, l’arma era puntata verso la strada, a prestamento del terreno ci troviamo con una buca a pochi metri dall’arma e aspettiamo che venga buio. Sono le 20, si sentono dei motocarrelli venire, forse portano i viveri, ché ormai tutto quello avuto la sera prima era stato divorato. Lì, dopo un quarto d’ora, ci portano le scatolette e le gallette e, in più, abbiamo la notizia che al mattino anche il colonnello era rimasto gravemente ferito. Che cosa dobbiamo farci? Siamo in guerra! Fortuna che con un po’ di sole la mantellina si asciugò un po’e, con l’unico riparo nostro, ci copriamo, ci corichiamo con il tascapane vicino alla testa e aspettiamo il giorno 19.
Il 19 aprile si fa giorno ed è una bella mattina, tranquilla, limpida, con un bel sole che asciuga per bene la mantellina. Sapevamo che i greci avevano due grossi pezzi di artiglieria che noi non potevamo battere e, nell’unico giorno che i nostri apparecchi si fanno vedere sulle linee, alle 14, arrivano cinque picchiatelli [21]che girano e girano e noi tutti a terra a guardare a guardare i movimenti che facevano. Dopo qualche minuto si mettono a ruotare mitragliando, facendo delle picchiate veramente ammirevoli: forse è giunto il momento anche per loro. Dopo un dieci minuti i picchiatelli prendono la loro via del ritorno. Passano le ore, siamo al tramonto e anche oggi è passata. Alla stessa ora della sera prima ci portano le scatolette e le gallette e la notizia che il povero colonnello era morto da poche ore nell’ospedale di Corizza e che anche del maggiore le notizie erano poco buone.
Anche la notte del 19 è passata e siamo al 20 aprile, un’altra bella giornata. Sono le tredici e viene un bersagliere della seconda squadra a dirci di prendere tutto e fare adunata di tutto il plotone da loro. In pochi minuti siamo tutti adunati e avanti. Intanto si leggeva la posta che ho ricevuto dalla sorella Rosa e una cartolina dal signor Nino[22]. Sempre si domandava e l’orecchio gavetta diceva che i picchiatelli avevano spaccato tutto: allora coraggio, perché ormai sapevamo che per la Grecia era dura. Siamo giunti a Borove, tutto il battaglione è riunito, siamo fermi, perché dobbiamo aspettare che il genio termini il ponte sopra il torrente. Ormai l’han quasi finito e dopo un’oretta si parte. Avanti, appena passato il ponte c’era una fontana ancora dieci minuti di sosta e tutti hanno il tempo di riempirsi la borraccia, mentre i fumatori acquistarono le sigarette dai bambini, che, tutti, tenevano in tasca, vendendole di nascosto. Avanti ancora e dopo un’oretta di cammino arriviamo nel punto dove i nostri picchiatelli fecero il disastro: lì ci fermiamo incontro alla montagna e, dopo una mezz’ora, incominciano ad arrivare le compagnie del XXXI battaglione. Vicino alla strada scorreva un bel fosso d’acqua e tutti desideravamo lavarci un po’ ed erano passati sei giorni dall’ultima volta che mi ero lavato. Prendo il sapone e l’asciugatoio che tenevo nel tascapane, levo la giubba e giù a lavarmi. Ritorno contento della pulizia fattami e mi metto a mangiare un po’ di gallette, tanto per far passare il tempo. All’improvviso arriva una cannonata ai piedi della montagna opposta, a neanche cento metri lontano da noi e un fulmine fu a correre sotto le rocce della montagna. Poi arrivò un motocarrello con sopra i limoni e il cognac: cannonate non se ne sentirono più, ma tanto non ci facevamo più caso, e così per noi viene distribuito tutto. Intanto correva la voce che dovevamo tornare indietro a riposo, cosa per noi comune, ma tanto noi pensavamo di andare a riposo solo quando la guerra è finita. Sì si va indietro e intanto arrivano delle motociclette: uno dei motociclisti è il Maggiorino, l’amico abitante del paese. Contenti del nostro incontro, si parla del passato e dei giorni scorsi e anche lui dice che dovevamo tornare indietro: così tutti contenti aspettiamo e poi diremo se sarà vero. Forse è proprio vero. Si mette in testa il capitano Favilla[23], che comandava il battaglione, e si ritorna indietro. Cammina e cammina, passiamo a sinistra di Borove, su di un ponticello per il passaggio di soli pedoni, squadra per squadra, a una trentina di metri di distanza. Si cammina, incomincia il tramonto e troviamo otto bersaglieri che portavano indietro due poveri compagni andati caduti in combattimento: erano del XXIX battaglione. Dopo un paio di ore di cammino, gira di qui, gira di là, siamo andati a spuntare fuori sotto il ponte della pianura di Erseke, dove il giorno 18 si ripararono i feriti. Passiamo sotto il ponte e giriamo un po’ a sinistra, scendendo giù un ottocento metri sulla riva di un fosso. Tutto è buio, uno va di qui, l’altro va di là: ebbene, in poco tempo, tutte le squadre erano a posto, riunite plotone per plotone, ma sulla terra sempre si doveva dormire. Da coprirci avevamo solo la mantellina, ma non importa, se finora tutto è andato bene e anche questa l’abbiamo scampata. Intanto arrivarono i motocarrelli con rancio caldo: dopo tanti giorni un po’ di minestra tutti la desideravano. Mi ricordo bene che per evitare la strada ad altri compagni per farli tornare indietro a prendere il sacco dei pacchi, uno me lo son preso in groppa io e via! Ad un primo momento sembrava leggero, ma col brutto terreno e l’oscurità era un camminare da cane, tanto che, dopo duecento metri, per forza dovetti mettere il sacco a terra e riposarmi. Intanto, due amici che aspettavano più il pacco che il rancio, ci vennero incontro e in poco tempo furono distribuiti pane, minestra e pacchi e in quel modo passò anche la notte del 20 aprile.
Siamo all’alba del 21 aprile, bella giornata, abbiamo il nostro caffè e poi, di tanto in tanto, arrivava qualche motocarrello coi nostri rotoli delle coperte e dei teli che rimasero sulle bici il giorno 14. Dopo tanto cercare, trovai il mio rotolo con la maschera: non manca nulla. Allora, deciso, mi prendo il sapone e l’asciugatoio e mi vado a dare una bella lavata nel torrente lì vicino. Sappiamo che lì non potevamo fare la tenda, perché ancora ci saremmo dovuti spostare. Aspettiamo tranquilli solo il momento metterci in cammino, sapendo che al più presto saremmo stati a posto e con il tempo di farci la tenda, prima che fosse arrivato il rancio. Prepararsi che andiamo, tutti pronti, poi seguimmo il capitano Colombo, comandante della compagnia. Era un giorno caldo e, fatti venti minuti di cammino, eravamo stanchi e sudati, una cosa pietosa; ma sapevamo che non era colpa nostra: cosa dobbiamo farci? La debolezza butta a terra anche l’uomo più robusto del mondo. Siamo al posto e con un po’ di lavoro e una zappa facciamo la tenda sotto di una pianta. Terminato, ero senz’altro stanco, ma, per il desiderio della pulizia, faccio un salto giù a darmi un’altra bella lavata nel torrente che c’è a dieci metri e dove scorreva l’acqua limpida, e dopo poco abbiamo il nostro rancio. C’era un sentiero che passava davanti alla tenda, c’era chi andava e chi veniva, e passa l’amico Fiocchi, che stava alla compagnia comando e si ferma. Contenti si parlava del presente, radio gavetta diceva che un buon numero di bersaglieri dovevano andare al funerale del povero colonnello, ma l’amico mi assicura che, di tutto il reggimento, formeranno un battaglione di bersaglieri per andare a fare la sfilata ad Atene. Si discuteva perché sapevo che la guerra non era ancora finita: vedremo, fosse vero, magari sì, magari no, ciao ciao e se ne va. Intanto si fa buio e ce ne andiamo a dormire.
RIFERIMENTI E NOTE
Note
[1] RAVIGLIONE PIETRO – 08/03/1915 – TORINO – Data di Decesso/Dispersione: 10/04/1941 – Luogo Decesso: ALBANIA – Luogo Sepoltura: –
[2] Probabilmente si tratta del paese di Radolista.
[3] Anche Dante è allineato con naturalezza alla direttiva fascista che imponeva l’uso del ricercato aggettivo germanico al posto del più usuale e popolare tedesco, che avrei invece comunemente ascoltato sin dal dopoguerra da mio padre stesso, da tutti i familiari, parenti e conoscenti. Germanico non lo sentii mai una volta e l’avrei incontrato solo, molto tardi, in qualche riproduzione di cinegiornale d’epoca. Questo formalismo, nel quale Dante s’impegna, lo troviamo anche in altri casi, come ad esempio quando si riferisce al Santo Natale, alla Santa Pasqua, alla Santa Messa, ma sarà del tutto estraneo al suo successivo modo di esprimersi nel quotidiano.
[4] A Struga si fermano un paio d’ore, nelle quali ufficiali italiani e tedeschi si scambiano informazioni, dopodiché il reggimento fa ritorno verso il confine albanese e verso Pogradec, ripassando dagli stessi luoghi dei combattimenti dei giorni precedenti.
