I DIARI DI DANTE

II
QUADERNO II
Scritto a Cavtat - Ragusa dall'11 ottobre 1941 all’11 novembre 1941
Periodo narrato compreso tra il gennaio 1916 e l’agosto 1940
Aggiunta della sovracopertina: Hvar - Zavala - Stazione il 21 giugno 1942
Avvertenze

Il testo dei Diari di Dante è riportato su una colonna principale, affiancata a destra da due colonne di raffronto e complemento, nelle quali sono riportati gli stralci di due testimonianze “speciali”: sono quelle lasciateci da chi ha condiviso da vicino con il papà quelle tragiche vicende: in particolare con quelle di Sergio Quaglino e di Luciano Scalone. Il primo è stato un ufficiale che ha scritto un libro di assoluta valenza memorialistica storica, descrivendo fatti, luoghi e persone coniugando in un perfetto equilibrio la passione determinata dagli eventi con il manifestarsi di questi nel loro contesto storico-militare. Il secondo un semplice ragazzo del Sud gettato nella tragedia, che ha sentito il bisogno e realizzato il forte desiderio di raccontarne la sua partecipazione, con sincerità di sentimento e semplicità di linguaggio.

La disponibilità di tali elementi di riferimento storico-fattuale ha reso l’attività di trascrizione dei Diari di Dante ancora più emozionante ed ha conferito ad essi un più consistente valore memorialistico, attraverso confronti, chiarimenti e contestualizzazioni di fatti, luoghi e circostanze.
Su PC e tablet, il testo del diario e il contenuto delle colonne a lato sono visibili affiancate, per quanto possibile cronologicamente, mentre su smartphone le note appaiono alla fine di ciascun blocco.

Nelle colonne di raffronto e complemento, il racconto di Dante è affiancato e correlato a destra anche da:
– Cronologia essenziale internazionale
– Note esplicative o a commento del testo
– Collegamenti esterni o ad altri articoli interni sullo stesso tema (Categoria “EXTRA”, per esempio)
– Immagini e mappe

Il collegamento tra il contenuto dei Diari e quello dei due testi principali di raffronto è segnalato con una nota (in apice) solo se il nesso è specifico e circostanziato, altrimenti il raffronto è lasciato alla cura ed all’interesse del lettore con l’ausilio delle date, evidenziate all’uopo in grassetto su tutti e tre i testi.
Il collegamento tra parti del contenuto del testo dei Diari ed elementi presenti nelle colonne di raffronto e complemento (comprese parte delle immagini) è segnalato da una sottolineatura.  Alcuni elementi presenti nella colonna di complemento (comprese alcune altre immagini) hanno invece solo un riferimento generico con il racconto e sono quindi privi di un collegamento specifico.
[NdT] indica una “Nota di Trascrizione” inserita direttamente nel testo.
Le immagini con bordo e didascalia di color cremisi provengono dalla raccolta pesonale di Dante.
Qui di seguito sono riportati ulteriori formati utilizzati per  ulteriori contenuti.

Cronologia essenziale

Note relative al testo dei Diari.

Testo tratto dal libro del Ten. Sergio Quaglino

Testo tratto dal libro del Bers. Luciano Scalone

LE LICENZE D'AGOSTO

IL RACCONTO

Rosa e Dante sono contenti di essere vicini, Dante le riassume tutto il suo passato e in poco tempo arrivarono le due. Andiamo a letto e si cerca di prendere sonno, ma, per la felicità di essere a casa, a tutti e due è impossibile dormire.

Domenica 4 agosto 1940, al mattino, tutti a prepararsi per lo sposalizio della sorella. Dante e Livio vanno alla stazione ad aspettare lo zio frate; con lui, una volta arrivato, andiamo dal parroco che già era avvisato e tutti poi si riunirono nella casetta, aspettando l’ora per avviarsi in chiesa. Livio e Luisa si sono sposati, la chiesa è piena di gente, lo zio frate, con un lungo vangelo, ci tratteneva in chiesa. Siamo al Monastero tutti contenti e ci siamo messi a tavola. Dante si tratteneva di servirsi di tutto per aspettare in ultimo e riempirsi di dolci, e così, Dante, soddisfatto di tutto, terminava il pranzo in compagnia di altri signori e diverse fotografie furono fatte. Lo zio fu accompagnato alla stazione, venne notte e dopo un pochino di cena, Rosa e Dante salutarono la sorella sposa e la sua famiglia e si avviarono alla loro casetta.

Viene mattino: Rosa e Dante si alzarono tutti pieni di sonno avendo chiacchierato per quasi tutta la notte. Dante accompagna la sorella alla stazione, dovendo lei ritornare al lavoro a Milano e Dante nelle sue poche ore libere va a salutare i parenti. Dante ritorna e al padrone di casa dice che per San Martino la sua casa sarebbe stata vuota, se l’avesse dovuta affittare ad altri. L’ora è giunta, Dante si prende il treno e va a raggiungere il suo reggimento. Un viaggio bellissimo e Dante, contento, si trova coi compagni. Scrive alla sorella e alla Gilda, che già sapeva tutto.

Il giorno 11 agosto arriva l’ordine per il reggimento di partire e il 12 mattina si parte per Bussoleno su un lungo treno dove si carica tutto, ma non si sa dove si va. Per due giorni e una notte si viaggia col treno e il giorno 13 agosto, verso sera, siamo arrivati a Gorizia, dove il treno fece manovra per fermarsi su di un binario morto e dove sostò tutta la notte. Il giorno 14 agosto mattino, di nuovo il treno si incamminava per San Daniele del Carso e lì si scaricò tutto in un pineto, dove abbiamo piazzato le tende. Subito le mie notizie alla sorella Rosa, alla Gilda e ai parenti. Sempre coraggio! Ci fanno passare per tutte le strade più brutte con quella trappola di biciclette, le solite istruzioni, alla sera fuori di pattuglia nelle vigne e anche alla ricerca dell’uva.

Il 18 agosto arriva una circolare che consente di dare una licenza breve a tutti i militari meritevoli. Dante non parlava, perché erano pochi giorni che era stato a casa: pazienza! Ebbene, senza parlare, Dante, il giorno 20 agosto, scendeva dal treno alla stazione di Milano senza sapere dove la sorella abitasse; però sapeva che stava proprio vicino alla stazione centrale ed in due domande trovava la sua abitazione in via Sammartini. La sorella non avrebbe mai immaginato la mia visita e l’improvvisata fu fatale. Subito Dante avvisava la Gilda e anche la Giuditta che già si credevano alla svelta fidanzate con Dante. Avviene che la sorella Rosa è amica della Pina, che Dante trovava con Rosa al suo arrivo. Il giorno 21 agosto, la Pina, libera da tutto, andava ancora dall’amica Rosa e passava con lei il pomeriggio. Dante si mise a chiacchierare di una cosa e dell’altra e cosa le vado a dire? «Lascio la Giuditta e mi prendo voi!» E lei, non so… come incantata: «Sì! Sì!» E così Dante, si fidanzava con Pina in presenza della sorella, contenta, sapendola una buona ragazza. La Pina teneva il suo fidanzato in Albania, ma con la sua fiducia, a bocca, assicurava Dante che ormai non c’era più nessuno per lei, fuorché me.

RIFERIMENTI
Abbiamo una fotografia del matrimonio della sorella Luisa, il 4 agosto 1940. Sono identificabili: 1 - la sorella Rosa; 2 - Dante; 3 - Elvira, la mamma di LIvio; 4 - La sorella Luisa, la sposa; 5 - lo "zio frate", Raffaele, fratello del papà di Dante, che ha celebrato la cerimonia; 6 - Livio, lo sposo. Il luogo si trova in Località Monastero di Stradella. ed è riconoscibile anche oggi (vedere immagine sottostante).
Il cortile in fondo a via Monastero a Stradella, oggi. La V rossa indica la prospettiva approssimativa dello scatto fotografico.

Piuttosto nei Balcani…

Piuttosto nei Balcani c’è qualcosa che non convince.
Infatti, verso il 7 di agosto viene in ordine improvviso di spostamento sulla frontiera jugoslava, ove potrebbe anche verificarsi la necessità di un nostro impiego bellico. Fervono immediatamente i preparativi per il trasferimento del reggimento, che dovrà effettuare il suo spostamento in ferrovia. Pochi giorni dopo a Susa un convoglio ferroviario, o meglio una tradotta, è pronta a ricevere uomini e materiali. Sono state predisposte alcune carrozze viaggiatori, molti carri bestiame e alcuni carri asolo pianale per gli automezzi. Si parte. A Torino, dove il treno fa una sosta, convengono alla stazione molti parenti e familiari dei bersaglieri per porgere loro un saluto prima che raggiungono la nuova destinazione. La tradotta prosegue il suo viaggio, fermandosi ogni tanto in qualche stazione per dare la precedenza a convogli più veloci o più importanti.
A Mestre, fuori stazione, una lunga sosta. Una signora attraversa lentamente i numerosi binari per avvicinarsi al treno. È la consorte del colonnello comandante, che è venuta a salutare non solo il marito, ma anche i bersaglieri del 4°, che seguiranno il colonnello Scognamiglio nella buona e nella cattiva sorte del reggimento.


L’estate del 1940

Per il reggimento, attendato a Villar Focchiardo, il mese di luglio trascorre in piena tranquillità, impegnato però in un intenso addestramento sulle varie forme di impiego della specialità e di amalgama in tutti i reparti tra bersaglieri di leva e richiamati. L’attività addestrativa comprende pure esercitazioni di tiri individuali e di reparto, nonché marcia in bicicletta per allenare intensamente gli uomini allo sforzo prolungato, e ciò anche se le operazioni sul fronte francese, terminate da alcuni giorni, siano già servite come breve messaggio di prova delle possibilità di impiego del reggimento, del rendimento e del grado di addestramento dei reparti, delle capacità e del valore dei singoli comandanti in determinati momenti. 


La visita di Umberto II
Nel pezzo che segue, Quaglino si concede ad una ossequiante retorica. Come per altri stralci che seguiranno, ci si pone la domanda: quanto scritto rispecchia il sentire e la retorica di allora (1940) o, conservato come tale, (anche) quello di quando ha scritto il libro (1985)?



L’augusto Ospite

Una importante notizia mette qualche giorno dopo improvvisamente in fermento il reggimento: l’annuncio della imminente visita di sua altezza reale il principe di Piemonte alle truppe che hanno operato sul fronte francese e quindi anche 4o bersaglieri. Infatti il giorno seguente, una magnifica giornata di sole, tutto il reggimento è schierato in attesa dell’augusto ospite. Sono veramente splendidi questi bersaglieri, inquadrati in modo perfetto, che presentano le armi, con i loro piumetti ondeggianti alla brezza di luglio, in mezzo al verde intenso dei prati che circondano Villar Focchiardo!
Una breve sfilata di corsa ed un ridotto saggio ginnico sportivo chiudono la giornata. A sera il principe di Piemonte rimane molto volentieri a mensa con gli ufficiali del reggimento, nel modesto ristorante del posto la Giaconera, mentre sullo spiazzo antistante la fanfara dà concerto fuori ordinanza.

VERSO LA GRECIA E "LA MARCIA AL NEMICO"

IL RACCONTO

Terminata la licenza, Dante parte tutto contento lasciando la sorella e la Pina. Dante, giunto dai suoi amici, tutto rammentava della sua licenza. Dopo pochi giorni riceveva notizie della Pina dalla sorella: la busta conteneva anche una foto di noi tre, ché a caso ci avevano preso a passeggio per Milano, nella passeggiata fatta la domenica di licenza. Dante lasciava la Giuditta, e, a pensiero sicuro, pensava alla Pina, con la quale sempre si scrivevano. Sotto la tenda si incominciava a starci male e la pioggia continuava. Viene l’autobagno1, si fa il bagno e si disinfetta tutta la nostra roba; poi si va accantonati in una rimessa a Crusevizza, un paesetto lì vicino. Dante arrivava al suo corpo il giorno 26 agosto e il 30 agosto si andava accantonati. Dante e tre compagni trovavano il posto per dormire su una cascina proprio vicino alla rimessa dove stavano gli altri compagni. Candele non ce n’erano e alla sera avevano bisogno di un po’ di luce. Cosa abbiamo fatto allora con un boccettino? Abbiamo fatto un lumino e avviene che Dante e l’amico Barbero mettono la benzina nella boccetta che si trovava ormai vuota. Dante teneva in mano la boccetta, ma ad un tratto prende fuoco tutto, col rischio che poteva prendere fuoco anche tutta la cascina. Ma i due bersaglieri, con coraggio prendevano la coperta e spegnevano il fuoco. Dante, nella fretta, non si era neanche accorto che aveva il fuoco nella mano sinistra, ma, bruciata la prima pelle, se ne accorse, e allora Dante si metteva la mano in tasca: la mano si salvò, ma dal bruciore si vedevano le stelle. Subito la padrona mi copriva la mano di olio, ma ormai la mano faceva ballare Dante, sebbene non ci fosse musica e tutta la notte la passai con la mano in una gavetta di acqua. Ma il male aumentava sempre e Dante non voleva far sapere niente a nessuno. Dopo due giorni, 3 settembre, portando io la mano fasciata, il sottotenente Tonti, che da pochi giorni comandava il plotone, mi vide e per forza gli ho narrato il fatto; così mi mandava subito dal dottore e anche questa passò, anche se per tutto il mese mi sono portato la mano fasciata. Istruzione sempre tutti i giorni, ma da mangiare un fulmine! Tre pagnotte al giorno, pane ce n’era in avanzo, la mucca che c’era nella stalla continuava a mangiare il pane che noi avevamo in più.

 

La bella sera del 29 settembre tutti giù a dormire. Dante si sente chiamare e corre giù, dove lo cercava il suo tenente, dicendomi: «Domani mattina ti prepari tutta la tua roba e ti lavi in ripostiglio, che devi andare via!» Niente di male, va bene, ma roba da matti! Gli amici subito fecero domande, ma tutti si pensava in bene. Già da quindici giorni stavamo lucidando tutto, la voce era che si andava a Torino e null’altro si pensava. Viene il mattino, da qualche portaordini corre la voce che si va ad Ancona. Appena dopo il rancio, su di un camioncino eravamo in sei e un ufficiale, andiamo al comando di reggimento a San Daniele, dove c’erano altri del XXIX e del XXXI e tutti assieme si parte. Alle due eravamo a Trieste e qui siamo sicuri che si parte per Ancona. Dante subito spedisce una cartolina alla sorella, una alla Pina e un’altra alla Gilda, che sempre scriveva. Alle tre si parte, si fa la linea Trieste-Bologna; alle undici siamo a Bologna e lì si deve aspettare sino al mattino del 1° ottobre.


Partenza da Bologna per Ancona: verso le dieci siamo ad Ancona e lì aspettiamo che gli ufficiali trovino il posto dove mettere tutto il reggimento. Anche da lì do notizie alle tre signorine. Dove si va a mangiare? Lì vicino c’è una trattoria e dentro! Per bene ci siamo riempiti, ma alle quattro arrivano gli ufficiali: bisogna prendere ancora il treno, per andare a Jesi, lontano quindici chilometri, perché lì non c’era posto per mettere in accantonamento il reggimento. Alle nove siamo a Jesi e ci mettono a dormire dentro una chiesa: mettiamo  giù la coperta e il tascapane e poi fuori! Pioveva che Dio la mandava ma non importa. Alla prima trattoria dentro a mangiare e bere, tutto vino bianco, ma al togo. Il mattino del 2 ottobre si trova subito il posto per tutti e tre i battaglioni, ma Dante aveva l’incarico di cercare la stanza per i suoi ufficiali. Cerca e trova le stanze e con questo si fa amico con la Anna Maria, una bella signorina. Il pomeriggio arriva il battaglione e proprio lì vicino alla stazione c’era il capannone, dove dentro ognuno aveva il suo posto. Alla sera fuori in compagnia con diversi amici e ci siamo presi una sbornia, ma proprio coi fiocchi. La gente tutta contenta dei bersaglieri e tutte le sere per noi era una sbornia, in quanto ormai si sapeva che per noi erano gli ultimi divertimenti. Un pochino di istruzione, ma cosa da poco. Alla domenica, dopo la messa, la corsa attraversando la città poi, il 28 ottobre, c’è la sfilata di tutto il reggimento, tra applausi e fiori dal pubblico. Nello stesso giorno l’Italia dichiarava guerra la Grecia 2.

 

Tutti i giorni cartoline a sorella e Pina, siamo al 3 novembre e ci danno tutto quello che serve per l’inverno: scarpe nuove e un paio di scorta, mettiamo tutto nel bottino e il giorno 3 passò. Dante aveva già salutato l’Anna Maria, sapendo che doveva partire. Il 4 novembre si prende il treno e si va a Bari. Il giorno 5 novembre siamo a Bari nei capannoni della fiera campionaria e lì andiamo a dormire. Il giorno 6 novembre mattino notizie a tutti, si passa il giorno fuori a spasso per Bari. Zitti si prepara tutto e verso sera si va al porto, dove ci siamo imbarcati sulla nave Italia. Partenza alle nove e quaranta: è la prima volta che Dante vedeva una nave e che viaggiava in mare. Niente di male e alle sette del giorno 8 novembre siamo al porto di Durazzo, Albania del mio cuore.3 Si scende dalla nave, incomincia a farsi buio, ma non si trova il posto per dormire. Il nostro maggiore Mennuni bisticcia un po’ con l’ufficiale della nave, si fa dietrofront e tutti per l’ultima notte abbiamo dormito tranquilli sui lettini della nave.


Giorno 9 novembre, mattino: sbarchiamo di nuovo e siamo andati poco lontano dal porto, aspettando lo scarico del materiale e delle bici. Di mangiare non se ne parla; quelli che fumano trovano con poco da fumare: ogni bambino che c’era aveva le tasche piene di sigarette, e a buon prezzo, e giù del fumo. Dante non fumava e guardava in faccia i suoi amici.4 Il giorno è brutto con nebbia e acqua; nel pomeriggio ce ne andiamo al porto a prenderci le nostre biciclette e per sette-otto chilometri ci siamo allontanati da Durazzo per fare le tende su di una collina, qua forse viene il bello. Dante, sempre coraggioso, dà sue buone notizie alla sorella, a Pina e a Gilda: tanto poteva amare la sua Pina, ma la Gilda non la poteva mai dimenticare e appena aveva sue notizie e se mi fosse stato possibile, subito le avrei dato mie notizie, ma da qui più nessuna notizia a Giuditta, tanto due sono già troppe. Coraggio! Il giorno 11 novembre mattino beviamo il caffè, si disfano le tende e si pedala. Gli innocenti, silenziosi e tranquilli, pedalavano, ma purtroppo siamo ormai in guerra e sarebbe questa la “marcia al nemico”. Dopo una quarantina di chilometri siamo a Tirana, la capitale dell’Albania. Tutti acclamati dalla popolazione, si sfilava per la città, ma di rancio non se ne parla. E tu pedala! Ci facciamo un bel numero di ore e nel pomeriggio, una lunga salita di trentadue chilometri. Infine, fortunatamente, la discesa, ma nelle gambe rimanevano i nostri 118 chilometri. Arriviamo a Elbasan. Che cosa si fa? La sfilata di corsa con la bicicletta a mano! 5 Alla fine, metà dei compagni sono sdraiati lungo la riva dei fossi, sfiniti. Speriamo almeno che ci sia qualche cosa da mangiare e così fu.

RIFERIMENTI
La sfilata del reggimento a Jesi domenica 27 ottobre 1940. In basso, a destra, a fianco della fanfara sfila anche Bramans, il cane conosciuto nel Quaderno I.


La tensione si allenta?


La tensione con la Jugoslavia pare attenuarsi comincia così a pensare ad un possibile rientro in Piemonte. Radio marmitta dati lettura per certa la notizia del ritorno a Torino entro breve tempo.

I giorni passano, ma è solo al principio di ottobre che, ad un rapporto ufficiali tenuto dal generale comandante il Raggruppamento Celere ai comandanti delle singole unità che lo compongono, e cioè un reggimento di cavalleria, un reggimento carristi e il 4° bersaglieri, pare sia stato ufficialmente comunicata l’imminente sostituzione del nostro reggimento, che rientra in sede sostituito con altro reparto della stessa specialità. Invece, il 15 ottobre, al pomeriggio…
Siamo come ogni giorno a quest’ora a rapporto nell’ufficio del colonnello comandante. È da poco cominciato l’esame degli avvenimenti del giorno, quando viene bussato alla porta. L’aiutante maggiore va a sentire cosa ci sia di così urgente l’importante. È giunto un portaordini del comando Raggruppamento Celere con la solita busta gialla. Urgentissimo e riservato. Il colonnello apre il plico, che certamente reca il tanto atteso ordine di spostamento e legge. Lo vediamo scurirsi in volto e farsi serio serio.
«Signori», dice, «l’ordine di rientro è sospeso. Partiamo fra qualche giorno per altro scacchiere di operazioni, che qui è designato soltanto con tre lettere: O.M.T.»
Inutile descrivere l’effetto di tale notizia, ma siamo in guerra e gli ordini non si commentano, anche se sono parecchio diversi da quelli che si speravano. Ed ora dove si va? OMT […] Tunisia? Giudicheremo dall’equipaggiamento e dal vestiario che ci verrà assegnato. Fervono intanto preparativi per il nuovo trasferimento del reggimento.

(1) – Autobagno
(2) – Nello stesso giorno l’Italia dichiarava guerra alla Grecia
Da brividi questo passaggio, dalla piccola storia degli eventi personali, dalle sbornie, dai fiori, dagli applausi, da un’altra conoscenza femminile, alla  grande storia, alle “decisioni irrevocabili”: e ci sei dentro, stai andando proprio  là…
(3) – Albania del mio cuore
Forse uno slogan o una canzone fascista, del tipo “Faccetta nera”?
Per affinità del soggetto, mi è per ora nota solo la Canzone d’Albania” del 1920, che riguarda proprio i bersaglieri, ma in tutt’altro (e come) contesto. YouTube
(4) – Dante non fumava e guardava in faccia i suoi amici
Frase netta, tagliente: ma cosa pensava Dante, guardando (proprio in faccia) gli amici che fumavano? Cerca di capirli? Li compatisce? Non può non venirmi in mente il ricordo di una frase che il papà mi disse quando ero bambino: “Se sono ancora vivo è perché non fumo.” Mi spiegò che, in uno o più momenti di fame disperata, (non ricordo con precisione se durante operazioni di combattimento – lo scopriremo eventualmente più avanti – o in campo di concentramento) scambiò le sigarette che aveva con del pane e delle patate, salvandosi così la vita.
 (5) – La sfilata di corsa con la bicicletta a mano!
Questa proprio non l’avevo mai sentita! Ne abbiamo già letto di sfilate che il reggimento ha sin qui già dovuto fare e nel mio piccolo ne so qualcosa (rispetto agli altri reparti, invece di riposare, noi bersaglieri eravamo richiesti di qui e di là per sfilare di corsa): ma questa no, dopo una faticaccia come quella descritta, durante “la marcia al nemico” (ma in realtà sappiamo che era il nemico che stava loro andando incontro), con una modalità assurda: di corsa con la bicicletta a mano, per di più affardellata?  Anche Quaglino ne parla e assicura che i bersaglieri ne hannno tratto anzi un beneficio morale in quanto a  consapevolezza delle proprie qualità di forza e resistenza.

 

Un'immagine della Nave Italia (Wikipedia)


Nel trafiletto seguente, Scalone aggiunge informazioni interessanti sulla traversata: il convoglio è numeroso, quindi il contingente comprende altri reparti, oltre al 4°, e viaggia sotto scorta. Ciò risponde ad un interrogativo che mi si era persentato in merito, anche mi sarei aspettato una protezione aerea, piuttosto che navale, visto che in zona era molta attiva la R.A.F . Curioso, ma assolutamente comprensibile, l’obbligo di restare in mutande col salvagente indossato. Ecco un particolare che nessun regista, in nessuno dei mille film di guerra visti, mi ha mai mostrato.


La traversata

La sera del 7 novembre ci imbarcammo su una nave e, non appena completato il carico, l’intero convoglio si mosse lentamente. La notte passò silenziosa: si sentiva solo il fruscio delle acque ed il rombo dei motori. Il convoglio comprendeva ventitré navi da trasporto, un incrociatore e tre cacciatorpediniere di scorta. Tutti i soldati sulle navi dovevano stare in mutande e con il relativo salvagente indossato. La destinazione era Durazzo, in Albania. Però il convoglio prima fece rotta direttamente per lo specchio di mare di fronte a Brindisi, dove all’alba dell’8 novembre cominciò la traversata per Durazzo. Verso la sera avvistammo la costa albanese.

Una festa nazionale
In Grecia, ogni anno, il 28 ottobre, è il giorno in cui si festeggia l’indipendenza nazionale e si celebra il “Grande No” (μεγάλο Όχι), in commemorazione del rifiuto opposto dal popolo ellenico all’occupazione della Grecia da parte delle truppe italiane nel 1940. Questo è quello che rimane vivo oggi, memoria e dolore a parte, di quella sciagurata guerra italiana.
Tutto inizia invece quando, non sono ancora le sei del mattino di quel giorno,  quando le truppe italiane entrano in Grecia. Piove e fa freddo.  Gli aerei  non possono volare per appoggiare l’avanzata delle fanterie o per colpire obiettivi strategici. Insomma, si comincia male. Le colonne di testa italiane avanzano in territorio greco come dita sottili protese nelle valli, il tempo si mette ancora al peggio, si chiede di rinviare l’ invasione, ma da Roma rispondono che il tempo è cattivo anche per i greci: con migliaia di soldati che stanno soffrendo e morendo, un’affermazione così stupida è raccapricciante. La differenza è che noi dobbiamo avanzare, mentre i greci possono anche aspettare, al sicuro nelle loro postazioni preparate per tempo e con i rifornimenti efficienti e vicini.

Qualche giorno prima…
Mussolini, scopiazzando quello inviato da Hitler qualche mese prima alla Norvegia e alla Danimarca, invia il suo ultimatum alla Grecia, trascurando però un particolare: dietro il primo c’erano un piano preciso e un esercito nel pieno della sua potenza, mentre, dietro l’ultimatum di Roma, c’era tutt’altro: c’erano un desiderio ambizioso e una vagheggiante illusione, senza la concreta possibilità di ottenere risultati positivi e un esercito che, già poco moderno e meccanizzato, pativa ancora le fatiche e le spese delle guerre sostenute in Etiopia e in Spagna. Peggio, fino al limite del credibile: terminata la campagna di Francia, si smobilita, in quanto non ci sono guerre in vista, i soldati sono attesi dalle loro famiglie, le spese di mobilitazione sono tante. Anche nei nostri diari percepiamo il paradosso: a fine settembre il reggimento è al campo a San Michele del Carso e si prepara per tornare in sede a Torino, preludio necessario per un eventuale ritorno a casa. Il colonnello Scognamiglio, a metà ottobre, va al comando per ricevere la buona notizia e… invece si parte per Bari.
Un vecchio piano per l’invasione della Grecia in realtà esiste, ma, prevedendo esso l’impiego di una ventina di divisioni, viene rimesso negli scaffali, preferendo ad esso quello meno impegnativo ed ottimistico del generale Visconti Prasca, cui ne basterebbero meno della metà. Ad una manovra preordinata e organica si preferisce un colpo di mano di tipo coloniale, che, una volta messo in fuga l’esercito greco, ci avrebbe portato ad Atene. Il motto era quindi: partiamo, vediamo e speriamo.