[5] Nonostante tutto doveva sentirsi davvero contento in quel momento, se raddoppia l’avverbio veramente con il suo sinonimo davvero: era bastato un po’ di riposo e un pacco di generi di conforto il giorno di Pasqua.
[6] LEONE LORENZO – 16/12/1917 – RIVAROLO CANAVESE – Data di Decesso/Dispersione: 15/04/1941 – Luogo Decesso: ALBANIA – Luogo Sepoltura: – Caporal maggiore, decorato con medaglia di bronzo alla memoria – Stretta di Guri Shen Gjergji – 14 aprile 1941.
[7] Tenente Colonnello Zunin Arturo – Decorato con Medaglia di bronzo – Borove (fronte greco) 18-20 aprile 1941
[8] Con questo cognome (il nome non è noto) risulterebbero alcuni caduti compatibili con i luoghi ed i tempi in cui il reggimento fu in seguito operativo, ma senza ulteriori riscontri utili.
[9] Con questo cognome (il nome non è noto) risulterebbe un caduto compatibile con i luoghi ed i tempi in cui il reggimento fu in seguito operativo, ma senza ulteriori riscontri utili.
[10] Considerazione non trascurabile nel merito, mentre dal punto di vista cronologico essa vale almeno fino al momento della scrittura del diario e rientra nell’ambito di quanto riportato nella nota 22 del Quaderno II, circa i sottintesi “salti in avanti” (prolessi), che Dante ogni tanto inserisce all’interno del racconto, quali anticipazioni di futuri rispetto al tempo della narrazione.
[11] Dopo l’oheilà del Quaderno I (nota 13), adesso c’è questo ohelà, il cui significato, data la situazione, è confermato nell’accezione di una disperata richiesta di attenzione! (in italiano ohilà).
[12] Ti saluto Ninetta (o Ciao Ninetta) è una locuzione molto usata, sia in dialetto che in italiano, almeno per le mie esperienze milanesi e oltrepadane. Essa sta ad indicare una condizione definitiva e ineluttabile, specie se a seguito di un pericolo scampato ed è, proprio per questo, preceduta normalmente da se o altrimenti. In italiano, ma fuori Lombardia, la locuzione, perde probabilmente il rafforzativo locale di Ninetta e (scivolando magari in Addio!) viene usata nelle frasi del tipo: Meno male l’ho trovato, se no ciao! Il nome di Ninetta potrebbe risalire alla popolare opera poetica di Carlo Porta La Ninetta del Verzee, in cui la protagonista, a seguito di vicende avverse, è costretta ad una drammatica presa di coscienza della condizione in cui è finita.
[13] Emerge spesso in questi Diari lo spirito di corpo e l’orgoglio di appartenenza e alla specialità dei Bersaglieri: a differenza del ripudio delle armi e della memoria quasi totalmente silenziata a seguito del trauma degli IMI, esso è stato dal papà invece conservato per tutta la vita ed a me trasmesso come fattore positivo di allegria, resistenza e coraggio. Il tutto simboleggiato indelebilmente dalle piume al vento e dal suono della fanfara e reso tenacemente (e miracolosamente) immune da ogni contaminazione bellica o di violenza, pur senza farne una mera rappresentazione coreografica: il richiamo positivo dell’invadente icona risorgimentale, a lungo presente sullo sfondo della mia vita, aiutò in entrambi i sensi.
[14] Non sono state trovate notizie relative a questo cognome, tranne un caduto nel 1941, senza indicazione di luogo e comunque ma scarsamente compatibile. Non presente tra i decorati del reggimento.
[15] Risulta difficile l’identificazione anagrafica e storica. Alcuni i nominativi di caduti teoricamente compatibili. Non presente tra i decorati del reggimento.
[16] PISSINIS GIOVANNI – 17/03/1916 – MONCRIVELLO – Data di Decesso/Dispersione: 21/02/1943 – Luogo Decesso: – Luogo Sepoltura: -. Sarebbe quindi caduto due anni dopo, mentre i reggimento era in Croazia. Mio padre ne ha conservato una fotografia (riportata a fianco), con una dedica del suo piccolo figlio sul retro. Il documento riporta, come molti altri conservati da Dante, il timbro del campo di concentramento: ciò vuol dire che egli la ebbe prima del settembre 1943 e che la conservò per tutta la prigionia. Il piccolo Gian Carlo aveva già un’età che gli consentiva di scrivere la triste dedica.
[17] ANSALDI MATTEO – 07/05/1919 – TORRE MONDOVÌ – Data di Decesso/Dispersione: 15/08/1942 – Luogo Decesso: JUGOSLAVIA – Luogo Sepoltura: – . Caporal Maggiore – Decorato con Croce di Guerra al Valor Militare – Monte Furka 15-21 novembre 1940
[18] PISONI DOMENICO – 10/12/1919 – MAGNAGO – Data di Decesso/Dispersione: 19/04/1941 – Luogo Decesso: ALBANIA – Luogo Sepoltura: –
[19] L’identificazione proposta risulta dalla ricerca tra i nominativi dei caduti, con una probabilità non assoluta ma elevata. Non presente tra i decorati del reggimento. ASSANDRI TOMMASO – 21/05/1916 – PONZONE – Data di Decesso/Dispersione: 11/06/1943 – Luogo Decesso: – Luogo Sepoltura: -. L’episodio qui riportato da mio padre è ripreso in Note e Riferimenti, con il titolo de “La scarpa slacciata”.
[20] Si tratta del maggiore Mennuni, già citato in precedenza
[21] Si tratta di bombardieri Junkers Ju 87 – Stuka (in tedesco Sturzkampfflugzeug, “aereo da combattimento in picchiata”). Nel 1940 circa cento esemplari di Ju 87B-1 furono acquistati in Germania e soprannominati “Picchiatelli”,
[22] Nino Nagel (già citato nel Quaderno I) presso cui lavorava a Milano la sorella Rosa. Nel dopoguerra fu commendatore e assunse Dante in una sua azienda, la SIOS (Società Italiana Officine Serbatoi), nella quale il papà lavorò fino al 1956.
[23] Capitano FAVILLA BENIAMINO – Decorato con Medaglia di Bronzo – Alture di Mali Vlaj (fronte jugoslavo) – 10 aprile 1941


L’offensiva e la vittoria!
Nel pezzo che segue, Quaglino fa il racconto degli avvenimenti dei giorni tra il 13 e il 22 aprile 1941. Frammisto alla narrazione degli atti bellici, risulta un condensato di enfasi e retorica tale da avvicinarlo di molto a un cinegiornale dell’epoca, nel quale la propaganda e il trionfalismo superano anche gli ampi limiti concessi dai più benevoli e comprensivi lettori. Si possono e si devono raccontare il coraggio, il senso del dovere (a prescindere), il dolore, la fame, il freddo, il sacrificio, l’eroismo, la morte, di gloria; si può prescindere dal contesto storico, costituito dallo scimmiottamento di Hitler da parte di Mussolini, dall’aggressione immotivata ad un paese neutrale, dal disastro strategico e logistico, dall’indottrinamento inevitabile di cittadini e soldati: ma lasciamo perdere Cristo risorto per ammirare “movimenti accuratamente predisposti e concepiti”!
Si ripresenta ancora il quesito, già accennato in altre parti dei Diari di Dante, relativo alla mancata (o volutamente omessa) revisione critica da parte di Quaglino della narrazione memorialistica del suo libro, pubblicato negli anni Settanta, trent’anni dopo gli eventi narrati: aveva scritto tutto “in diretta”, al momento degli aventi o nella successiva immediatezza e poi non vi ha più messo mano, nemmeno alla luce di una inevitabile rivisitazione storica, oppure ci credeva ancora veramente, senza condizionamenti o obblighi contingenti?
La risposta è difficile, anche leggendo il libro per intero e quindi non solo i brani che accompagnano la trascrizione dei Diari di Dante: essa è anzi resa ancor più complessa dalle diverse situazioni in cui paiono, talora e da un lato, confermati l’adesione acritica al fascismo e il conformismo nazionalista, accanto ad altre, dove si palesano solo sano patriottismo e lecito orgoglio bersaglieresco, fattori questi che prevarranno nell’accompagnare il XXIX battaglione, che, scampato alla deportazione, affiancherà gli Alleati nella campagna di liberazione contro i tedeschi nel 1944-45.
L’offensiva vittoriosa contro i greci
13 aprile! Chi può dimenticare questa data? Mentre ovunque nel mondo cristiano si inneggia al Cristo risorto, qui la Pasqua è ancora una delle tante giornate di passione e sangue. Tutto l’esercito italiano d’Albania scatta oggi all’offensiva su tutto il fronte, dal lago d’Ocrida all’Adriatico con tutto l’impeto dei suoi mezzi e la determinazione dei movimenti accuratamente predisposti e concepiti. Ha inizio così un movimento di avanzata generale che durerà circa dieci giorni, sino al momento in cui all’esercito greco non rimarrà altra salvezza che la resa incondizionata. Al 4° bersaglieri, che rappresenta il reparto più esterno dell’ala marciante della IX armata, è affidato il compito di punta avanzata di tutto lo schieramento, contando essenzialmente sulle virtù caratteristiche dei bersaglieri: ardimento, velocità ed eroismo, sino al sacrificio.