La Germania
Nessuno si oppone, in quanto pare a tutti debba trattarsi di una passeggiata senza combattere, proprio quello che il duce vuole  sentirsi dire. Marina a Aviazione non sono consultate, si prendono per buone false informazioni e via: la bibliografia su punto è praticamente illimitata, univoca e illuminante, c’è l’imbarazzo della scelta.
Gli unici contrari sono invece i tedeschi. Pensano al loro Barbarossa e non vogliono casini in giro. Mussolini lo sa, ma l’Italia è una grande potenza e il Mediterraneo è suo e può farci ciò che vuole, anche una guerra parallela. Anzi, occorre tenere i tedeschi  e i greci all’oscuro di tutto fino all’ultimo momento. Quando Hitler lo saprà, la genialata era già stata fatta e molto dopo egli dirà chiaramente che, se non ci fosse stata la bravata di Mussolini in Grecia, la Germania avrebbe invaso l’Unione Sovietica un mese prima e avrebbe vinto. Se questo era il punto di vista tedesco, un Mussolini sfuggito ai partigiani e messo sotto processo a Milano, avrebbe potuto addurre, a sua discolpa o attenuante, quella di aver favorito, quindi, la sconfitta e la caduta del Reich. I greci invece sanno tutto, i maldestri incidenti provocati da Ciano glielo confermano e così ci aspettano al varco. 


Nativi ostili

Proseguono anche qui le nostre esercitazioni estive. L’ambiente che ci circonda è però cambiato. Alla cordialità e alla simpatia dei piemontesi è succeduta una fredda diffidenza dei nativi del luogo. L’elemento di origine slava nasconde la sua ostilità sotto un ambiguo sorriso di degnazione.
Sono forse impressioni sbagliate, ma si sente nell’aria qualcosa che non va. La maggior parte dei vecchi ed una parte dei giovani parlano o cercano ostentatamente di parlare soltanto la lingua slava.
Quante diversità invece a Gorizia Trieste! È una cosa che allarga il cuore fare una capatina in queste città. Si direbbe che lo spirito patriottico e la fierezza di essere italiani non si affievoliscono mai in queste popolazioni, o meglio che non si offuschino mai nel torpore e nella normalità della vita quotidiana.


Quale nemico?
Il regno di Jugoslavia, subito dopo lo scoppio della guerra, si era dichiarato neutrale. Ma, mentre la maggioranza della popolazione non nascondeva un certo favore verso Inghilterra e Francia, il governo era costretto per contro a tener conto della vicinanza della Germania e, una volta che fu entrata nel conflitto, anche dell’ancor più vicina Italia, con la quale erano sempre accese la questione dalmata e tutte le problematiche relative ai territori di confine, con le note implicazioni etnico-linguistiche mai sopite. La Germania accettava di buon grado la neutralità di Belgrado, in quanto bilanciata da una maggior accondiscendenza economico-logistica, che, a dispetto di Londra e Parigi, consentiva a Berlino di ricevere rifornimenti essenziali, in particolare, via Danubio, il petrolio rumeno di Ploiesti. Hitler quindi si oppose alla proposta di Mussolini di attaccare la Jugoslavia e questo veto spinse il dittatore italiano verso un’alternativa immediata per l’espansione nei Balcani: l’aggressione alla Grecia. Del resto, le testimonianze dirette che arrivano dai nostri testimoni del 4° reggimento, confermano a livello operativo le incertezze strategiche: prima lo spostamento dal fronte occidentale verso il confine orientale, pronti per invadere la Jugoslavia; poi non se ne fa niente perché il “capo” ha detto “nein” e quindi si torna a Torino; poi alla fine, si attacca la Grecia, così l’amico Adolf “saprà dai giornali che ho occupato la Grecia”. (*) Il tutto nel solco della strategia del regime: “intanto entriamo in guerra, poi si vedrà”.

– Quaglino rileva le cause del contrordine: dapprima qualcosa non lo convince nei Balcani, poi registra un’attenuazione della tensione con la Jugoslavia. Ma allora le informazioni erano queste. Ma, mi domando per la seconda volta, nel 1985, quando ha  scritto il suo (per me) provvidenziale e bellissimo libro, una revisione storica del contesto?
(
*) – v. Cervi e Rochat nella bibliografia.

 


Nativi ostli
Il trafiletto di Quaglino che precede racchiude in poche righe la spontanea percezione di un ufficiale imbevuto di nazionalismo e il richiamo ad un tema storico, etnico e politico ancor oggi dibattuto, che esploderà poi con l’occupazione italiana dei territori ex-jugosalavi, fino a comprendere anche (strumentalizzazioni a parte) il dramma delle foibe.
Per quanto riguarda in particolare l’aspetto linguistico, riporto qui sotto una breve sintesi del libro
Il martire fascista” , che ci contestualizza appropriatamente, e incredibilmente proprio nello specifico, la percezione di Quaglino.

Dal libro “IL MARTIRE FASCISTA” di Adriano Sofri – Sellerio Editore

Il 4 ottobre 1930 qualcuno uccise a fucilate il maestro Sottosanti in un paese sloveno vicino Gorizia. Adriano Sofri ha ricostruito questa cronaca, cui lo legano imprevisti fili personali, andando su e giù dai confini.
Un maestro siciliano, di solida fede fascista, va a insegnare nella scuola di un paesino sloveno vicino a Gorizia, annesso all’Italia dopo la carneficina della Grande guerra. Ha una giovane moglie, cinque figli e un sesto in arrivo. È uno dei molti convocati a realizzare la «bonifica etnica», l’italianizzazione forzata di una minoranza renitente. Una sera, all’inizio dell’anno scolastico del 1930, il maestro Sottosanti viene ucciso in un agguato. L’Italia fascista commemora il suo martire. Ma da oltre confine si accusa: infieriva contro i bambini, sputava in bocca a chi si lasciasse sfuggire una parola nella sua lingua madre, lo sloveno. Ed era tisico. Il rumore si spegne presto. Le autorità fasciste sanno che i maltrattamenti raccapriccianti avvenivano davvero, ma l’autore era un altro, il più vicino all’ucciso. I militanti antifascisti sloveni si accorgono di aver commesso un incredibile scambio di persona. Adriano Sofri ha ricostruito questa cronaca del 1930, cui lo legano imprevisti fili personali, andando su e giù dai confini. Niente è bello come un confine abolito. Soprattutto quando c’è chi lo rimpiange, e investe in fili spinati.


Tra la vendemmia e la visita del duce.


A San Daniele del Carso siamo stati fino al 19 settembre 1940. Quella giornata, dopo aver fatto la disinfestazione a tutto il vestiario, ci toccò partire per Monte Spina, che si trova a 10 km da San Daniele del Carso. Lì c’erano molti vigneti e proprio in quei giorni si svolgeva la vendemmia. Tutti i giorni venivano dei contadini dal nostro capitano a chiedere di mandare i bersaglieri ad aiutarli a raccogliere l’uva ed il capitano non esitava a lasciar andare chi voleva andare.

Nei giorni 21, 22 e 23 settembre tutto il battaglione partecipava a manovre di guerra con il corpo d’armata al quale eravamo aggregati. […]
Era in programma la visita di Mussolini alla seconda armata, attestata a ridosso della frontiera italo-jugoslava e il giorno 11 di ottobre si andò a Montenero per la sfilata. […]
Ad un certo punto sbucò il 4o reggimento bersaglieri, con in testa il colonnello Scognamiglio. Una tromba suonò tre volte il segnale di allarmi e iniziò la corsa di tutti i bersaglieri del reggimento. […]
Giunti al posto assegnatoci, ci schierammo per compagnia e il colonnello presentò il reggimento al duce, che rispose al saluto: «Questo è il più bel reggimento d’Italia»!


Nè Quaglino nè Dante fanno cenno alla visita di Mussolini, nonostante l’elogio del duce al 4° reggimento bersaglieri.

 


Destinazione Grecia

A Jesi fermata definitiva punto: è il 21 ottobre. […] Giungono anche alcuni ufficiali assegnati al reggimento per il completamento dei quadri. Molte famiglie di ufficiali e bersaglieri giungono a Jesi per salutare i loro cari prima della loro partenza verso questa ignota destinazione.
Dai giornali e dalla radio abbiamo intanto notizie di aggressioni da parte di elementi greci a patrioti albanesi lungo la frontiera che divide la Grecia dall’Albania. Il 28 ottobre apprendiamo poi con trepidazione come l’Italia abbia ritenuto opportuno di proteggere con le armi gli interessi italiani e albanesi e come sia perciò entrata in guerra con la Grecia. Comprendiamo finalmente il significato delle lettere OMT: cioè “Operazione Militare Tirana”. Beh, dopotutto meglio l’Albania che la Tunisia. Perlomeno è più a portata di mano e più vicina alle nostre case.


Provocazioni! E quindi è la guerra!
Ancora la stessa domanda e la stessa riflessione, che si aggancia anche sin troppo bene alla disinformazione, specie a scopo “bellico” ancora in auge ai nostri giorni. Ma era così difficile, non dubitando della buona fede e dell’intelligenza di Quaglino e pur nel contesto disinformativo del regime, dubitare della credibilità delle provazioni greche? Metaxas era un dittatore di ispirazione fascista, temeva l’aggressione italiana, l’alleato inglese aveva altro a cui pensare e… provoca?
Poche righe sotto, nello stesso solco interpretativo, l’Italia, secondo Quaglino, andrebbe a tutelare i propri interessi e quelli albanesi: la storia, ben presto, avrebbe documentato l’assenza di una vera motivazione strategica dietro la decisione di attaccare la Grecia.

Vedere sulla questione:
LA GUERRA FASCISTA – di Gianni Oliva pagine 90-98 . Le Scie – Mondadori 2020
Wikipedia

 


Il 4° reggimento bersaglieri all’inizio delle operazioni in Grecia (7 novembre 1940)

Comandante: colonnello Guglielmo Scognamiglio

– XXVI battaglione – comandante maggiore Mennuni
– XXIX battaglione – comandante maggiore De Martino
– XXXI battaglione – comandante maggiore Ferrari

– 12a Compagnia motociclisti  – c.te capitano Viola
– Compagnia comando reggimentale – c.te tenente Scuderi

Ogni battaglione è composto da:

– 3 compagnie fucilieri
– 1 compagnia mitraglieri
– 1 compagnia comando btg.

Forza complessiva: circa 2.000 uomini

Armamento:

– Moschetto Carcano mod. 91/38 TS
– Fucili mitragliatori Breda mod. 30
– Mitragliatrici Breda mod 37
– Bombe a mano SRCM Mod. 35

Autodrappello:

Vedere riquadro a fianco.

Appena dopo lo sbarco il maggiore Ferrari lascia il comando del trentunesimo battaglione che viene assunto dal maggiore Bernardino Grimaldi.

 


Composizione dell’autodrappello


Fiat 15 Ter – 1911 (uno)
SPA 25C/10
(alcuni)
Fiat-SPA 38R
(alcuni)
Fiat 18 BL – 1915
  (due)
Fiat 626 (uno)
Lancia 3Ro
(uno)
Carro officina (uno)


A proposito dell’autodrappello

Per chi se ne intende le sigle esposte indicheranno facilmente quali vetusti automezzi, risalenti anche alla guerra 1915-18, siano in dotazione al reggimento, con qualche eccezione…


Lo sbarco in Albania

Oggi pomeriggio, 7 novembre 1940 ci siamo imbarcati per l’Albania. Tre piroscafi, fra cui ricordo l’Armida, hanno accolto i bersaglieri con il loro equipaggiamento e le biciclette. L’autodrappello partirà più tardi, appena affluite le prime truppe in Albania. Fino a notte inoltrata rimaniamo in porto. Proibito fumare, soprattutto in coperta, poi sbarchiamo. Pensiamo a casa ed a quali eventi possiamo ora andare incontro. Da oggi siamo considerati nuovamente in zona di operazioni.

La situazione militare in Albania, a detta dei giornali, non è preoccupante: la nostra sarà quasi certamente una “passeggiata militare” sino ad Atene. L’esercito greco non è in grado, per scarsità di uomini e di mezzi, per deficienza d’addestramento, eccetera eccetera, di opporre una seria resistenza alla nostra penetrazione in territorio ellenico, ove la popolazione non attende altro che l’arrivo degli italiani eccetera eccetera. Molto ottimistico il quadro; tuttavia vedremo di persona come stanno le cose.


Cadono le prime certezze
Quaglino dà segni di ravvedimento: nella sua narrazione si fa adesso spazio la critica e iniziano a cedere gli effetti della propaganda fascista.

ECCO IL NEMICO: I PRIMI MORTI

IL RACCONTO

Dopo un po’ di tempo che eravamo là, fermi in un lungo cortile con attorno dei grossi capannoni, arrivo il camion della cucina e anche tutti i ritardatari. Finalmente distribuiscono la pastasciutta: Dio ne liberi! Era asciutta tanto per dire, ma l’appetito era davvero una guerra. Andiamo a dormire nei capannoni: né paglia e né fieno e così abbiamo riposato sul duro terreno. Il giorno 12 novembre mattina si sperava almeno in una mezza giornata di riposo, invece fu anche anticipata la sveglia, poi ci fu dato il caffè e due pagnotte, si affardella la bici e avanti o bersaglieri! Mentre i tre battaglioni si allontanavano, Dante cercò di trovare gli amici Maggiorino, Italo, Maggi, Franchini e Gorini e con l’animo fiero li salutava, trovandosi però sempre in compagnia dell’amico Gnutti, della stessa compagnia. Si parte, la bicicletta non andava avanti, ma con tutta la buona volontà e il coraggio si faceva tappa a Elbasan, Librashd e Perrenjes: altri 80 chilometri. Anche questi furono fatti e pian piano, ci avvicinavamo al nemico, con il nostro maggiore sempre in testa. E così, la sera del 12, ci siamo fermati nei capannoni di Librashd e una gavetta di tubi nella pancia l’abbiamo messa; poi a dormire sul bel soffice suolo di cemento.

La mattina del 13 novembre, un’oretta di tempo per potersi lavare e verso le 9 si parte. Il tempo è brutto, con acqua e nebbia, nessuna tregua, sempre avanti e siamo a Perrenjes e a dormire nei capannoni. Il 14 novembre mattino, sveglia, caffè, pulizia armi e bici e la giornata passò. Anche il secondo rancio fu consumato, gli ufficiali muti muti con la testa bassa: quasi ci siamo! Sono le 10, la notte è buia e arriva un’autocolonna, si lasciano bici, armi e munizioni e si sale sui camion. Si partì, non si faticava, ma la mente faticava di più che quando si pedalava. Coraggio! Scendiamo dei camion, siamo sempre fra le montagne; poi in camion arrivano le bici e ognuno si cerca la sua: sono sistemate per squadra e così per armi e munizioni. Ogni squadra si è riunita alla bell’e meglio, con la mantellina e il telo. In un attimo si fece il giorno 15 novembre. Lì ci danno un cucchiaino di cognac ciascuno e le sigarette: cosa ne faccio delle sigarette? Tutti gli uomini le desideravano e così me ne liberai, dandole a chi mi sembrava. In quattro e quattr’otto si trovarono le cime per mettere le armi e per non trovarci la sorpresa degli apparecchi, come il giorno 14. Pedalavamo a plotoni serrati, in mezzo alla strada, quando ad un tratto apparirono sopra le montagne tre apparecchi inglesi: e giù bombe! Fu un attimo a lasciare la strada e subito a terra. Quello fu il principio della guerra e fortuna ha voluto: nessuna novità. Siamo a posto con le armi, anche la nostra tenda è a posto e dopo due ore arriva l’ordine: è giunta l’ora! Giù dalla strada con tutto il nostro materiale è lì nel fosso venne l’ora del tramonto. Abbiamo preso un pezzo di carne e del brodo e poi, ben carichi di munizioni, il nostro maggiore davanti e noi che lo seguivamo, abbiamo attraversato lunghe montagne fino alle tre del mattino del giorno 16 novembre, incontrandoci con i nostri amici del XXIX battaglione. Arrivati alla nostra cima, tutti a lavorare, a fare la postazione delle armi per nostro interesse di salvare la pelle. Si fa giorno, la nostra necessità è non farsi vedere, l’appetito si fa sentire, prendiamo una scatoletta e ce la mangiamo, il tenente poco lontano stava nella sua buca e continuava: «Attenzione qua, attenzione là…» Così passò anche quel giorno. Si fa buio, arrivò il pane e sempre scatolette, ad ognuno la sua razione, sempre allerta e anche quella notte passò.

Il 17 novembre mattino, domenica, forse incomincia male: pallottole che fischiavano, colpi di mortai che arrivavano, sempre coraggio e attenzione e gli occhi che non lasciavano il buco della feritoia. Ad un tratto si vedono comparire tre con un fucile mitragliatore: la nostra Breda già puntata, nemmeno un attimo di tempo, una scarica e tutti e tre ruzzolavano giù dal cocuzzolo. La giornata fu lunga e continuamente piena di pericolo. Si fa sera e nessuna novità dal nostro plotone, ma sappiamo che al secondo plotone, che stava poco lontano da noi, i due colleghi bersaglieri Guani e Ciglio, poveretti, restarono morti, e uno, il bersagliere Fois, leggermente ferito: questi furono i primi colpiti della compagnia. Pazienza e coraggio! Qualche giorno passò e siamo all’alba del giorno 22 novembre, si inizia male, con colpi di mortaio che arrivavano a più non posso; la terza compagnia era davanti a noi e, trovandosi sotto un incessante fuoco, chiamava un’arma pesante in rinforzo; due parole del tenente: «Schiavi! Vai giù con tutta la squadra!»  Mi si arricciano i capelli, ma bisogna andare tutti decisi: e giù le pallottole che fischiavano! Siamo dentro una postazione già fatta dagli amici, nessuna novità, ma far fuoco sarebbe male nostro, perché saremmo scoperti. Sempre attenzione, arriva un colpo che butta giù tutta la postazione degli amici che stavano vicino a noi e lì ci fu un ferito.  

Il 23 novembre si fa sera, l’ordine era che al buio si doveva lasciare il posto; la terza compagnia, pian piano, squadra per squadra, scende, poi pure Dante si prende tutto il suo materiale e segue. Chissà dove andiamo… Cammina e cammina, la notte buia, sempre montagne, le forze mancavano, arriviamo al comando di battaglione, il maggiore ci fa coraggio e poi giù da una ripidissima montagna. L’amico caporalmaggiore Ansaldi, che comandava la prima squadra, inciampa, cade e si ferisce alla faccia: gli infermieri chissà dove sono e così, con un po’ d’acqua, si disinfetta e con un fazzoletto si copre la ferita, con il suo impegno l’amico ci segue. Destino vuole che arriviamo là dove siamo partiti il giorno 15, e dove anche avevamo lasciato le biciclette. Ma si sente una voce: «Presto! Presto ragazzi! Portate il materiale sul camion, poi prendete la bici e giù, ché siamo circondati!» Ma noi, innocenti e tranquilli, ce ne andiamo a prendere la nostra bici: e chi la trova? Nella maggior parte sono tutte rotte dal mitragliamento degli apparecchi, ne prendo una, le ruote girano e avanti! In pochi secondi tutto il plotone fu adunato, il tenente davanti. Sono le 12 e 30, è tutta discesa e giù a rotta di collo! Lì ognuno pensava per proprio conto e dubitava di quello che poteva avvenire. Coraggio! Il maggiore passava in macchina e ci incitava: «Sotto! Sotto ragazzi! Non fermatevi, avanti sempre! » Sono le tre, poco lontano si sentivano cannonate ed arriviamo nell’abitato di Corizza. Arriviamo nella città tutti sbandati, uno qua e uno là. Il tenente si ferma e mette la bicicletta appoggiata ad una pasticceria: Dante guardava le paste ma c’era la vetrina e cosa si va a pensare? Un buon numero di bersaglieri del plotone si è radunato, ma ci fermiamo per aspettare tutti i ritardatari. La fame era sopra il 100%, ormai erano già 18 ore che il tascapane era vuoto. Dante dice sorridendo: «Signor tenente, avete visto quante belle paste c’erano in quella vetrina?» Lui mi risponde: «Perché non hai rotto la vetrina e non ti sei riempito il tascapane?» «Perché aspettavo il permesso almeno da voi!» E lui: «Così oggi le mangiano i greci!»

Allora Dante, che già dubitava male, chiede al tenente come stia la faccenda e lui mi dice sottovoce che avremmo dovuto ripiegare ancora per una settantina di chilometri e pedalare, altrimenti saremmo rimasti tutti prigionieri. Dante guardò in faccia un po’ il tenente e soggiunse: «Allora possiamo incamminarci, ormai quasi tutti i ritardatari sono con noi…» Gli scoppi di cannonate aumentavano sempre di più e rimasero feriti tre bersaglieri del XXXI battaglione, che ci passarono davanti trasportati sui motocarrelli. Avanti! Le forze mancavano, ma eravamo ormai sicuri di cosa si trattasse. Ognuno pensava per conto suo, tanti amici rimanevano privi di forze e cadevano svenuti sulla riva del fosso. Arriviamo al bivio che va a Valona e noi si proseguiva per Pogradec, dove stava la sussistenza. Dante dà una voce agli amici Elli e Guarneri, che subito si allontanavano e in pochi minuti arrivarono con quattro o cinque pagnotte, che in poco tempo furono da ciascuno divorate: sembravamo bestie feroci.

Erano le 8 del 23 novembre e c’era un bel sole brillante, ma i greci avanzavano a tutta forza: dove andiamo a finire qua? Mah! Chi lo sa? Siamo a 8 km da Pogradec, ci fermiamo, parecchi aerei nemici rombavano sopra di noi: appena da noi visti, tutti a terra giù nei cespugli. Arrivarono il caffè e il pane, un attimo per mangiare tutto, il camion della cucina parte e si va avanti. Lì si era riunito tutto il reggimento e tutti domandavano dei loro amici che stavano al XXXI battaglione, del quale, per la batosta presa, era rimasto meno di un terzo. Quanti poveri ragazzi! Chi morti, chi feriti, chi prigionieri e sperduti: la 10a compagnia era ancora quella più numerosa. Dante domanda degli amici, tutti presenti, meno male e coraggio! Il caporalmaggiore che nella notte era caduto scendendo dalla montagna era contento di essere con tutti noi e, senza volere, si incontra col fratello che stava nel Genio. Tutto contento passava una mezz’ora col fratello. Gli apparecchi continuavano a girare sopra di noi senza un attimo di pace: qua andiamo bene! Portiamo le biciclette dietro la montagna di fronte a Pogradec, che poi le portano a Librashd coi camion, e noi in fila per uno, dietro al nostro capitano Sereno, comandante di compagnia.  

RIFERIMENTI


Il nemico si vede.
A differenza che nella Battaglia delle Alpi, ove il nemico sparava cannonate e uccideva senza mai vedere (anche l’incursione con armi leggere di una pattuglia francese al campo del XXVI battaglione avvenne di notte e scomparve nel buio), qui i greci si fanno vedere e sentire. Capiamo da questi frangenti l’importanza dell’addestramento militare, fisico e mentale.


Verso il fronte

Appena dopo lo sbarco il maggiore Ferrari lascia il comando del trentunesimo battaglione che viene assunto dal maggiore Bernardino Grimaldi […]

Il 10 novembre il colonnello comandante è invitato nel pomeriggio a recarsi a Tirana, al Comando Superiore Truppe Albania, per ricevere ordini ed istruzioni. Il tenente Bologna ed io lo accompagniamo….
Mentre il colonnello si presenta rapporto, noi attendiamo in cortile più di un’ora aspettiamo punto alla fine ecco il colonnello Scognamiglio. Fuori ormai buio, ma ancor più buio è il volto del colonnello. Direi che sono evidenti segni di una collera mal repressa. Ci spiega. Il rapporto, al quale partecipavano il comandante delle forze armate italiane Albania e dei comandanti di alcune grandi unità dislocate nel territorio si svolge alla presenza di S.A.R. il Principe di Piemonte.

La situazione militare, contrariamente a quanto si poteva pensare leggendo i giornali, è molto seria ed occorre provvedere al più presto. Tenuto conto delle poche strade esistenti, il nemico esercita la sua pressione in gran parte sul fronte tenuto dalla 9a armata ove, se riuscisse a sfondare e risalire alla strada che dal confine porta a Erseke, Corizza ed Elbasan, potrebbe raggiungere anche Tirana ed aggirare l’intero schieramento del nostro fronte, avendo inoltre poi, per buon tratto, la sua ala destra disimpegnata, passando alla strada suddetta proprio rasente al confine jugoslavo (Lago d’Ocrida). Bisogna quindi disporre affinché importanti aliquote di truppe si trovino su quel tratto di fronte al più presto possibile, al fine di sbarrare il passo al nemico e servire di rinforzo all’insufficiente massa di uomini già in azione su quel settore, nonché permettere l’afflusso di ulteriori reparti e respingere successivamente i greci nel loro territorio.

I bersaglieri del 4° devono trovarsi entro 48 ore a Erseke, a fronteggiare le infiltrazioni del nemico su quel lato. Comprendiamo ora la collera del colonnello, forse non tanto dovuto all’evidente incongruenza dell’ordine, dettato naturalmente dalla preoccupante situazione, quanto dall’amarezza di dover ammettere che i bersaglieri del 4° non potranno con la bicicletta affardellata eseguire interamente l’ordine ricevuto. Se pensiamo agli assi del ciclismo che in tempo di pace partecipa alla d’Italia, potremmo sorridere di questa apprensione, ma se consideriamo invece che occorre fronteggiare un nemico per raggiungere il quale i bersaglieri dovranno percorrere più di 280 km, portando con sé l’intero equipaggiamento ed armamento individuale, ed usando solo le tanto gloriose biciclette militari a gomme piene ruota fissa, e pesanti solo come i bersaglieri sanno, braccando poi su strade montagnose quasi sempre a fondo naturale, forse ci convinciamo che il tempo assegnato è proprio un po’ pochino. In ogni caso i bersaglieri del 4° faranno tutto quanto sarà possibile a marce forzate per raggiungere l’obiettivo. Domani, 11 novembre, partenza.

I bersaglieri effettuano così il giorno seguente la prima tappa del trasferimento da Durazzo a Elbasan ono circa 80 km. Il primo tratto è abbastanza agevole, ma poi, appena usciti da Tirana, bisogna superare una catena di colline abbastanza alte, su una strada che per oltre 20 km sale continuamente, con tratti a volte ripidi, per cui occorre spingere le biciclette a mano. Con il termine della discesa termina anche l’asfalto e comincia il fondo naturale, duro e sassoso se il tempo è asciutto, ma che si trasforma in una specie in una spessa e viscida poltiglia fangosa quando piove. A sera si è a Elbasan. La marcia ha largamente provati i bersaglieri, date anche le condizioni della strada ed il peso del materiale che ognuno porta con sé. Tuttavia, essendo l’11 novembre festa nazionale, il reggimento, al suo arrivo a Elbasan, deve anche sfilare di corsa, bicicletta alla mano, davanti alle autorità presenti. Questo supplemento di fatica, al termine di una giornata di marcia, anziché fiaccare il morale degli uomini, lo eleva, perché si sono resi conto di quante energie essi posseggano. Poi riposo. domani si prosegue.