Appena viene dato l’ordine di avanzata, una colonna di autocarri, messi a disposizione dal comando di corpo d’armata di sede a Librashd, carica velocemente le biciclette che erano rimaste tutto l’inverno all’aperto in un prato della stessa località e li riporta in linea, affinché una buona parte dei reparti possa disporre anche di questo mezzo di trasporto. E i bersaglieri riprendono le biciclette, le vecchie gloriose biciclette, anche se un po’ arrugginite, anche se qualcosa non è perfettamente a punto e avanti contro il nemico. Avanti giovani di leva, avanti i trattenuti, avanti richiamati del ‘16, del ‘, del ’10, anche se le gambe si sono un po’ intorpidite, anche se la sella sembra ora troppo dura, anche se da parecchio si è persa l’abitudine di andare in bicicletta, su quelle biciclette… Avanti dunque, anche se la via sarà segnata ancora di sangue: tutte le vittorie i bersaglieri le hanno raggiunte a prezzo di eroismi e sacrifici.
Il colonnello Scognamiglio marcia in testa al reggimento. Non si contano più le veglie, le soste, gli ostacoli da superare, da aggirare, sempre sotto il fuoco del nemico, pur di proseguire. Sono dieci giorni di avanzata continua, ma soprattutto di furiosi combattimenti, poiché il nemico non si è lasciato sorprendere ed ha predisposto anche un ripiegamento ordinato, sperando di fermare gli italiani forse nella strettoia di Ponte Perati. Così, sempre combattendo accanitamente, i greci ripiegano a poco a poco, cercando di ritardare la nostra avanzata, sia con un potente appoggio di artiglieria e mortai, sia con le divisioni di retroguardia, sia anche con numerose interruzioni, già da tempo predisposte, facendo saltare dietro di sé ponti e passerelle, e ritirando tutto il materiale possibile. Le divisioni lasciate a retroguardia sono costituite dalle migliori truppe greche che, munite di armi automatiche, mortai, pezzi anticarro e poste a guardia dei nodi stradali e delle più rovinose interruzioni, cercano sino all’ultimo di permettere di condurre in porto il ripiegamento dell’intero esercito greco. Questo per dire quale barriera di ferro e di fuoco si presenta davanti ai bersaglieri, i quali ad ogni costo devono raggiungere il confine greco il più celermente possibile.
Il giorno 15 aprile il 4° bersaglieri entra per primo a Corizza, la cittadina che aveva abbandonato come ultimo nel novembre scorso. Dopo una giornata di sosta forzata, sotto il tiro rabbioso dell’artiglieria nemica che spara continuamente e dopo una notte sotto la pioggia, il 17 Aprile l’avanzata prosegue. Sì attraversa la piana di Corizza sempre sotto il fuoco dell’artiglieria che batte tutta la zona; il terreno paludoso e fradicio di pioggia ci salva da qualche proiettile che affonda nel fango, inesploso. Si raggiunge Quafa e Quarrit, ove ci si appronta a difesa e si trascorre la notte ancora sotto la pioggia. Il 18 aprile si raggiunge Eseke, sempre combattendo accanitamente. Con quale animo, con quale entusiasmo e commozione si ripassa per quelle valli che a novembre erano state teatro del nostro sfortunato valore, quelle località che avevamo dovuto abbandonare davanti alla preponderanza del nemico e nelle quali tanti bersaglieri caduti avevano atteso fiduciosi che compagni d’armi tornassero sul luogo del loro sacrificio!
Ed oggi sono tornati. Se anche ora non c’è tempo per andare a cercare negli improvvisati cimiteri di guerra, nelle tombe isolate e nei tumuli sconosciuti le salme dei bersaglieri morti o dispersi all’inizio dell’inverno, pure risentiamo che essi ci sono vicini e ci indicano la via della vittoria. Purtroppo questa via è ancora cosparsa di sangue. Morti e feriti segnano il cammino della nostra avanzata, ma i bersaglieri attaccano, contrattaccano continuamente ed avanzano. Il 19 aprile il reggimento prosegue verso Borove, ove a quota 1050 sostiene la più accanita battaglia di questa primavera. I greci ci prendono d’infilata nel canalone e ci obbligano a fermarci. Alle undici viene dato l’ordine di proseguire, ma l’avanzata significa una morte sicura. Un reparto di milizia tenta il passaggio: nessuno torna indietro.
Intervengono i nostri aerei che iniziano un bombardamento sulle posizioni nemiche. Ciononostante il fuoco delle artiglierie greche continua rabbioso e causa continue perdite. Alle diciotto il colonnello comandante è ferito da un colpo di mortaio. Siamo però alla fine. Dopo un’ultima notte d’inferno, la resistenza greca è finalmente spezzata. Il nemico è in fuga ed i nostri bersaglieri li inseguono, mentre la compagnia motociclisti, più veloce, raggiunge Ponte Perati, ove si incontra con le colonne tedesche. La vittoria è raggiunta. Ai greci che. di fronte all’avanzata delle nostre truppe operanti in cooperazione con le truppe tedesche, si sono visti ad un dato momento preclusa ogni via di scampo, essendo andata in frantumi quella che essi speravano essere la linea di resistenza Jonio- Egeo, non rimane che scegliere tra la distruzione o la resa. Il 22 aprile essi si arrendono senza condizioni.
Termina così la Campagna d’Albania, con un nuovo serto di gloria per il 4° bersaglieri, citato due volte in quei giorni dal bollettino di guerra per il suo valore ed il suo magnifico comportamento.
4° REGGIMENTO BERSAGLIERI
ORGANIZZAZIONE OPERATIVA 1940-1943
XXVI battaglione
- 1a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 4a compagnia mitraglieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- Compagnia comando di battaglione
XXIX battaglione
- 5a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 6a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 7a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 8a compagnia mitraglieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- Compagnia comando di battaglione
XXXI battaglione
- 9a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 10a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 11a compagnia fucilieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 12a compagnia mitraglieri
- 1° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 2° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- 3° plotone (1a squadra – 2a squadra – 3a squadra)
- Compagnia comando di battaglione
- Compagnia motociclisti
- Compagnia comando reggimentale
Dante comanda la terza squadra del primo plotone della quarta compagnia mitraglieri del XXVI battaglione.
L’offensiva e la vittoria secondo Scalone.
Qui di seguito, nel racconto di Scalone, i drammatici giorni all’inseguimento dei greci. Come al solito, la narrazione è molto più stringata di quella di Dante, con meno riflessioni e testimone di una condotta più “solitaria”. Ma la resa drammatica è la stessa, nel procedere sincrono degli avvenimenti narrati.
Notevole, secondo me, la riflessione che Scalone riporta verso la fine, in poche righe (in grassetto): ancora stordito dai dolorosi echi della battaglia, riesce a fornire un’analisi dal valente taglio storico dei fatti appena narrati.
Anche Scalone sotto il tiro dei greci.
La mattina del giorno di Pasqua, il 13 aprile dormimmo fino a tardi, poi una tromba suonò la sveglia tutti ci alzammo e ci preparammo a ricevere il rancio. Proprio mentre eravamo intenti a consumare il pasto, giunse un’autocolonna con sopra tutte le biciclette del 4° reggimento bersaglieri ciclisti.
Appena finito di mangiare, ci diedero l’ordine di andare a ritirare ognuno la propria bicicletta, di portarla presso la propria tenda, di disfarla, di affardellare biciclette e di tenerci pronti a partire. Portammo le biciclette sulla strada appoggiandole per due, una contro l’altra. Mentre aspettavamo l’ordine di partenza, radio fante comunicava che la partenza era per il fronte greco. Pensavamo di ritornare nuovamente sul Monte Kalase, vicino a Pogradec. Alle quindici di quel giorno di Pasqua ci rimettemmo in marcia in sella le nostre biciclette.
[….]
La notte dormimmo a Pogradec, mentre la mattina del 14 aprile ci rimettemmo in marcia: ma tutti i ponti, anche i più piccoli, erano stati minati e fatti brillare dagli dai greci in ritirata.
[….]
Alle due di notte del giorno 15 aprile passammo dalla città di Corizza, deserta e muta e con le luci accese, esattamente come l’avevamo lasciata nel corso della ritirata di novembre. I magazzini militari erano ancora fumanti, perché i greci, prima di andare via, li avevano incendiati.