[…]

A metà circa del percorso giungono invece da Elbasan alcuni autocarri, mandati dal comando superiore, per caricare il più possibile i bersaglieri e portarli più celermente sulla linea del fronte, ove la situazione si fa più allarmante. È il XXXI battaglione che inizia il trasferimento dei suoi reparti su autocarri, mentre gli altri bersaglieri proseguono in bicicletta la marcia.

Fronti e schieramenti a nov-dic 1940

(www.anafirenze.it/2019/10/25/la-campagna-di-grecia/)


Le operazioni al fronte
Nell’immagine riportata sopra sono rappresentati gli schieramenti delle divisioni dei due eserciti e la stabilizzazione dei fronti in tre diverse fasi (molto breve nelle prime due, pressoché definitiva la terza). Il 4° reggimento bersaglieri, dopo il trasferimento da Durazzo, si spinge sino alle alture nella zona di Erseke, dove era in atto uno sfondamento da parte dei greci. Si espone particolarmente in questa operazione il XXXI  battaglione, che, inviato in avanti in rinforzo al 1° reggimento bersaglieri (VIII corpo d’armata, divisione Bari), tiene la posizione sotto tiro nemico fino all’ora ordinata e sfugge all’accerchiamento solo a duro prezzo, prima di ricongiugersi con il resto del reggimneto a Erseke. Secondo il rapporto del colonnello comandante ci furono: 10 morti, 101 feriti, di cui 11 ufficiali e 20 dispersi. Secondo altre fonti, invece, compresi il diario di Quaglino e la testimonianza di Dante (“… era rimasto meno di un terzo…”). Nell’operazione si distinsero il comandante di battaglione, maggiore Bernardino Grimaldi e il sottotenente medico Loris Annibaldi, al quale, decorato di medaglia d’oro, è stato intitolato l’Ospedale militare di Baggio a Milano.
Alla fine del ripiegamento di Dante si attesta sopra Pogredec, all’estrema sinistra dello schieramento italiano e della divisione Venezia..


Sottotenente medico Loris Annibaldi

www.movm.it/decorato/annibaldi-loris/


Nasce nella cittadina di Offida nel marzo del 1912 e dopo la maturità classica, su esempio del padre Giovanni, si iscrive alla facoltà di Medicina a Torino. Lavorò come assistente presso l’Istituto di Urologia laureandosi brillantemente nel 1937 e nell’aprile del 1938, fu ammesso a frequentare la Scuola di Applicazione di Sanità a Firenze come allievo ufficiale medico di complemento, da qui uscì in qualità di aspirante ufficiale dopo soli quattro mesi.

Assegnato al 2° Reggimento Artiglieria da campagna, fu promosso sottotenente e collocato in congedo nel gennaio del 1939.
Richiamato in servizio pochi mesi dopo, viene assegnato al 53 Reggimento Fanteria “Umbria” dove rimane fino al febbraio del 1940, quando viene trasferito al 4 Reggimento Bersaglieri, dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, partecipò alle operazioni sul fronte occidentale contro le truppe francesi. Con l’inizio della campagna di Grecia il suo reggimento sbarca in Albania, a Durazzo venendo nuovamente riassegnato e questa volta al XXXI Battaglione Bersaglieri, partecipando attivamente alle azioni militari.
Nel mese di novembre si distinse nella zona di Erseke nel sud dell’Albania aiutando a curare ed a sgombrare i feriti dalle prime linee, di conseguenza esponendosi a rischi personali infatti rimase gravemente ferito per medicare un bersagliere e rifiutando la resa, continuò a difendersi fino alla morte dai nemici anche con il lancio di bombe a mano.
Per onorarne la memoria nel 1953 gli fu decretata la concessione della Medaglia d’Oro al Valore Militare, sempre in quell’anno gli venne intitolato il Centro Ospedaliero di Milano mentre ad Offida più tardi anche gli saranno intitolati una via ed il locale ospedale.  
 (www.habitualtourist.com/loris_annibaldi(offida)

Wikipedia
Decorazione
Offida

Attacco e difesa
Retorica fascista a parte, una volta ancora si conferma l’assoluta mancanza di predisposizione per le guerre offensive dell’esercito italiano. Partendo dai vertici nelle fasi di pianificazione e fino all’ultimo dei soldati nel combattimento, l’Italia ha sempre dato il meglio di sé nelle battaglie difensive con successivo contrattacco, mentre le avanzate improvvide hanno sempre fatto danni (Caporetto-Piave-Vittorio Veneto) ne sono lo storico emblema. Anche in Albania, dopo la ritirata e un primo tentativo di arrestare l’avanzata greca da posizioni precarie, una nuova e credibile linea difensiva viene approntata e da quella non si passerà più, con il sacrificio e la tenacia dell’intero schieramento.  Anche nelle battaglie sostenute dai bersaglieri del 4° reggimento, nel suo relativo piccolo e pur facendo parte di una specialità votata allo slancio e all’attacco, ne abbiamo avuto un esempio, con innumerevoli episodi, come in molti altri settori del fronte per altro, in quanto, fallita l’assurda avanzata in inferiorità numerica, appena hanno potuto smettere di voltare le spalle ai nemici, essi si sono asserragliati sulle montagne e non sono più stati scalzati dalla linea predisposta al termine del ripiegamento. Il tutto, si badi bene, sempre disposti in linea e quindi ancora in inferiorità, nei punti dove invece i greci, con grossi reparti, concentravano gli sforzi di sfondamento, talora con successo, obbligando in tal caso i bersaglieri a contrattaccare per riconquistare gli eventuali capisaldi temporaneamente perduti. Il tutto al prezzo di perdite che, per alcuni reparti, hanno raggiunto il trenta per cento e che hanno richiesto l’invio al fronte di diversi complementi.

Impantanati!
L’avanzata è lenta e difficoltosa, si sprofonda nel fango, il primo nemico trovato dai nostri soldati. Le fasce gambiere si impregnano di terra e acqua e si fanno pesantissime. I muli e i cavalli  faticano come dannati, schizzando melma  a ogni passo; i loro zoccoli si squamano. L’artiglieria  arranca; la pioggia rende  fradicie le uniformi; sulle alture cade la prima neve; il vento non dà requie. I fiumi greci della zona scorrono impetuosi verso valle, mancano ricoveri degni di questo nome e, in zona di operazioni,  le truppe devono sistemarsi all’aperto. Visconti Prasca telegrafa al duce annunciando inesistenti progressi dell’avanzata. Mussolini gli risponde  lodandone  l’operato  e imponendogli di sbrigarsi. Facile a dirsi! Per mancanza di autocarri le nostre  divisioni erano state addestrate  a percorrere  quaranta chilometri al giorno a piedi, ma il cibo, le munizioni, le medicine, non viaggiano  a piedi. Gli alpini presagiscono il loro destino intuendo di avere un compito superiore alle  proprie forze. Ancorché valorosi, sono pochi per sfilare attorno allo Smolika, impadronirsi del passo di Metzovo e, contemporaneamente,  garantire il raccordo con le altre forze  schierate ai loro fianchi. E con un tempo da lupi, per giunta.

CRONOLOGIA BELLICA DEL 1940
(https://www.ushmm.org/- Wikipedia)

  • 4 giugno – Battaglia di Dunkerque: evacuazione di 300.000 soldati da inglesi.
  • 10 giugno – L’Italia entra in guerra contro Francia e Gran Bretagna, a fianco della Germania.
  • 10 giugno – Il Canada dichiara guerra all’Italia.
  • 10 giugno – La Norvegia firma la resa.
  • 14 giugno – Parigi viene occupata dalla Wehrmacht.
  • 14 giugno – Prigionieri politici polacchi provenienti diventano i primi internati di Auschwitz.
  • 20 giugno – Le forze armate italiane sferrano un’offensiva contro la Francia, modificando la loro iniziale strategia difensiva. Le operazioni sono però molto difficili per gli attaccanti, sia per la forte resistenza delle truppe francesi, che ha reso impraticabili i valichi montani, sia per le eccezionali condizioni del tempo, considerando la stagione.
  • 22 giugno – Prosegue il durissimo scontro tra le truppe francesi e italiane. Nonostante alcuni avanzamenti, l’Italia subisce sostanzialmente una sconfitta e deve a ridimensionare le aspirazioni territoriali iniziali.
  • 23 giugno – Adolf Hitler si reca in visita a Parigi occupata.
  • 10 luglio – Viene creata la Repubblica di Vichy sotto la guida del maresciallo Philippe Pétain.
  • 26 luglio – L’aviazione italiana bombarda la base navale di Alessandria e la base di Gibilterra.
  • 3 agosto – in Africa orientale inizia l’attacco italiano contro la Somalia britannica.
  • 7 settembre – Battaglia d’Inghilterra: la Luftwaffe inizia il bombardamento ininterrotto di Londra.
  • 13 settembre – Ha inizio l’offensiva militare italiana in Egitto.
  • 16 settembre – In Egitto truppe italiane riescono ad avanzare sino a Sidi el Barrani.
  • 27 settembre – La Germania, l’Italia e il Giappone firmano il Patto Tripartito.
  • 27 ottobre – Viene presentato l’ultimatum alla Grecia, che lo considera una vera e propria dichiarazione di guerra e lo respinge.
  • 28 ottobre – L’Italia invade la Grecia.
  • 29 ottobre – Le truppe italiane dislocate in Albania, 105.000 uomini, delle divisioni Siena, Ferrara, Piemonte, Parma, Venezia, Arezzo, Centauro e Julia, varcano la frontiera greca e penetrano per vari punti in territorio nemico.
  • 31 ottobre – Termina la battaglia d’Inghilterra, almeno quella considerata preparatoria dell’invasione.
  • 2 novembre – In Grecia prosegue l’offensiva delle truppe italiane, mentre i greci si riorganizzano per bloccare l’avanzata italiana.
  • 4 novembre – I greci passano al contrattacco e attaccano la divisione Julia al passo di Metsovo, respingendo il tentativo delle altre divisioni di evitarne l’accerchiamento.
  • 8 novembre – La divisione alpina Julia riesce ad evitare, a fatica, l’accerchiamento delle truppe greche.
  • 11 novembre – La marina inglese lancia il primo attacco aereo da una portaerei della storia, contro la flotta italiana a Taranto.
  • 12 novembre – Respinta l’avanzata italiana e disponendo della superiorità numerica, l’esercito greco si prepara a contrattaccare su tutta la linea del fronte greco-albanese.
  • 18 novembre – Hitler incontra Galeazzo Ciano per ragguagli sulla disastrosa campagna di Grecia.
  • 20 novembre – Ungheria, Romania e Slovacchia si schierano a fianco dell’Asse.
  • 21 novembre – Sul fronte greco-albanese, le truppe gerche penetrano in territorio albanese, occupando Erseke e Corizza e facendo numerosi prigionieri.
  • 25 novembre – Firma del Trattato di amicizia tedesco-sovietico.  
  • 27 novembre – In Romania c’è il colpo di stato del generale Antonescu, con l’esilio del re Carol II.
  • 27 novembre – La marina inglese e quella italiana si scontrano a Capo Spartivento.
  • 5 dicembre – Prosegue l’avanzata delle truppe greche in Albania, che occupano Pogradec, sul Lago d’Ocrida. Con l’aggravarsi della situazione, l’Italia fa affluire numerosi rinforzi, anche se in maniera non organica e in quantità insufficiente.
  • 6 dicembre – Il Comando italiano riesce a costituire una linea difensiva che va dalla costa sino al lago di Ocrida, con i greci che, temendo di scoprire i fianchi e anche in quanto privi di mezzi corazzati, non affondano la spinta lungo le direttrici d’attacco.
  • 9 dicembre – In Egitto gli inglesi sfondano le linee italiane a Sidi-el-Barrani, ove le sette divisioni di Graziani non reggono all’urto delle due inglesi. Gli italiani, che nonostante la schiacciante superiorità numerica, si erano fermati invece di proseguire l’avanzata, ora sono costretti alla ritirata.
  • 11 dicembre – In Egitto in quattro giorni di battaglia, vengono distrutte quattro divisioni italiane.
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Rumori di battaglia e grida disperate

La mattina del giorno 11 novembre la sveglia suona in anticipo, fu dato l’ordine di disfare le tende e preparare il fardello sulle biciclette. Ci diedero del del caffè e poi partenza… destinazione il fronte!

[…]

La strada era lunga. In una sola tappa raggiungemmo Elbasan dove passammo la notte. La mattina seguente partimmo per fare tappa a Librashd, per essere caricati l’indomani a bordo di camion, coi quali superammo Corizza, per fermarci a circa 20 km dal fronte. Appena i camion ebbero spento i motori, le deflagrazioni delle granate e delle armi presero il posto del rumore dei motori nelle nostre orecchie: era un rullio continuo di spari. Non appena fummo scesi dai mezzi, iniziammo subito l’avvicinamento verso il fronte, a piedi, perché le biciclette erano state lasciate a Librashd. Camminavamo in fila indiana, per squadre, sulla strada rotabile, dove si incontravano i mezzi che ritornavano dal fronte ed era una scena che si ripeteva. Era assai sconfortante vedere tanti veicoli, carichi di morti e feriti. Parlando con alcuni feriti o con chi tornava dalla zona di combattimento, apprendevamo che le cose al fronte andavano male, che i greci venivano avanti come formiche e che i nostri soldati erano pochi e stavano battendo in ritirata. Fra i tanti mezzi che incontrammo c’era un motocarro dei bersaglieri del nostro reggimento che portava a bordo un bersagliere morto e due feriti. Loro appartenevano alla compagnia motociclisti ed avevano avuto la fortuna di arrivare prima di noi al fronte e dunque la fortuna di morire prima di noi.