Alle prime luci dell’alba del giorno arrivammo a Drenova, circa 20 km dopo Corizza, dove finisce la pianura e incomincia la collina, lungo la strada che va a Erseke. In quel punto i nostri esploratori erano stati fermati a colpi di fucile dei greci. Il capitano, allora, ci fece lasciare le biciclette e ordinò di caricare tutto il fardello in spalla per proseguire a piedi. Andando avanti, un bersagliere esploratore di punta intravide qualche cosa assomigliava a una postazione al margine della strada, proprio dove il terreno cominciava ad essere collinoso. Il bersagliere sparò un colpo di fucile contro quella postazione e fu allora che i greci risposero con violenza con tutte le armi a loro disposizione. Ci disponiamo a ventaglio sul ciglio della strada che costeggiava un burrone, dove meglio ci potevamo riparare e rispondere ai greci con le nostre armi. Così per tutta la giornata restammo fermi, eccetto piccoli spostamenti per modificare il nostro appostamento. Il camion che avrebbe dovuto portarci da mangiare era stato colpito dall’artiglieria greca e noi dovevamo mangiare gallette e scatolette di riserva. La sera appena fece buio andammo avanti, arrivando al margine della collina dove abbiamo poi trovato un grosso fossato anticarro, che non si poteva attraversare neanche a piedi. Quindi tirammo fuori i picozzi, scavando una scaletta nella terra e da lì passammo in fila per uno. L’attendente del capitano scivolò, piombando nel fosso e, credo, rompendosi una gamba, perché non l’ho più visto. Dopo aver passato il fossato ci si pone in fila per squadra, distanziati di circa dieci metri l’una dall’altra. Il capitano era davanti al centro, seguito da una squadra. Questo spiegamento ordinato dal capitano non era condiviso da tutti e così si andava avanti con la paura addosso di trovarci di fronte al nemico da un momento all’altro. Andavamo avanti con precauzione, gli occhi aperti, le orecchie tese e ognuno di noi scrutava l’orizzonte nella notte, attento ad avvertire ogni piccolo suono o movimento. Ad un certo punto, raggiunto un cucuzzolo, sentimmo una voce della quale non si capì il significato. Tutti ci buttammo per terra, tranne il capitano, che era abbastanza anziano e duro di orecchie e che non aveva sentito nessuna voce, continuando a ripetere di andare continuava a ripetere di andare avanti, ché non c’era nessuno. Nel frattempo una raffica di mitraglia sfrecciò sopra le nostre teste, seguita da un nutrito lancio di bombe a mano. Noi rispondemmo al fuoco, mentre il capitano e la squadra che lo seguiva rimasero nel bel mezzo tra noi e i greci. Fortunatamente i greci, al primo impatto, piantarono tutto e scapparono, ma purtroppo il capitano rimase leggermente ferito e dovette lasciare il comando della compagnia all’unico tenente rimasto nella nostra compagnia. Siccome i greci erano scappati, andammo avanti, trovando alcune armi e i letti ancora caldi.
Continuiamo ad andare avanti per circa un kilometro e proprio dopo la cresta di quella collina trovammo un altro fossato, oltre il quale si udivano le voci di persone e il nitrito di cavalli e di muli. Ci siamo disposti lungo il margine di quel fossato, erano le tre della notte e nel buio non si vedeva niente, ma, dal fracasso che si udiva, era facile immaginarlo. Un rumore di macchine e cose che venivano caricate e sopra c’era anche un mortaio che sparava continuamente: si sentiva anche il rumore di chi prendeva le granate dal mucchio e le calava nella canna del mortaio. E poi cingoli di carri e macchine che arrivavano e partivano. I colpi sparati dal mortaio ci passavano sopra, le briciole della polvere dei lanci delle granate ci cadevano addosso. Sparavano in direzione del punto nel quale si aspettavano che ci trovassimo, perché, evidentemente, l’avamposto greco che avevamo affrontato poco prima aveva segnalato la nostra posizione. Noi però eravamo avanzati ulteriormente ed adesso ci trovavamo lì, a meno di cento metri da loro. Tutta la compagnia era in posizione, con le armi puntate e pronte a fare fuoco su di loro, ignari della nostra presenza. Purtroppo il nostro comandante ordinò di non sparare: il posto era un passo obbligato, si chiama Passo Drenove e rimanemmo lì fino alla mattina seguente, quando ci rendemmo conto che i greci erano si erano ritirati e davanti a noi era rimasto solo il materiale che non avevano potuto portarsi dietro.
Era il 16 aprile 1941 e quel giorno rimanemmo fermi a Passo Drenove, finché non arrivò il grosso del nostro battaglione, mentre gli altri due battaglioni operavano uno a destra e l’altro a sinistra di esso. La mattina del 17 aprile il nostro battaglione si mosse lungo la strada per Erseke e dopo aver percorso circa 40 km entrammo nel raggio d’azione dell’artiglieria greca. Avevamo nel frattempo raggiunto il paese di Erseke, un paese agricolo molto importante e molto frazionato. La sera rimanemmo arroccati nei dintorni di Erseke e la mattina dopo si riprendeva l’avanzata. Subito dopo quel paese c’era circa un kilometro di pianura, mentre il terreno attorno era montagnoso e l’artiglieria greca era appostata lì. Era in quel punto che ci aspettavano: ormai per loro la guerra era perduta e i tedeschi, da est, avevano già occupato Atene. Si erano appostati lì, in quel susseguirsi di colline con il fermo proposito di darci l’ultima lezione. Spinti dal desiderio di lasciare un segno nella guerra italo greca, i nostri alti ufficiali vollero che ci spingessimo contro le postazioni greche. I greci erano in ritirata, sarebbe bastato attendere qualche giorno e sarebbero andata via definitivamente. Non fu così!
La mattina del 18 aprile ci ordinarono di attraversare la pianura, allo scoperto e sotto il tiro dell’artiglieria greca. Iniziamo a passare uno ad uno, i greci intanto prendevano di mira con i cannoni ogni singolo bersagliere che corresse nella pianura. Era una macabra lotteria, una sorta di tiro al piattello e ogni tanto qualcuno di noi cadeva colpito dalle granate. Io, di prima mattina, incominciai a girare per il paese. La gente era tutta chiusa in casa. Passando vidi una casa sventrata da una granata e guardai dentro. rendendomi conto che era una bottega. Dentro trovai tante caramelle e biscotti, riempii il tascapane e andai via. Nel frattempo temporeggiavo, non mi andava di far parte di quel tiro al bersaglio, ma la sera all’imbrunire anch’io attraversai correndo la pianura. Però quella sera rimasi diviso dalla mia squadra e andai a rimpiazzare i mitraglieri di un’altra squadra. La sera e tutta la notte servì per ritrovarci e riorganizzarci. Avevamo raggiunto Borove, una borgata situata all’inizio della salita, ai piedi della montagna dopo la pianura di Erseke e le batterie dell’artiglieria greca erano qualche centinaio di metri dopo. Alle prime luci del 19 aprile il nostro battaglione, comandato dal maggiore Mennuni, si rimise in cammino lungo la costa di quella montagna. Quella mattina c’era nebbia che limitava fortemente la visuale e, dopo che tutto il battaglione si era allungato lungo la collina, il maggiore ordinò di avanzare frontalmente. Ci addentrammo in quelle insenature collinose, ma ad un tratto la nebbia svanì e i greci erano ancora lì ad aspettarci. Iniziò un fuoco incrociato, ci sparavano da tutti i lati, fu un momento drammatico: ci siamo buttati a terra, così, dove e come ci trovavamo, per toglierci dal facile bersaglio del nemico. Chi si trovò a portata di qualche sasso o qualche fosso vicino ne approfittò per mettersi al riparo. Io mi trovavo vicino ad un cespuglio e mi ci sono cacciato dentro. Lì però non mi sentivo al sicuro, la battaglia infuriava e, prima di sparare un colpo rivelando la mia posizione, dovevo cercare di mettermi in una posizione più riparata dalle pallottole. Restando sdraiato per terra raccolsi tutte le pietre che si trovavano a portata di mano, in modo da costruire un muretto a forma di ferro di cavallo. Quel muretto mi consentì di ripararmi e di piazzare il fucile mitragliatore e iniziare a sparare verso le postazioni greche. Loro non si vedevano, erano appostati ben nascosti nella sommità della collinetta sopra di noi, in posizione dominante. Ad un certo punto notai la fiamma della bocca di fuoco di una mitraglia e allora puntai il mio fucile mitragliatore e sparai alcuni caricatori. A quel punto anche loro mi individuarono, puntandomi contro una loro mitragliatrice e sparando di continuo, finché non si furono accertati che da lì non proveniva alcun altro sparo. In verità io non sparavo più per far credere di essere morto, mentre invece mi ero appiattito addosso a quel muretto con tutto il corpo, mentre le pallottole fischiavano attorno, in parte bloccate dal muretto, mentre altre sfioravano il muretto sopra la mia testa, facendo svolazzare il piumetto di penne di pavone fissato sull’elmetto. Rimasi immobile, perché era impossibile della mia postazione contrastare la mitragliatrice greca; così ogni tanto infilavo la mano al mio tascapane, tiravo fuori caramelle e biscotti che avevo trovato a Erseke e non sparai più, nemmeno quando il maggiore, che era ben accostato ad un bel masso, molto grande e distante circa cento metri da me e che continuava a gridare verso di me, mi chiede perché non sparassi. Gli risposi che si era inceppato, anche se a quel punto nessun altro sparava, neanche il nemico, non vedendo più nessuno muoversi.
Verso mezzogiorno, il mio caro amico Sireus, che si trovava circa cinquecento metri più avanti di noi, vicino al tenente che comandava la compagnia, fu da questi comandato di portare un biglietto al maggiore. Lo vidi che veniva correndo come una lepre, mentre tutto intorno a lui piovevano pallottole e io mi stringevo il cuore, guardandolo con il presentimento di vederlo stramazzare al suolo da un momento all’altro, mentre lui continuava la sua corsa sfrenata. Quando arrivò ad una cinquantina di metri da me si fermò dietro un sasso per riposarsi e per ripararsi nelle pallottole…
[….]
Ad un certo punto riuscii ad appisolarmi qualche attimo, vinto dalla stanchezza del sonno perduto nella notte precedente: mi addormentai come se fossi coricato in un bel letto di piume, ma in realtà mi trovavo, da più di mezza giornata, con la pancia a terra, indolenzita e dura come una pietra per tutte le caramelle che avevo mangiato e attorno le mitragliatrici greche, pronte a farmi secco al primo cenno. Verso le 15 di quel pomeriggio fui svegliato dalla terra che tremava e dal boato delle bombe che scoppiavano. Alzai gli occhi verso il punto dove si trovavano i greci e vidi quattro nostri aerei che sorvolavano le postazioni nemiche e che buttavano bombe e mitragliavano: erano venuti in nostro soccorso, per salvarci da quella situazione di stallo e per circa un’ora continuarono a buttare bombe e a mitragliare.
Intanto il maggiore ordinò di andare avanti, andai avanti anch’io, trovai il mio caposquadra, e poiché la notte non sarebbe tardata ad arrivare, decidemmo di non proseguire. Così fecero tutti gli altri: l’ordine del maggiore era caduto nel vuoto. I greci a seguito del bombardamento si erano ritirati forse rompendo le righe punto di fatto il loro comando generale non esisteva più punto
Alla fine venne la sera di quel brutto giorno teatro di una violentissima battaglia, nella quale tanti bersaglieri erano caduti. Ora del nemico non si sentiva più nulla: la mia compagnia si riunì per contare i morti e feriti ed io me ne stavo in disparte, memtre tra loro parlavano di chi fosse morto.
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I morti e i feriti di quella giornata nella sola settima compagnia, la nostra, furono quindici. Lo stesso colonnello Scognamiglio, comandante del reggimento, era stato gravemente ferito da una granata mentre si stava trasferendo a Erseke ed era stato trasportato all’ospedale; ma poi si seppe che era morto, guadagnandosi per il suo sacrificio la medaglia d’oro al valor militare e l’agognata gloria.
L’indomani, giorno 20 aprile, rimarremo fermi su quella altura, mentre nel frattempo anche noi venimmo a sapere che la Grecia era stata attaccata dai tedeschi dalla frontiera Jugoslavia e della Bulgaria: ora si trovavano nei dintorni di Atene e l’esercito greco era in disfatta e allo sbando. Intanto Radio Fante faceva girare tutte queste notizie a gruppetti e noi andavamo parlando come storditi, smaltendo le fatiche e i colpi del giorno precedente.
Quelle enormi perdite umane forse erano state pretestuose, molti di noi pensavano che ce le avessero volute imporre i nostri comandanti, per desiderio di gloria e perché convinti che l’unico modo per poter aver riconosciuto il proprio valore era quello di far trucidare tanti bersaglieri, a dimostrazione di una grande battaglia. Invece, così come fu fatto, fummo quasi mandati allo sbaraglio vivo la contro un nemico ben piazzato ed in posizione, con tanti uomini e armi e per di più con una grande rabbia addosso. Loro si stavano ritirando non solo perché battuti dall’esercito italiano, ma anche perché nel frattempo la Grecia era stata attaccata dalle colonne corazzate tedesche: mentre loro combattevano contro gli italiani in territorio albanese, i tedeschi stavano occupando la loro patria. Ora tutto taceva: i greci, dopo averci assestati quegli ultimi colpi, erano andati via, alle loro case. Ma in noi c’era ancora lo strepitio delle mitraglie, dei cannoni e dei mortai del giorno prima e, ancora più doloroso, il triste ricordo dei tanti compagni morti, con i loro nomi che si allineavano nelle nostre menti e questo ci provocava non poca rabbia.
Si parlava anche di una prossima partenza per andare alla sfilata di Atene insieme ai tedeschi. Infatti la sera venne un’autocolonna di camion che ci caricò, portandoci nella città di Corizza. L’indomani tutti coloro che furono scelti per questa missione, tra i quali anch’io ed altri miei compagni, furono portati al magazzino vestiario. Lì vicino non c’erano anche i bagni: ci levammo i panni di dosso, buttandoli a mucchio, ci lavammo e indossammo i nuovi. In quei giorni a Corizza c’erano sei battaglioni diversi, un battaglione per ogni arma, che si stavano preparando per la sfilata ad Atene: un battaglione di bersaglieri, uno di fanteria, uno di alpini, uno dei carabinieri, uno dei granatieri e uno di camicie nere.
ATENE!
IL RACCONTO
Giorno 22 aprile, arriva il caffè, mi prendo due gavette e vado vicino alle marmitte, arriva il tenente e a chi sembrava lui, marcava: «Tu, tu, Tizio, Caio, Sempronio, prendete il caffè e preparatevi tutta la roba, ché fra mezz’ora andremo sulla strada e poi sapremo cosa dovremo fare». In quattro e quattr’otto a posto, un salto a sciacquarci la faccia e siamo pronti: adunata e si parte. Dopo un duecento metri ci fermiamo fuori dalla strada ad aspettare: se ne sentivano di tutte le sorti, ma di sicuro non sapevamo niente; solo ci rattristavamo per il posto dove ci trovavamo, proprio al municipio di Erseke, dove il giorno 18 tanti compagni tornarono qui feriti. Coraggio, speriamo che tutto sia passato! Intanto mi decisi a scrivere una cartolina alla sorella Rosa, che non avrà altro desiderio di sapere come mi trovo: passò un portaordini dei bersaglieri, consegnai la cartolina e lui mi assicurò che dopo dieci minuti sarebbe stata imbucata. Arrivò un motocarrello che ci portò della Chiarizia ed intanto si era ormai certi che lì aspettavamo l’autocolonna che ci avrebbe portato a Corizza e che poi si doveva partire per Atene. Giungono gli autocarri, si sale sopra e si parte; durante il viaggio tutti guardavamo di qua e di là, ognuno pensava a quel punto e a quel posto e sì rammentava tutto il passato dei giorni disagiosi[1] della guerra.
Siamo a Corizza, scendiamo e ci mettono a dormire dentro ai capannoni. Come è ormai nostra abitudine, dove andiamo c’è da pulire: con pazienza e coraggio si fa pulizia, poi ci mettiamo a posto la nostra roba e non si attendeva altro che l’ora della libera uscita per andare a spendere un po’ di lek. Esco con l’amico Ansaldi, andiamo qua, andiamo là e in poco tempo più di 100 lek a testa erano spariti. Cosa avevamo preso? Due bottiglie di moscato, un po’ di paste è pochissimo di altro: va bene, non importa, la nostra idea era questa e dunque non bisogna essere pentiti. Viene l’ora per rientrare e ci incamminiamo allegri: andiamo di qua andiamo, andiamo di là, ma non siamo sulla strada giusta; infine, dopo tanto girare, ci siamo trovati nella caserma senza accorgercene e andiamo a dormire.
Giorno 23 aprile, abbiamo il nostro caffè e poi incomincia la distribuzione della roba: sono tutti contenti non per essere vestiti di nuovo, ma solo per liberarsi un po’ dai pidocchi. Abbiamo in consegna tutta la nostra roba e via nel torrente a lavarci: l’acqua era fresca ma solo il desiderio di pulirsi… Così ci spogliamo nudi e andiamo dentro. Tutto fatto, ci prendiamo la nostra roba e la buttiamo nel cortile, là, tutta in un mucchio. Tutti gli altri soldati andarono a scegliere oggetti di corredo che più o meno gli potevano servire. Il pomeriggio ci danno due tascapani per metterci tutta la nostra roba e anche oggi passò. Andiamo a fare un altro giro, tanto i lek erano in tasca e lascia che vadano. Siamo allegri, rientriamo.
Il giorno 24 aprile fanno adunata verso le 9, ci dànno in consegna un sacco da alpino e ci ritirano i due tascapani, che erano troppo scomodi. Non abbiamo ancora finito di mettere tutta la nostra roba a posto, che arriva l’ordine di farci il rotolo e si parte. Dove andiamo? Passiamo davanti al campo di aviazione e vediamo gli altri battaglioni che, anche loro destinati ad andare a fare la sfilata, stanno facendo ordine chiuso[2]. Forse andiamo bene! La guerra è veramente finita da poche ore e cosa vuoi? Bisogna tenersi allineati, altrimenti non è più naia. Intanto sono accidenti che si mandava a tutti. Dopo si fanno tutti gli attendamenti e in un bel campo ci facciamo anche il nostro. Intanto ci spiegano l’ordine del nostro servizio: siamo a posto! Peggio delle reclute! Accidenti ad Atene e a chi l’ha piantata! La giornata passò.
Giorno 25 aprile, ci alziamo, ci andiamo a lavare, un po’ di qua, un po’ di là e il tempo passava. Sapevamo che al pomeriggio c’era la prova di sfilata sul campo d’aviazione. Andiamo bene. Prima ci hanno distribuito un buon numero di cartoline e poi tanti viveri di riserva. Forse domani si parte. Intanto viene il maggiore De Martino a fare una visita e le solite raccomandazioni, avanti march e andiamo a fare la prova. Prova una volta, prova due, ogni battaglione aveva una cadenza diversa una dall’altro e mai andava bene: alla fine dei conti, si sfila battaglione su battaglione e noi che non avevamo allenamento eravamo quelli che andavano meglio di tutti: solo essere bersaglieri, poi, è basta!