[…]

La nostra presa di posizione sui monti attorno a Corizza da parte del nostro reggimento era solo una manovra per far ritardare l’avanzata dell’esercito greco, che era in atto in modo massiccio. Infatti il giorno 17 novembre l’esercito greco arrivo in contatto con la nostra linea e la notte stessa saltarono nelle nostre posizioni, usando anche i mortai. Lo schieramento del fronte andava dai confini della Jugoslavia fino al mare Adriatico. Anche se noi eravamo stati in grado di fermare l’avanzata dei greci del nostro settore, lo stesso non era avvenuto in altri settori, dove la difesa era debole e i soldati avevano ripiegato, cosicché noi ci ritrovammo avanzati, in una specie di sacca, con il rischio di rimanere accerchiati!

[…]

La sera del 21 novembre, rimanemmo solo 25 bersaglieri per ogni battaglione, scelti fra quelli che non avevano nessun ruolo specifico nelle rispettive squadre. Ogni gruppo era al comando di un capitano. Ci siamo suddivisi per tutto il settore, un bersagliere ogni 50 metri, con l’ordine di sparare all’impazzata colpi di fucile e fare lanci di bombe a mano, per dimostrare la presenza dell’intero battaglione ancora in quel settore. L’ordine era di riunirci tutti dal capitano a mezzanotte.

[…]

Allo spuntare del sole avevamo raggiunto la nostra compagnia, che si trovava proprio in prossimità dello stradale e, dopo aver comunicato il nostro rientro, riprendemmo il nostro posto in squadra.

[…]

Il 22 novembre tutta la nostra compagnia si trovava ai margini della palude che si estende dal lago d’Ocrida alla città di Coriza.

[…]

Dato che noi eravamo all’interno del bosco, la nostra posizione venne segnalata ai conducenti della motocarrozzetta della cucina da una nostra pattuglia che sostava sulla strada. Infatti il mezzo lasciò lo stradale e venne a fermarsi a 50 metri dal limite del bosco, in uno spiazzo di terra nudo. Appena si fermò tutti prendemmo le nostre gavette e di corsa andammo a prelevare il rancio. Man mano che si prendeva la propria razione si ritornava nel bosco. Eravamo rimasti ancora in una decina attorno alla motocarrozzetta ad aspettare il turno, quando apparvero nel cielo cinque aerei disposti in formazione. Quando avemmo la certezza che erano apparecchi inglesi, scappammo a rifugiarci dentro il bosco, dove si trovavano tutti gli altri. Fu un errore. Perché, non appena all’interno del bosco, alzai gli occhi e vidi che un aereo si era staccato dalla formazione diretto sopra di noi. Io lo guardavo fisso e lo vidi sganciare quattro grosse bombe. Ero come paralizzato, mi trovavo alzato e vi rimasi: dopo un attimo il fragore delle bombe in picchiata sopra le nostre teste chiusi gli occhi e pensai che saremmo morti.

L’esplosione di quelle quattro bombe avvenne pressappoco contemporaneamente: una cadde proprio vicino a me e lo schianto fu terrificante; sopra di me caddero sassi e rami di quercia falciati dalle schegge. Dopo pochi istanti il terribile boato lascio il posto alle grida strazianti dei feriti. Aprii gli occhi, ma non riuscivo a muovere né le gambe né le braccia. Allora mi guardai addosso per vedere se ero insanguinato, ma, per mia fortuna, non avevo subito gravi ferite, ma solo qualche escoriazione provocata dai rami e dalle pietre e a poco a poco ripresi il controllo degli arti. Iniziai a guardarmi attorno per capire cosa fosse successo ai miei compagni: tre bersaglieri vicino a me erano morti, mentre uno ferito emetteva grida terrificanti. Un tale Baggio, che poco prima avevo notato seduto sopra un tronco caduto, ora giaceva a cavalcioni sul tronco, con il corpo spaccato, una metà da una parte del tronco e una metà dall’altra parte, unite da un brandello di carne e di pelle. Stringeva ancora fra le mani il manico della gavetta, piena di pastasciutta. Mentre un altro, ricordo che si chiamava Valsesia e che nel momento in cui abbiamo visto scendere le bombe si trovava al mio fianco, si era buttato per terra ed era stato colpito da una scheggia alla testa e anche lui era morto. L’altro morto si chiamava Intressalvi, mentre il caporale Fornara era rimasto ferito alla schiena da una scheggia che gli aveva spezzato la spina dorsale ed emetteva grida che facevano rabbrividire.

[…]

il giorno 26 novembre, all’alba, il battaglione partì allo scontro con i greci per fermarne l’avanzata o perlomeno per ritardarla.

[…]

Dopo lo scontro e appena sopraggiunta la notte, potemmo arretrare fino a Pogradec.

[…]

Il 27 e il 28 novembre rimanemmo appostati attorno al paese di Pogradec.

[…]

Il capitano ci disse che il comando generale stava prendendo in considerazione la prospettiva di costituire una linea difensiva lungo questa catena di monti e che, al nostro battaglione, era stato assegnato questo primo tratto a partire dal lago in su. Questo tratto affidato alla nostra difesa era molto importante, geograficamente parlando, e noi eravamo stati chiamati a difenderlo. Probabilmente era lì che avremmo passato l’inverno e quindi era necessario che, una volta avuto assegnato il tratto da difendere, ognuno di noi avrebbe dovuto lavorare per costruire dei camminamenti, con postazioni e tende stabili…

Costruii la mia tenda dove passare il tempo durante i momenti in cui non ero di guardia nelle fredde notti. Il terreno era montuoso, apparteneva al massiccio del Monte Kalase.  


Maggiore Bernardino Grimaldi, comandante del XXXI battaglione, decorato con medaglia d’argento

Motivazione

Grimaldi Bernardino, fu Luigi e di Cricelli Giuseppina, da Roma, maggiore del 40 reggimento bersaglieri. Comandante di un battaglione bersaglieri incaricato di proteggere il ripiegamento di altre truppe, pur essendo il suo reparto decimato dal tiro dell'artiglieria nemica ed attaccato da soverchianti forze avversarie, resistette sul posto fino all'ora indicatagli. Accerchiato dall'avversario, si apriva coi propri uomini un varco, assaltando con bombe a mano. Pur essendo ammalato di pleurite, combatteva strenuamente, primo fra i primi, alla testa del suo battaglione, infondendo col suo eroico comportamento e con la sua forza magnifica dell'esempio, fiducia, spirito ed ardore nei suoi dipendenti. Quota 1464 di Drenova, fronte greco 19-21 novembre 1940.

 

L'OFFENSIVA GRECA E LA DIFESA SUI MONTI

IL RACCONTO

Lo seguiamo, tutti i carichi con armi, cassette e porta mantellina, con dentro la coperta-telo e altra roba di vestiti, tutti stanchi, brutti, la barba lunga: guai se qualcuno dei miei cari mi avesse visto! Erano le 14, si camminava su di una stradetta che sempre saliva, ma già dopo 4 o 5 chilometri eravamo lontani dai compagni degli altri due battaglioni. Sentiamo una scarica di mitragliamento da un apparecchio e un rombo acuto, tutti pensavamo al nostro presente. Di tanto intanto arrivavano motocarrelli che portavano materiale e munizioni e ci dicono che quel mitragliamento dell’apparecchio ha preso in pieno la 10a compagnia che stava prendendo il rancio: 5 morti, 17 feriti e 2 ufficiali molto gravi. Anche lì l’amico Maggi di Broni fu salvo. Sempre avanti e di tanto in tanto ci davano qualche minuto di riposo perché sapevano che le forze ormai erano esaurite. Mentre passavano i motocarrelli, ci buttavamo tutto sopra, perfino il porta mantellina. Viene il tramonto e ancora si cammina: sono le 21 sempre del 23 novembre e la notte è buia. Viene un portaordini a farci coraggio, preannunciando che presto sarebbe arrivata la pastasciutta: coraggio sì, ma le forze erano perdute. Ci fermiamo giù, in fondo a una montagna e dopo una mezz’ora arrivò il rancio: una guerra e in breve tempo tutto fu divorato. Il capitano ordina che possiamo metterci giù a dormire al meglio: per fortuna ci siamo tenuti la mantellina, così ci siamo messi in tre vicini e dalle 22 abbiamo riposato fino alle 6 del 24 novembre.

Sono le sei, siamo più morti della sera prima, ma bisogna andare avanti e anche i motocarrelli venivano a prendere i bersaglieri che più faticavano ad andare avanti. Sono le 8, arriviamo dove tutto il nostro materiale era a terra, ognuno si cerca tutta la sua roba che aveva in consegna, tutti i porta mantellina sono mischiati, io me ne sono preso uno e va’ là che vai bene! In poco tempo tutto fu trovato: arma, treppiede, cassetta e canna di ricambio. Ci sbattono su di una mulattiera e sempre avanti; tutte le altre compagnie erano già avanti e alle 11 siamo tutti insieme. Alle 14 arrivò il nostro colonnello con un generale, hanno visitato tutta la cima e poi sono scesi. Il tenente ci assegna il posto e il settore, facendoci fretta nel preparare la postazione. Vado alla 3a compagnia in cerca di un piccone, lo trovo e mi sbrigo a fare la postazione. Non ho ancora finito del tutto e giù acqua, poi si fa notte e il tascapane è vuoto, pazienza! La notte passò e il 25 novembre mattino, alle 10, arrivò un po’ di caffè e il cuciniere ci dice che alla sera avrebbero portato gallette e scatolette. Il fronte è calmo, la giornata passò, tutta con tempo brutto, acqua e nebbia.

Passò il 26 novembre, siamo al mattino del 27 novembre e tutti siamo in attesa di qualche cosa per scaldarci la pancia. Da più di due ore stava passando il 208o reggimento fanteria6, dopo arrivò il caffè, ma ormai era freddo: qua c’è da stare allegri! Coraggio! Il 28 novembre mattina, piove e c’è una nebbia fitta fitta, bisogna spiantare tutto e ancora bisogna salire: per fortuna abbiamo i muli che ci portano su le armi. Avanti e giù acqua, sono le 16 e tutto il battaglione è riunito, il nostro maggiore vuol farci una predica e per una bella mezz’ora ne ebbe da dire: con lui non si andava mai bene abbastanza e la pancia era sempre vuota. Anche lui si calmerà, lascia che gridi! Il primo plotone deve andare con la 1a compagnia, i muli hanno lasciato le armi lì da noi e sono scesi. Armi in spalla e avanti, ormai è notte. Il tenente ci dà un punto così alla bell’e meglio e piazziamo l’arma; intanto l’amico Formica si allontana e dopo 10 minuti arriva con una bella carga7 di fieno: facciamo la tenda e sotto. Chi fa la guardia allarma, ma speriamo non voli via8. La notte passò.

Il 29 novembre mattino, il tenente viene ad assegnarmi il posto dove fare la postazione e il settore, in fretta tutto è fatto, l’arma è a posto, nel caso eventuale che un’altra postazione soffra8. È notte, non piove, ma è nuvolo, bisogna fare attenzione alle piante8. La buca non era tanto alta. Per paura che i greci vengano a portarci via l’arma, ci dormiamo sopra. Ci svegliamo al mattino e abbiamo il telo sulla pancia: c’era stata una bella nevicata, più di 30 centimetri! Da qui incomincia il bello: in qualche modo ci siamo arrangiati ad alzarci un po’ la tenda, ché levarci la neve sarebbe stato un errore, era come farci scoprire, meglio lasciare tutto bianco. Che bei giorni!