Il 26 aprile mattino, armi e bagaglio, avanti march, entriamo nel campo, tutta l’auto colonna è pronta e alle 10 l’autocarro in testa parte. Tutta la giornata e la notte fino alle 11 del 27 aprile gli autisti rimasero al volante. Di tanto in tanto qualche alt per fare la pisciata, bene, già lo sappiamo che per riposarci dobbiamo farci la tenda e più presto facciamo meglio è, tutto nel nostro interesse. Di andare in libera uscita a girare il paese manca la voglia, poi il paese è piccolo e andiamo a dormire. Ma già sappiamo che l’indomani giorno 28 aprile, alle 7, si doveva partire. Suona la sveglia, in dieci minuti di buona volontà è tutto a posto, facciamo adunata vicino al nostro solito autocarro e, all’ordine, si sale e si parte.
Raccontare la fame che abbiamo fatto durante quel viaggio è incredibile. Per fortuna che buona parte dei campi greci erano pieni di cipolle, anche se non tutte le volte che la colonna si fermava ce li trovavamo di fianco. Ma qualche volta capitava e allora giù a fare la provvista, poi via cipolle e galletta! Non parliamo del materiale distrutto ai lati della strada. Era una fila sola cannoni carri armati, corriere, cavalli e muli morti: era un disastro. Arriviamo poi a Larissa, detta città del tramonto, che però, per quanto fatto dagli Stuka germanici, era veramente un disastro: non più una casa in piedi, un grosso ponte che i malvagi han fatto saltare per impedire il nostro inseguimento, ma che in poco tempo dal nostro genio fu ricostruito con del legname e sempre avanti… Per un buon numero di chilometri si costeggia il mare, quanto mai bello. La giornata era calda e si vedevano di tanto in tanto accampamenti di truppe germaniche, tutti i liberi dal loro servizio, tutti in mutandine, tanti a fare il bagno: altro che essere alle armi, erano in villeggiatura!
Sono le 13 del giorno 29 aprile e ci fermiamo al paese di …[3] un bel paesetto, ma tutto disabitato. Ci portiamo lontano un duecento metri a fare l’attendamento. Fattaci la tenda, si parte a cercare di mangiare. Entriamo in una casa, troviamo dei bidoni di olio d’oliva, prendiamo una pentola e la riempiamo. Fuori di lì, dentro in un altro posto. Troviamo delle galline, ne prendiamo tre e un bel gallo. Allora bisogna trovare le padelle, dentro nella casa prendiamo la padella e ora siamo a posto. Di ritorno all’accampamento, tutti all’opera a preparare da mangiare. Parte uno a cercare del pane e torna dopo una mezz’ora con una pagnotta che pesava più di cinque chili. Alle 4 avevamo due galline da papparci e in più avevamo preso anche il riso, fatto dai nostri cucinieri. Finita la mangiata, replica a cuocere le altre due, perché sapevamo che al mattino prossimo c’era da ripartire. Il Martinelli era da cuoco, gli altri a lavarsi per bene. Andiamo a dormire.
Suona la sveglia, è il 30 aprile: si parte e per tutto il giorno si viaggiò fra le campagne, le strade fatte dai carri armati tedeschi, campi di grano larghi e lunghi a vista d’occhio, il grano giallo quasi pronto da mietere. Ci fermiamo la sera dentro ad un oliveto, facciamo le tende e subito a dormire: ormai è già buio, il paese non c’era.
Sono le 8 del 1° maggio 1941 e la colonna parte. Dopo un dieci chilometri entriamo in una corona di montagne, montagne famose ma tutte coperte di olive, strada stretta, delle curve strettissime e per otto ore si viaggiò in quel modo. Sono le 16 ed entriamo in una bella pianura, con una bella strada lunga e incatramata, con un po’ di sollievo per gli autisti. Sempre olive da tutti i lati e, dopo un sei chilometri, troviamo qualche bella villetta con giardini incantevoli, sempre più numerose, messe una accanto all’altra in un modo che erano qualche cosa di ammirevole. Fino alle 21 si viaggiò, vedendo ville una più bella dell’altra. Alle 21 e 30 l’autocolonna si ferma e lì, ai lati della strada, facciamo la tenda.
Giorno 2 maggio: ci fermiamo lì e per fortuna che la tenda era stata fatta sotto d’un fico e così si passò tutta la giornata all’ombra. Però sapevamo che a mezzanotte dovevamo partire, per trovarci al mattino presto alle porte di Atene. A mezzanotte si parte, la strada è tutta piana, c’è un’aria bella fresca e si viaggiava che l’era un piacere. Sono le 7 e siamo alle porte di Atene: l’autocolonna si ferma, tutti a terra a fare la pisciata e a spolverarsi un po’. Dopo una mezz’ora gli autocarri si mettono in quattro, uno di fianco all’altro e pian piano ci siamo portati al centro della città. Sono le 8 e mezza, siamo fermi, passano tutte le truppe tedesche e noi aspettiamo. La nostra sfilata viene fatta sopra agli autocarri: più di duecento, a quattro a quattro,[4] se teneva lo stesso un bel tratto di strada! Tutta la popolazione a guardare, siamo fermi, mi trovo sull’autocarro di sinistra della fila di sinistra. Lontano tre metri c’è il baracchino dove vendono le sigarette. Mi viene in mente che in tasca ho dieci dracme, due monete che avevo preso nella casa dove abbiamo preso l’olio. Chiamo un bambino, gli consegno le due monete dicendo che mi prenda le sigarette e mi porta un pacchetto da dieci del Numero 22, che conservai fino al giorno della licenza, portandole a Stradella: il primo ricordo di Atene.
Incomincia la sfilata, noi si viaggiava sulla lunga strada e sopra uno stormo di apparecchi che rombavano, accompagnandoci per tutta la sfilata.[5]
A parlare di Atene non ci sarebbe mai la fine della spiegazione delle cose viste.[6]
Alle 14 eravamo al posto per fare la tenda, però cinque o sei chilometri di strada lontano dal centro della città. Fatta la tenda, tutti hanno l’intenzione di andare in libera uscita, ma per il momento non si può scappare. Solo alle 17 arrivò l’ordine che si poteva andare a visitare la città, ma, per quella sera lì, non sono uscito: la stanchezza pensava alla distanza e allora il guadagno nostro è rimanere e andarsene a dormire. Il giorno della sfilata è passato.
Il giorno 3 maggio 1941 passò e il giorno 4 maggio anche. Alla sera andiamo in libera uscita nel principio della città, cosa incredibile, La maggior parte delle donne ci scherzavano e ridevano delle piume che portiamo sull’elmetto: loro scherzavano e noi altrettanto. Abbiamo speso delle gran dracme, ma di buono e di bello poco o niente. Ritorniamo pure, tanto è tutto nostro guadagno.
Il giorno 5 maggio prepariamo tutto e poi si parte. Nel ritorno, per un buon tratto di strada, viaggiamo in città e buona parte della popolazione ci rideva alle spalle. Dopo quattro ore di viaggio ci fermiamo ad un bel paesetto, chiamato Laurio: non eravamo lontani dal mare un Duecento metri. Scendiamo e, proprio vicino alla strada, c’erano i locali per andarci a dormire. Erano tutti pieni di cemento e lì bisogna mettersi al lavoro; tutto fu liberato e ben pulito, ognuno si prese il suo posto per dormire e alla sera tutti in libera uscita. Tutte le botteghe del paesetto furono visitate, poi siamo andati a finire in una trattoria a mangiare e bere. Abbiamo preso una sbornia, ma di quelle proprio al 100%. Rientriamo, l’indomani facciamo il conto della spesa sprecata nella sbornia e, col conto giusto, non avevamo speso nemmeno 5 lec a testa: figuriamoci che il vino, detto crashi, costava lire 0,75 all’oca, che poi sarebbe un litro e un quarto. L’acqua veramente non si poteva bere perché era troppo salata e sempre potevamo bere del crashi.
La cuccagna di quel paese non si può spiegarla, perché sarebbe incredibile. Lì passano un quindici giorni e poi andiamo al dinamitificio a dare il cambio a una squadra della settima compagnia. Prima di andare in un posto, noi tutti abbiamo l’abitudine di lamentarci, ma dopo due giorni che eravamo là, si parlava sempre del modo di passare i giorni, lontano cento metri dalla spiaggia del mare. Sulla spiaggia ci stava un baracchino, dove si trova di tutto: con venti centesimi sì beve un vermouth, l’anice, il cognac. Ogni giorno venivano i pescatori e ci prendevamo i pesci; il padrone del baracchino li faceva friggere e poi si facevano delle mangiate di pesce che per tutta la vita saranno un ricordo.
Per noi era poco bello per le per la posta, perché potevamo farla spedire, ma non arrivava mai: pazienza, basta la salute.
Il giorno 3 giugno mi vengono ad avvisare che per le 15 dovevo rientrare all’accantonamento a Laurio senza aspettare cambio. Allora giù tutti a piantarci la rulotta tutto quello che c’era[7]e pulizia. Per quello del baracchino la nostra partenza restò la sua morte: addio smercio, per lui tutto era finito. Me lo ricordo alla nostra che piangeva come un bambino.
Siamo al nostro accantonamento, ci prendiamo il posto per dormire, aspettiamo l’ora del rancio e poi andiamo in libera uscita a completare l’ultima sbornia a Laurio.
Giorno 4 giugno: alle 7 arriva l’autocolonna, sopra e si parte a raggiungere il nostro reggimento che stava a Perrenjes, in Albania, che ci aspettavano a braccia aperte perché radio gavetta parlava che dovevamo rientrare in Italia. Nella mia vita non farò mai tanti chilometri in camion come quei due viaggi andare ad Atene e ritornare. Per tutto il giorno, la notte e fino al giorno 6 giugno alle 2 si viaggiò, passando da Florina, anche lì tutta distrutta come Larissa. Dopo fatta la tenda tutti a lavarci alla fontana che c’era a poca distanza e dove l’acqua sorgeva fresca e limpida.
Quel giorno mi sono arrabbiato un po’ con il comandante di plotone[8]. All’ora del rancio ci han fatto la pastasciutta, ne mangio una gavetta, ma mi sembrava poca. Vado in cucina a trovare l’amico Caldera e me ne riempie un’altra: abbuffatore e soddisfatto, ringrazio l’amico e me ne vado alla tenda. Suona la sveglia del giorno 7 giugno, all’opera, tutto è pronto, si va alla colonna, si sale e avanti verso i compagni che ci aspettano. Per tutto il giorno e la notte si viaggiò.
Sono le 8 del mattino del giorno 8 giugno e passiamo nella città di Corizza, città immemorabile. Alle 9 siamo a Pogradec, la città della radiola, nel mese di marzo, quando eravamo sul Monte Kalase, il monte di fango, e i signori greci, al mattino, prima di rimettersi a battere la montagna coi mortai, ci facevano sentire qualche canzonetta italiana con l’altoparlante, credendosi che loro la guerra l’avrebbero vinta, ma dovettero piegarsi. Dopo due chilometri da Pogradec troviamo il Ponticello dei bersaglieri, che farne un romanzo di tutto quello che è successo su quel ponte non basterebbe. Più avanti troviamo il cimitero dove tutti compagni gloriosi stavano per aver dato la loro vita per la patria. La colonna si fermò e tutti siamo andati a visitare i poveri compagni e il maggiore fa una breve raccomandazione riguardo a quello. Non parliamo del paese della morte, che era un chilometro prima del cimitero, Memlishta. Finalmente anche questo viaggio è terminato, sono le 10 e mezza, siamo a Perrenjes, dove tutti i compagni ci corsero incontro a salutarci. La radio era che non aspettavano solo che noi, perché dovevamo rimpatriare. Trovo l’amico Bertolotti e anche lui ci ha detto tutte le cose buone. Siamo alla nostra compagnia, Dante ritorna sempre alla sua squadra, che, con l’arrivo degli ultimi complementi, era arrivata alla bellezza di diciotto uomini.[9]
Dopo tanto chiacchierare coi compagni, tutto viene da sé, cartoline non ne mancano, diamo le notizie alle sorelle e ai parenti. Altra radio gavetta diceva che c’era da fare la sfilata davanti al generale Pizio Biroli[10] per la festa del reggimento, il 18 giugno. Prova e riprova, arriva anche quella festa. È da due giorni che piove e ancora continua. Niente paura, la sfilata fu fatta, la pioggia a catinelle, il generale pronuncia quattro parole del nostro del nostro passato, poi una bella cantatina e si rompono le righe. Quel giorno lì la squadra era di corvè per rancio e avevamo per noi doppia razione di tutti le sorti e di vino: e con questo, nel pomeriggio, tutta la squadra era allegra e cantavamo in compagnia della pioggia cadente.
Note
[1] Il dizionario Treccani riporta: diṡagióso aggettivo. [derivazione di disagio], non comune – Pieno di disagi, scomodo, o che reca molestia, malessere: Clemente comandò che fosse messo in una buia e d. prigione in Castel Sant’Agnolo (Varchi); ho fatto un lungo e d. viaggio (Botero).
Condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute. Quindi non solo Dante non s’inventa un aggettivo, ma ne fa un uso appropriatissimo, in quanto esso parrebbe voler descrivere uno stato derivante da sofferenza superiore a quella che di solito si attribuisce al sostantivo da cui deriva e del tutto diversa da disagiato.
[2] Movimenti comandati con i soldati in formazione compatta, su più file e distinti per plotoni, compagnie, battaglioni, ecc.
[3] Non è stato finora possibile decifrare e riconoscere il paese: la grafia consente solo un’improbabile decifrazione in Varten o Vartan. Secondo il libro di Quaglino, quel giorno il battaglione doveva trovarsi a Lamia o dintorni.
[4] Duecento camion, per un battaglione di formazione, ossia per un ammontare di trecento o quattrocento bersaglieri, sembrano tanti. Tanti anche se riferiti all’intera rappresentanza italiana (un reggimento di formazione misto, circa mille-millecinquecento soldati). Se consideriamo ad esempio uno tra i modelli di autocarro in uso nell’esercito italiano dell’epoca per il trasporto truppa, in dotazione anche all’autodrappello del 4° reggimento o disponibili a livello divisionale, ossia il Lancia Ro in versione base, con cassone standard in legno, centinato, di metri 4,79, esso poteva portare 32 soldati equipaggiati o 6390 kg di carico in materiali e munizioni. Che Dante si riferisse invece all’intera rappresentanza italo-tedesca?
[5] Strano e, per chi conosce un po’ la storia dei Bersaglieri, anche incredibile. A parte che gli han fatto fare le prove all’aeroporto di Corizza, a parte le sfilate a Jesi e a Elbasan (di corsa con la bicicletta a mano) mentre andavano alla guerra, adesso che (ufficialmente, ma i soldati se lo meritano) c’è qualcosa da festeggiare e i bersaglieri sono l’icona delle sfilate militari dell’esercito italiano, li fanno sfilare sugli autocarri. Forse il papà e i suoi commilitoni ne saranno anche stati contenti, un fatica in meno, ma, conoscendo l’ambiente, probabilmente, per orgoglio e fierezza, potrebbero esserci anche rimasti male. Non riesco però a trattenermi riprendere alcune reminiscenze del mio servizio militare in merito a questa questione, collegandole alle citate prove in ordine chiuso all’aeroporto di Corizza, ove i reparti non di bersaglieri, avevano rimediato brutte figure. Di sfilate ne ho fatte, ma era di solito per certe ricorrenze, come il 2 giugno, come per la festa dei bersaglieri, come altre ancora su richiesta di alcune istituzioni civili. Naturalmente eravamo i più richiesti per via della coreografia della corsa, delle piume al vento, della fanfara e così via: intanto i nostri commilitoni delle altre specialità si riposavano in caserma o andavano in permesso. Ricordo però che, nell’ambito o a margine di eventi militari a livello di divisione (Ariete) o di Corpo d’armata (il V), un paio di volte si ipotizzò o ci si preparò a malincuore per la solita, faticosa, corsetta con musica, che poi venne sospesa. Le motivazioni che circolavano poi attribuivano la causa della soppressione al fatto che i comandi superiori, affidati di norma e a seconda dei tempi, a ufficiali di corpi più autorevoli, come fanteria o carristi, non vedessero di buon grado una vetrina affidata ai soli bersaglieri, sia per il loro ridotto apporto di specialità, numericamente meno consistente e meno impattante sull’economia strategica generale, sia e soprattutto, me forse semplicemente perché le sfilate degli altri sono in effetti un po’ noiose, oltre che raramente soddisfacenti per i canoni della marcia in ordine chiuso….
[6] E bravo papà! Non sapevo che mio padre fosse stato ad Atene. Della sfilata ho saputo la prima volta dal libro di Quaglino, che parlava però di un battaglione misto, composto da bersaglieri di tutto il reggimento e, dato che il papà, nei suoi rarissimi racconti della “vita precedente”, di Atene non mi aveva mai, ma proprio mai, parlato, ho escluso che ci potesse essere mai stato, almeno in considerazione della fama e della bellezza unica della città. I luoghi dei suoi ricordi di guerra entrati nella mia memoria già da bambino furono altri e solo quelli: Durazzo, Spalato, Sebenico. Tre puntini nella geografia della sua guerra che, letti i suoi diari, sono ben poco, soprattutto se messi a confronto con Atene, che quindi mai avrei immaginato conoscesse. Mentre trascrivevo i suoi diari, dopo Quaglino ma prima di arrivare alla primavera del ’41, ho trovato e letto le memorie di Scalone: anche lui ad Atene! Bene! Ero curioso di conoscere come il papà si fosse rapportato a questo viaggio nella capitale greca, sempre convinto che non vi avesse partecipato: contento di averla passata liscia o rammaricato per il mancato viaggio-premio?
[7] L’interpretazione del testo non lascia dubbi: le parole trascritte corrispondono a quelle scritte a mano da Dante e la frase che ne risulta è questa. Cosa voleva dire con esattezza? Si capisce che fa i bagagli in tutta fretta, affardellando tutto quello che c’è, ma cos’è la rulotta? Il rotolo che con la mantellina, il telo da tenda ed i relativi picchetti? Poi c’erano da sistemare lo zaino, con la vanghetta o il piccozzino, la gavetta e il tascapane.