Il 30 novembre niente rancio e tutte le scarpe rotte. Il mattino del 1o, del 2 e del 3 dicembre ci furono diversi squilli di tromba e grida che venivano da lontano, con i greci che avanzavano: qua la si fa bella la faccenda! La barba era stata tagliata l’ultima volta il 15 novembre e ricominciava ad allungarsi, acqua per lavarci non ce n’era e bisognava lavarsi con la neve, il freddo incominciava a farsi sentire. La sera del 3 dicembre arrivò un po’ di rancio e, là vicino al fuoco, in poco tempo tutto fu divorato. Il nostro aiuto era proprio il fuoco e, sebbene scalzi e in mezzo alla neve, il coraggio di andarci a prendere la legna nei boschi c’era sempre. Più era il tempo che si stava vicino al fuoco che sotto la tenda. Sono le due del 4 dicembre, Dante se ne va sotto la tenda con i piedi asciutti e caldi e subito si addormenta. Si fa giorno, un bel sole che brilla contro la neve, tutti quei giorni così tranquilli, chi lo va a pensare? Ma quando nessuno se lo aspettava, arrivava una scarica di lanci di mortaio: fischiavano sopra che era un piacere sentirli! Chi sono? I nostri no, sono i greci? Ma chi ne sa qualche cosa? Non sono ancora le 10 quando il tenente mi fa avvisare di sbrigarci e portare via tutto. In un attimo questo fu fatto, nessun’altra novità, ma i colpi di mortaio cominciavano ad avvicinarsi sempre più a noi. Il tenente segna un altro posto per piazzare l’arma alla sinistra delle altre due armi del plotone, lì vicino c’era una squadra di mortai nostri e sbracavano tutto. Dante diceva ai suoi amici di squadra: «Qua l’andiamo a vedere bella per la seconda volta!» Non ho ancora detto questo che il tenente comanda di preparare tutto, mentre si vedevano i greci sulla montagna opposta che avanzavano a gran forza. Arriva il tenente con tutti gli altri. I bersaglieri hanno i materiali in spalla, quelli dei mortai scendono giù e noi dietro.  Mulattiere ce n’erano dappertutto, chi li va a pescare? Passiamo accanto al comando del nostro battaglione e non c’è più nessuno, si scende un po’ a piedi e un po’ per terra, a ruzzoloni, Dante si accorge che ha smarrito la mantellina, le pallottole fischiavano dentro nei prati, colpi a gran forza, tric, trac e c’è il bersagliere Elli, il porta arma, che non ha più la forza di andare avanti (già da qualche giorno non si sentiva bene). Prende allora l’arma il bersagliere Barbero, lascia la cassetta accessori a Elli e avanti! La fila cominciava ad allungarsi, Dante si legava la scarpa con dello spago altrimenti la perdeva. Andiamo di qua e di là, la cassetta porta mantellina va per terra, tutto era lasciato per scappare: il tenente aveva dato proprio l’ordine di lasciare tutto fuorché la cassetta delle munizioni, ma le cassette erano pesanti e di fiato non ce n’era più. Dante si ferma, stacca il tascapane dalla cassetta e poi giù per la montagna a seguire gli amici. La cassetta e la canna scendevano da soli nel profondo canalone e quell’idea di Dante fu la sua salvezza: le forze ormai erano tutte esaurite e tenersi ancora quel peso sulle spalle voleva dire il rischio di rimanere prigioniero. Ormai la fila si era allungata, il tenente era lontano, Dante, sfinito, riesce a raggiungere gli amici ed è il momento di dover mettere i piedi nell’acqua se non vuoi essere prigioniero: davanti un canalone largo 12 metri, con dentro 60 o 70 centimetri d’acqua e per cavarcela l’abbiamo attraversato tre volte. Forse siamo fuori dal pericolo e ci fermiamo a riposare un po’ e ad aspettare i ritardatari.

Dante cadde per terra, già tutto bagnato e per quasi una mezz’ora rimase sulla neve e gli sembrava di essere a letto che riposava, ma era un gran male per la sua salute. Mi sento di alzarmi, vedo l’amico Barbero con l’arma che aveva preso in consegna e il bersagliere Elli, che aveva preso gli accessori: anche lui faceva pietà, vestito in qualche modo, non aveva le forze per camminare. Accanto a noi, il tenente ci fa coraggio e andiamo avanti: erano cinque ore che si camminava con la forza più tenace che una persona potesse avere. Tutti eravamo sfiniti, ma per salvarci la pelle si fanno degli sforzi proprio esagerati. Ormai è sera e qua forse viene il bello: noi eravamo con la prima compagnia e non si sapeva che fine avesse fatto il comando di battaglione. Arriviamo vicino a sei o sette capanne da albanesi 9, ma non si sa cosa fare perché sono abitate; c’è neve dappertutto e non abbiamo più nessun attrezzo perché avevamo smarrito tutto. Il tenente chiede ai capi squadra se le armi e le cassette ci sono tutte: la prima squadra una, la seconda una e la terza per fortuna ne aveva tre. Il tenente rimase molto contento di Dante perché la sua squadra teneva più munizioni che le altre due.

È sera e il capitano Palazzo, comandante della prima compagnia, dà l’ordine di seguirlo e si raccomanda che nessuno rimanga indietro, perché se no sono guai. Ci si incammina uno dietro l’altro, avanti e avanti su per una montagna, dappertutto neve, cammina e cammina, siamo tutti sfiniti. Dante non fumava e teneva con sé le sigarette distribuite, mentre tutti gli uomini erano rimasti senza. Mi dicevano che a loro una sigaretta avrebbe dato la forza come se avessero mangiato una pagnotta e così Dante dava sigarette a tutti. Noi camminavamo, ma chi ne sapeva dove andavamo a finire? Sono le due del 5 dicembre, con un freddo da cane arriviamo tutti bagnati sul Bregu i Bresaves: era questo il nome della montagna. Qua il tenente ci segna il posto e ci dà il settore, perché bisogna fare la postazione per l’arma: che bella notte! Ma con pazienza la postazione è fatta. Dante si teneva ancora il porta mantellina con qualche paio di calze, così mi sono seduto su di una roccia e mi sono cambiato le calze: i piedi sembravano in paradiso, ma la mantellina, Dante l’aveva perduta; per fortuna aveva ancora il telo da tenda, se lo buttò in testa e l’amico Martinelli, vedendo che io avevo il telo, anche lui s’infilò sotto; la squadra sparisce tutta, un bersagliere qua, l’altro là, ma Barbero non si trovava: pazienza!  

La notte del 6 dicembre passò e il giorno dopo, al tenente, la postazione non va più bene: cerca e cerca, mi segna il posto e il settore e anche questo fu fatto. Arriva il bersagliere Barbero che alla sera, sfinito per aver tenuto con sé l’arma, si era fermato nella capanna dei Giargianesi10, dove si era anche sfamato di carne di mulo morto. Il bersagliere Elli veniva ricoverato all’ospedale, Dante era con una sola scarpa, il tenente dà l’ordine di fare la tenda e un solo bersagliere rimane a turno vicino all’arma, ma teli non ce ne sono: come si fa? Qua c’è un telo solo, quello di Dante, che per il momento non si sa quanto può valere. Dante mise il suo telo sopra l’arma e attorno un bel muro di sassi: così un pochino si era riparati. Il telo ci ha la larghezza di due metri, ci mettiamo l’arma, tre cassette di munizioni, quella grossa piena dei pacchi che al mattino avevano mandato su coi muli della fanteria, ma rancio niente. Nel pomeriggio arrivò il nostro maggiore tutto sconvolto, perché il suo battaglione era tutto sperduto, un bel numero di bersaglieri fatti prigionieri, in particolare la maggior parte della terza compagnia ed il quarto plotone della quarta compagnia. Sapeva che eravamo vestiti a malapena e che c’era bagnato dappertutto, ma di ritirarsi niente da fare! Il colonnello aveva fatto domanda al generale per il cambio dei vestiti, ma la roba era lontana. Si pensava alla posta, ma chissà dov’è e chissà quando potremo scrivere! E quanta pazienza: dal freddo non si poteva resistere. Poi viene la notte dell’8 dicembre, con acqua, vento e una tormenta tremenda. Il tenente teneva la tenda poco lontano dalla nostra postazione e il vento gliela portò via, l’acqua gliela allagò tutta e così venne a ricoverarsi nella tenda che tenevamo su, un cento metri dentro nel canalone, ma c’erano diversi bersaglieri delle altre due squadre e figuriamoci: acqua e vento, c’erano solo due teli, c’era sotto il fuoco, che dopo una mezz’ora si spegneva perché la legna era verde e bagnata e poi nel canale cominciava a scorrere l’acqua. Si fa giorno, sotto la tenda non ci si può più stare e siamo tutti bagnati.

Il 9 dicembre il tenente pensa di andarsi a cercare un posto sotto le rocce della montagna che si trovava alla nostra sinistra: là, così, si fece la sua grotta e meno male che se ne va un po’ lontano. Teneva con lui tre porta ordini, l’attendente e in più il caporale Fava, lui pure assegnato alla mia squadra. «Qua andiamo bene! Cosa facciamo?», mi fa il bersagliere Barbero. «Cosa vuoi fare?», gli rispondo. «C’è da pensare di accendere il fuoco, ma come facciamo, come facciamo? Ecco, qua c’è la zappa del tenente e, col coltello, facciamo i ricci e vedrai che il fuoco si accenderà. Coraggio, tu fai un bel mucchietto di ricci!» «Ed ora i fiammiferi!» Dante non fumava, ma una scatola di fiammiferi ce l’aveva sempre in tasca e così verso le dieci il fuoco andava a tutta forza: ci siamo asciugati un po’ e poi con un po’ di volontà abbiamo rinforzato il muro attorno all’arma. A dover andare a cercare i sassi sotto la neve venivano dei pensieri nella testa che non si possono neanche spiegare, cose da piangere, eppure si sopportava tutto. Verso sera bisognava pensare di procurarsi la legna per tutta la notte, però tutti eravamo con le scarpe rotte e pensare di dover lasciare il fuoco e andare in mezzo a mezzo metro di neve c’era da mettersi le mani nei capelli; ma per essere un po’ tranquilli nella notte, con un po’ di coraggio ci si riusciva e, un ramo qua e l’altro là, ci preparavamo la legna. Il rancio arrivava ogni tre o quattro giorni.

Alla sera del giorno 9 dicembre ci portarono due gallette e mezza scatoletta per uomo. Figuriamoci! Appena a vederli non ce n’erano più. Per sentirsi la pancia un po’ piena si faceva sciogliere la neve, si faceva bollire la galletta con la mezza scatoletta e veniva fuori una bella gavetta di zuppa. Ma Dante ormai era preso da dolori di ventre e non poteva mai riposare, specialmente nella notte. La barba si allungava, per lavarsi bisognava adoperare la neve, coperte da coprirsi non ce n’erano: era veramente una compassione, vedersi uno con l’altro, lo sguardo sconvolto. Figuriamoci! La sera del 9 dicembre passò, passarono giorni 10, 11 e 12 dicembre e, finalmente, si ricordarono di portarci da mangiare. Dopo tre giorni senza mangiare non c’era neanche la forza di stare in piedi. Fortuna vuole che ci fossero quattro pagnotte e due scatolette per uno e riuscimmo a sfamarci. C’era il bersagliere Gagliardini che in dieci minuti si mangiò tre pagnotte e poi una la mise nella gavetta per fare la zuppa: rimase con la vista che l’indomani guardava in bocca a noi tre11, Barbero, Martinelli e Dante.

Ma da quel giorno i cucinieri avevano imparato per bene la strada e verso sera di tutti i giorni qualche cosa arrivava; poi lì attorno avevamo delle piantine che avevano come loro frutto delle palline nere come le olive, ma aspre, eppure diverse volte si mangiavano anche quelle. Giunse il giorno 18 dicembre, con un po’ di sole e con piacere si usciva da quella capanna, diciamo, a prendere un po’ d’aria sana e buona. Arrivò il furiere, chissà a fare cosa… Sapendo che di soldi non se ne poteva spendere, arriva per fare i vaglia, o meglio per prendere l’indirizzo dove sarebbe stato indirizzato il vaglia: e qui Dante spediva lire 300 alla sorella Rosa. Intanto che il furiere prendeva tutti gli indirizzi, Dante, che teneva nel tascapane qualche cartolina in franchigia, decise di dare sue notizie alla cara sorella, dicendo che lui stava bene. Di questo, Dante era contento, perché era dal 10 novembre che non dava più notizie a nessuno, tutto per mancanza di possibilità: chissà la sorella mia Rosa quanto pensava a suo fratello e veramente era così. Scritte le cartoline, Dante le consegna al furiere, assicurandosi che sarebbero partite, e lo ringrazia del gran favore, ma la posta in arrivo per noi? «Chissà dov’è e quando la vedrete…», il furiere diceva a Dante. Ebbene pazienza, basta essere vivi e che per le feste di Natale abbiano avuto quella cartolina, tanto per dare un po’ di tranquillità a casa e poi, per il resto, pazienza, tanti saluti e auguri.

Il mattino del 19 dicembre viene il tenente a farci una visita, facendo la nota delle scarpe e dei teli mancanti, ché avrebbero fatto il prelevamento nella giornata stessa. Il giorno 20 dicembre Dante veniva avvisato di scendere dal tenente con la nota che il giorno prima aveva fatto con lui: due o tre maledizioni, ma se ci fossero le scarpe non mi sarebbe dispiaciuto andare giù. Arrivato là, c’è un mucchio di scarpe e di teli, Dante voleva prendersi un paio di scarpe; cerca e cerca, ma fu costretto per forza a prendere un paio di scarpe strette, ché meglio non ce n’erano, ma sarà meglio che essere scalzo. Poi prende in consegna i teli per i bersaglieri della squadra che ne avevano bisogno e per ultimo ci sono anche tre o quattro giubbe: Dante chiede al tenente e riesce ad averne due, una per il Gagliardini e l’altra per lui, poi saluta il tenente e parte su per la mulattiera. Si facevano tre passi avanti e due indietro e con tanta fatica Dante riusciva in mezz’ora ad arrivare alla sua tenda,  avvisando gli amici che avevano bisogno delle scarpe di scendere dal tenente. Poi subito a rinforzare la tenda con i nuovi teli, per essere riparati dal vento e dalla neve. Dante si lamentava della scarpa sinistra che gli stringeva il piede e così taglia un po’ la scarpa, ma l’indomani il tenente sale alla squadra a fare una visita e vede la scarpa nuova tagliata: così dà il cicchetto a Dante, ma uno scrollo di testa basta e tutto passa. «Ci ho una bella notizia», fa il tenente, «il giorno 23 vengono a darci il cambio!». Nemmeno sembrava vero, perché di tanto in tanto si sentiva la voce ma mai non avveniva, speriamo questa volta che ce l’ha detto il tenente!