[8] Non è chiaro il perché. Razione scarsa di pastasciutta? Ma è colpa del tenente? Forse si è scordato di spiegare il motivo dell’arrabbiatura cui fa cenno.
[9] Abbiamo anche qui, a livello di squadra, la conferma del tardivo invio, a più riprese, di complementi, per rimpinguare le fila dei reparti, che, già insufficienti all’inizio della guerra, si erano via via assottigliati a causa delle perdite. Come riportato da più fonti e com’è lecito supporre, questi elementi arrivavano al fronte frettolosamente e impreparati e talora col morale a terra perché richiamati dopo la parziale smobilitazione del settembre 1940.
[10] Comandante della 9a armata – https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Pirzio_Biroli

Le prime pagine dell’Annuale per il primo anno di guerra (segue completamento).
Note
[1] Il dizionario Treccani riporta: diṡagióso aggettivo. [derivazione di disagio], non comune – Pieno di disagi, scomodo, o che reca molestia, malessere: Clemente comandò che fosse messo in una buia e d. prigione in Castel Sant’Agnolo (Varchi); ho fatto un lungo e d. viaggio (Botero).
Condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di salute. Quindi non solo Dante non s’inventa un aggettivo, ma ne fa un uso appropriatissimo, in quanto esso parrebbe voler descrivere uno stato derivante da sofferenza superiore a quella che di solito si attribuisce al sostantivo da cui deriva e del tutto diversa da disagiato.
[2] Movimenti comandati con i soldati in formazione compatta, su più file e distinti per plotoni, compagnie, battaglioni, ecc.
[3] Non è stato finora possibile decifrare e riconoscere il paese: la grafia consente solo un’improbabile decifrazione in Varten o Vartan. Secondo il libro di Quaglino, quel giorno il battaglione doveva trovarsi a Lamia o dintorni.
[4] Duecento camion, per un battaglione di formazione, ossia per un ammontare di trecento o quattrocento bersaglieri, sembrano tanti. Tanti anche se riferiti all’intera rappresentanza italiana (un reggimento di formazione misto, circa mille-millecinquecento soldati). Se consideriamo ad esempio uno tra i modelli di autocarro in uso nell’esercito italiano dell’epoca per il trasporto truppa, in dotazione anche all’autodrappello del 4° reggimento o disponibili a livello divisionale, ossia il Lancia Ro in versione base, con cassone standard in legno, centinato, di metri 4,79, esso poteva portare 32 soldati equipaggiati o 6390 kg di carico in materiali e munizioni. Che Dante si riferisse invece all’intera rappresentanza italo-tedesca?
[5] Strano e, per chi conosce un po’ la storia dei Bersaglieri, anche incredibile. A parte che gli han fatto fare le prove all’aeroporto di Corizza, a parte le sfilate a Jesi e a Elbasan (di corsa con la bicicletta a mano) mentre andavano alla guerra, adesso che (ufficialmente, ma i soldati se lo meritano) c’è qualcosa da festeggiare e i bersaglieri sono l’icona delle sfilate militari dell’esercito italiano, li fanno sfilare sugli autocarri. Forse il papà e i suoi commilitoni ne saranno anche stati contenti, un fatica in meno, ma, conoscendo l’ambiente, probabilmente, per orgoglio e fierezza, potrebbero esserci anche rimasti male. Non riesco però a trattenermi riprendere alcune reminiscenze del mio servizio militare in merito a questa questione, collegandole alle citate prove in ordine chiuso all’aeroporto di Corizza, ove i reparti non di bersaglieri, avevano rimediato brutte figure. Di sfilate ne ho fatte, ma era di solito per certe ricorrenze, come il 2 giugno, come per la festa dei bersaglieri, come altre ancora su richiesta di alcune istituzioni civili. Naturalmente eravamo i più richiesti per via della coreografia della corsa, delle piume al vento, della fanfara e così via: intanto i nostri commilitoni delle altre specialità si riposavano in caserma o andavano in permesso. Ricordo però che, nell’ambito o a margine di eventi militari a livello di divisione (Ariete) o di Corpo d’armata (il V), un paio di volte si ipotizzò o ci si preparò a malincuore per la solita, faticosa, corsetta con musica, che poi venne sospesa. Le motivazioni che circolavano poi attribuivano la causa della soppressione al fatto che i comandi superiori, affidati di norma e a seconda dei tempi, a ufficiali di corpi più autorevoli, come fanteria o carristi, non vedessero di buon grado una vetrina affidata ai soli bersaglieri, sia per il loro ridotto apporto di specialità, numericamente meno consistente e meno impattante sull’economia strategica generale, sia e soprattutto, me forse semplicemente perché le sfilate degli altri sono in effetti un po’ noiose, oltre che raramente soddisfacenti per i canoni della marcia in ordine chiuso….
[6] E bravo papà! Non sapevo che mio padre fosse stato ad Atene. Della sfilata ho saputo la prima volta dal libro di Quaglino, che parlava però di un battaglione misto, composto da bersaglieri di tutto il reggimento e, dato che il papà, nei suoi rarissimi racconti della “vita precedente”, di Atene non mi aveva mai, ma proprio mai, parlato, ho escluso che ci potesse essere mai stato, almeno in considerazione della fama e della bellezza unica della città. I luoghi dei suoi ricordi di guerra entrati nella mia memoria già da bambino furono altri e solo quelli: Durazzo, Spalato, Sebenico. Tre puntini nella geografia della sua guerra che, letti i suoi diari, sono ben poco, soprattutto se messi a confronto con Atene, che quindi mai avrei immaginato conoscesse. Mentre trascrivevo i suoi diari, dopo Quaglino ma prima di arrivare alla primavera del ’41, ho trovato e letto le memorie di Scalone: anche lui ad Atene! Bene! Ero curioso di conoscere come il papà si fosse rapportato a questo viaggio nella capitale greca, sempre convinto che non vi avesse partecipato: contento di averla passata liscia o rammaricato per il mancato viaggio-premio?
[7] L’interpretazione del testo non lascia dubbi: le parole trascritte corrispondono a quelle scritte a mano da Dante e la frase che ne risulta è questa. Cosa voleva dire con esattezza? Si capisce che fa i bagagli in tutta fretta, affardellando tutto quello che c’è, ma cos’è la rulotta? Il rotolo che con la mantellina, il telo da tenda ed i relativi picchetti? Poi c’erano da sistemare lo zaino, con la vanghetta o il piccozzino, la gavetta e il tascapane.
[8] Non è chiaro il perché. Razione scarsa di pastasciutta? Ma è colpa del tenente? Forse si è scordato di spiegare il motivo dell’arrabbiatura cui fa cenno.
[9] Abbiamo anche qui, a livello di squadra, la conferma del tardivo invio, a più riprese, di complementi, per rimpinguare le fila dei reparti, che, già insufficienti all’inizio della guerra, si erano via via assottigliati a causa delle perdite. Come riportato da più fonti e com’è lecito supporre, questi elementi arrivavano al fronte frettolosamente e impreparati e talora col morale a terra perché richiamati dopo la parziale smobilitazione del settembre 1940.
[10] Comandante della 9a armata – https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Pirzio_Biroli


Approfondimenti
- F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani (a cura di), L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, FrancoAngeli Editore, Milano 1988;
- Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Oscar Mondadori, Milano 1996;
- Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. Guerre e Fascismo, Laterza Editore, Roma-Bari 1998;
- Piero Melograni, La guerra degli Italiani 1940-1945, Istituto Luce, Roma 2004;
- Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943 Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, G. Einaudi Editore, Torino 2005.
Bibliografia – Fonti (in revisione)
- CON IL 4° BERSAGLIERI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Sergio Quaglino – 1985
- MEMORIE DI UN BERSAGLIERE – Luciano Scalone – 2011
- LA GUERRA FASCISTA – Gianni Oliva – Le Scie – Mondadori – 2020
- LE OPERAZIONI DEL 1940 SULLE ALPI OCCIDENTALI – (Autori vari, esegesi storica a cura dell’Ufficio Storico dello SME, 1994 Roma
- DIARIO STORICO DEL COMANDO SUPREMO VOL I TOMO 1 – Autori: Biagini e Frattolillo, dal 11.6.1940 al 31.8.1940 – DIARIO- Edizione Ufficio Storico, 1986
- IMMAGINI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE Ufficio Storico dello SME, anno 1995
- L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Autore Mario Montanari, Studio Monografico, Ufficio storico dello SME, 1995
- STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA – Mario Cervi – Oscar Mondadori 1969
- GUERRA D’ALBANIA – Gian Carlo Fusco – Feltrinelli 1961
- SOLDATI, GENERALI E GERARCHI NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Francesco Casati – Prospettiva Editrice 2008
- QUOTA ALBANIA – Mario Rigoni Stern – Einaudi 1971-2022
- FRONTE GRECO-ALBANESE: C’ERO ANCH’IO – Giulio Bedeschi – Mursia 1977
- GLI ESERCITI DELLA CAMPAGNA ITALIANA DI GRECIA – Phoebus Athanassiou – Biblioteca di Arte Militare 2019