Le ore non passavano più, siamo al mattino del 23 dicembre, tutto calmo come tutti i giorni passati, solo un breve attacco avvenne il giorno 11, sparando solo cinque o sei lastrine e poi basta. È mezzogiorno e il tenente manda ad avvisare di preparare tutto, ché per le due avremmo avuto lì il cambio. Va bene, Dante dice ai bersaglieri che c’è la cassa delle munizioni da portare al tenente per metterla sopra il mulo, il mulo che il tenente si era trovato per suo servizio e dato in consegna al bersagliere Randazzo, che tutte le mattine andava nei boschi a fare la legna per il tenente. I due bersaglieri Martinelli e Gagliardini attaccano un pezzo di cordicella alla cassa e giù. Sono le due, tutto è pronto, arriva una squadra di fanteria, piazzano la loro arma, Dante dà la consegna al caporale della nuova squadra e parte giù per la mulattiera dietro al tenente. Dove andiamo? Ma chi lo sa! Dante cominciava a sentirsi un po’ bene, ma la forza era poca; coraggio! Arriviamo alle capanne che il giorno 4 dicembre avevamo lasciato: bisogna aspettare il maggiore e presto sarebbero arrivati i cucinieri con qualche cosa da mangiare. Tutti si aspetta, poi arrivano i cucinieri e c’è la Chiarizia12, meno male! Coi cucinieri c’era da conducente anche l’amico Gatti, che sapendo della poca voglia che quasi sempre Dante aveva di mangiare quello che poteva avere, contento portava sempre qualcosa a Dante e proprio quella sera Dante si avvicina all’amico e lui tira fuori un bel pezzo di formaggio! Dante ringrazia tanto l’amico, dicendogli che da quello avrebbe potuto averne un po’ di forza.

Per quella notte, ci siamo fermati lì due ore e poi arrivò il maggiore: «Avete mangiato?» «Signorsì». «Va bene, io no, ma non importa: materiali in spalla e seguitemi!» Dante si assicura che tutti i bersaglieri siano presenti e seguiamo il nostro maggiore. La notte è fredda, Dante era senza mantellina, ma in quelle due ore aveva aperto gli occhi e si era procurato una coperta, che si legò sulle spalle. La mulattiera era brutta, piena di acqua e neve, una cosa mai vista. Era buio, ma avanti sempre. Il bersagliere Gagliardini, poverino, aveva tutti i piedi gelati e non poteva più camminare. Dante aiuta l’amico levandogli il treppiede e consegnandolo al bersagliere Martinelli. Siamo alle capanne dove c’erano le cucine, entriamo in una di quelle, ci mettiamo dove stavano i conducenti che andavano a prelevare i viveri per noi e lì c’era acceso un bel fuoco: ci siamo asciugati un po’ e intanto Dante si rosicchiava il formaggio, che gli andava in tanto sangue. La bella vigilia del Santo Natale veniva alla più bella! E bisogna partire: per fortuna abbiamo i muli per caricare le armi, carichiamo i muli e un bersagliere rimane dietro il mulo, per osservare che niente si smarrisca. Si parte, giù e giù, dentro le scarpe acqua e neve, i piedi tutti bagnati e bisogna camminare. Cosa vuoi fare! Arriviamo sulla strada di Kukes, tutto il battaglione è riunito appena sopra la strada, in un bosco di querce per non essere visti dagli apparecchi.

Viene dato l’ordine di mangiare la scatola di Chiarizia che prima della partenza ci avevano distribuito e, nel mangiare quella minestra, sembrava che la gola si gelasse, di tanto fredda che era: ma, in mancanza d’altro, era buona sebbene fredda. Lì ci siamo incontrati coi portaordini del battaglione, che con la loro buona volontà e il loro impegno avevano diviso la posta compagnia per compagnia, consegnandola ai rispettivi comandanti. Da quanto tempo non si aveva più posta! Era dal 10 novembre ed eravamo alla Vigilia di Natale, un mese e mezzo. Il tenente consegna il pacco di posta al sergente Fosini, vicecomandante di plotone, dicendogli di chiamare subito i capisquadra per la distribuzione, così prima di partire avrebbero potuto leggerla. C’è la distribuzione e ciascuno aveva il desiderio di avere più posta dell’altro. La prima lettera di Dante è quella dell’Albertina, la figlia del signor Bailo, dove Dante passò due anni da garzone con quella buona famiglia all’età di diciott’anni, la seconda e la terza sono della Gilda, la quarta è della sorella Rosa, la quinta dello zio Amedeo e via dicendo: un’altra della sorella Rosa, qualcuna dai parenti, come la zia Dima, lo zio Camillo, poi una ancora della sorella Luisa e infine due cartoline illustrate, una della Giuditta e l’altra di Rosetta… fine. Dante, tutto contento, apre e legge prima quelle della sorella e via di seguito, man mano venivano. Terminò tutta la posta, contento delle buone notizie ricevute da tutti. Per noi figuriamoci cosa ci poteva essere di più caro che la fine della guerra, ma per il momento si sapeva che entro la primavera non ci poteva essere la vittoria.

Il maggiore si fa sentire: «Coraggio ragazzi, prepararsi, ché si prosegue in fila indiana!» Uno per uno e sempre avanti. Sono le 12 e 30, neanche mezz’ora che si cammina e troviamo il generale nostro comandante superiore e così tutti a cantare “All’armi!”, la canzone dei bersaglieri.13 Terminata la canzone, con poche parole ci fa coraggio con un “in bocca al lupo!” Bella questa! La maggior parte, poveri ragazzi, tutti con le scarpe rotte e a piedi per terra, la strada è brutta, piove, nevica e senza mantelline: c’era proprio da farsi coraggio. Pazienza, questa è toccata a noi e speriamo di cavarcela. Il generale aveva qualche pacco di sigarette e le offrì ai bersaglieri, distribuite mentre si camminava, non so più di preciso, ma toccarono otto o nove sigarette a testa. Dante le offriva a qualche compagno di squadra: non c’era proprio mezzo per abituarmi a fumare! Quasi tutti i fumatori subito a fare del fumo e molti desideravano di più una sigaretta che qualche cosa da mangiare, perché da parecchi giorni si trovavano senza. Col nostro comandante di compagnia in testa, capitano Sereno, si prosegue. Dove andiamo? A Kukes. Quanti chilometri ci sono? Mah! Si domandava alla truppa che si incontrava sulla strada e uno risponde dieci chilometri, l’altro dodici, l’altro undici: qua ne sanno tanto come noi! Sempre si cammina e si può immaginare una strada dell’Albania, col traffico che c’era, brutta, rotta, buche piene di acqua e di tanto in tanto qualche fosso d’acqua che attraversava la strada e che per forza bisognava passare. C’era il bersagliere Santagata, poverino, che era proprio scalzo, senza scarpe, addirittura in quei casi lo prendeva il capitano in groppa e lo portava di là dall’acqua: nella stagione in cui siamo si dovrebbe aver paura dover di mettere i piedi dentro nell’acqua, eppure, per la paura, dentro e avanti!

Cammina e cammina, si fa sera e sempre piove, maledetto perfino il tempo! «Che bella vigilia», pensava di tanto in tanto Dante, «ma sono ancora vivo, coraggio!» Sempre il pensiero alla sorella Rosa: chissà se avrà ricevuto la mia cartolina, almeno passerebbe un Natale un po’ tranquillo. Dopo tanto camminare arriviamo al desiderato Kukes. Siamo fermi, dopo nove ore di cammino: sono le 9, al buio e con la pioggia che viene giù a gran forza, aspettavamo gli ufficiali, che si erano allontanati per trovare il posto per ricoverarci. Dopo un quarto d’ora si ritorna indietro e ci siamo ricoverati nei capannoni dei lavoratori stradali. Dante cerca tutti i compagni della squadra per mettere tutto il materiale vicino e poi la miglior cosa è cambiarci le calze: poveri piedi, lo desideravo più che mangiare! La fame fa parlare: tutti si domandava agli operai se avessero del pane: così, una pagnotta uno, mezza l’altro, ci siamo sfamati alla bell’e meglio. Poi ci buttiamo giù per terra, con gli occhi che dal sonno non stanno aperti e con tutti i panni bagnati come se fossimo caduti in una fossa. La notte passò.

Il 25 dicembre, il bel Santo Natale, pioggia e neve vengono giù alla più bella. La maggior parte dei bersaglieri sono in giro di qua e di là a cercare da mangiare e tanti sono con le scarpe tutte rotte, senza gavetta e gavettino. Lì trovarono un po’ di tutto, che venne distribuito ai più bisognosi; poi distribuirono le sigarette, un trentacinque “Tre Stelle” per uno. Nella fretta di distribuirle il tenente si sbagliò a fare il conto e Dante, distribuendo le sigarette ai compagni, era rimasto senza. Il caporal maggiore Ansaldi è presente e vede tutto, Dante gli dice: «Non importa, tanto non fumo!» «Cosa c’entra se non fumi, se ne ritirano due o tre per uno e anche tu devi avere le sigarette.» Lo dice al tenente, così Dante ha anche lui la sua parte di sigarette e ne regala un pacchetto all’amico che si preoccupò del fatto. Finalmente arrivò anche qualche cosa da mangiare: scatole di minestra, scatolette, pane, aranci, cioccolati, marmellata; la pancia l’avevamo riempita. L’amico, che sempre girava, mi arriva lì con una gavetta di pastasciutta e una borraccia di vino. Mi fa: «Toh! Mangia e bevi, che io vado a cercare ancora!» Ringrazio l’amico e poi giù tutta la gavetta di pasta e due bei flûte di vino: ora posso dire che ho riconosciuto la festa di Natale!

Dante pensava di spedire qualche cartolina, ma non c’era mezzo. Pazienza, speriamo almeno che la sorella abbia ricevuto la cartolina del 18 e poi ci penseremo. «Ragazzi, fatevi coraggio, preparatevi tutta la vostra roba, ché a mezzogiorno si parte!» Dove andiamo, non si sa: qua andiamo bene e ormai la vita è così! A mezzogiorno si parte, il maggiore in testa e avanti. Un bersagliere, detto “signorina”, il Ferrarisi, si dimentica la cassetta delle munizioni nei capannoni, così il tenente gli dà il reffile14 e lo manda a prendere la cassetta. Avanti, cammina e cammina, sono le cinque e arriviamo a Perrenjes, un piccolo paesetto con diversi capannoni, ma erano tutti pieni di cavalli e per noi non c’era posto, così ogni comandante di compagnia deve cercarsi il modo di ritirare i suoi bersaglieri. Troviamo una casa, stiamo tutti appiccicati, ma dall’acqua eravamo riparati. Il tenente, una testa matta, non è ancora mezz’ora che siamo lì, entra e dà l’allarme per prepararsi e andare via. Quanti accidenti al povero tenente! Ma subito un contrordine: tenersi pronti, ma non si parte. Alla bell’e meglio ci siamo coricati, già sapevamo che al mattino presto c’era da partire e così fu.

Il 26 dicembre, tutti adunati vicino ai capannoni, squadra per squadra, ci danno il caffè e poi ci incamminiamo sullo stradone che passava da Lin, Pogradec, Corizza eccetera. Dopo aver fatto tre o quattro chilometri, proprio sotto la salita, incontriamo il tenente colonnello, che ci ferma e ci fa tornare indietro nei capannoni. Così ci siamo messi assieme ai cavalli, ci hanno lasciati sul freddo cemento e per tutta la notte ci siamo lamentati. Il 27 dicembre mattino ci danno il tonno, la Chiarizia e il cioccolato e per la fretta si fece un po’ di confusione. Dante distribuisce le scatole di tonno, un tanto alla prima, un tanto alla seconda e il resto alla terza squadra; il caporal maggiore Saglietti, fa cadere una scatola che si perde e Ansaldi, rimasto senza, è andato a reclamare che il tonno lui non l’aveva preso. Questa è bella! Si prendono a parole con il Saglietti, che il tonno non ce l’ha più, perché era già nel tascapane di Dante e quindi basta! L’Ansaldi va dal tenente a reclamare, ma non c’è verso: ormai era studiata così e il tonno è sparito!15  La distribuzione del cioccolato invece andò bene.

Adunata: ognuno si prende la sua roba e per fortuna abbiamo il camion del XXIX battaglione che passa da Lin e ci porta le armi. Carichiamo le armi, Dante legava il porta mantellina vicino all’arma per essere più leggero nel fare la marcia, si parte e avanti. Il maggiore si mette in coda per poter prendere a calci in culo i bersaglieri che rimanevano indietro e qualcuno li trattò in quel modo, sebbene, poveri ragazzi, non fosse colpa loro, perché non riuscivano a camminare dal male che avevano. Anche qua, cammina e cammina, sono le quattro, siamo a Lin e, angolo per angolo, squadra per squadra, ci assegnano il posto: «In qualche modo cercate di ripararvi». A Dante viene assegnato il posto in un bell’angolo, riparato dal vento. Con volontà subito furono tirati quattro teli, sembrava una casetta. Il Randazzo, conducente del mulo, va in cerca per trovare qualche cosa per la bestia e mi arriva con una balla di paglia. Subito dentro nella tenda fu sciolta, trovandoci un bel letto soffice, ma non ci hanno ancora detto di andare a prendere le armi e Dante è senza coperta. Non ho ancora detto questo che viene un bersagliere e mi dice di andare a prendere le armi, là, al tal posto. Va bene! Dante prende due bersaglieri e va a prendere le armi, l’interesse mio era per il porta mantellina, guarda nel mucchio di armi e treppiedi e subito colpisce la vista la sua arma con il suo porta mantellina attaccato. Prendiamo tutto quanto è nostro e via. Dante si fa il suo bel lettino e poi pensa di mettere qualche cosa nella pancia, ma non sapeva ancora che poco lontano c’era una cucina dell’artiglieria. Infatti il bersagliere Barbero, che sempre girava, mi vede mangiare la minestra fredda e mi fa: «Ma lì c’è la cucina e mangi la minestra fredda?» Dante ringrazia l’amico, prende la gavetta e mette la minestra dentro; poi va, si presenta dai cucinieri e chiede se per favore gli lasciavano riscaldare la minestra. Tutti quanti: «Sì! Sì!» «Grazie!» e mette su la gavetta sul fuoco. Dante trova un’altra scatola di minestra, la va a prendere e dentro nella gavetta, che era piena e bella calda. Dante si metteva a mangiare e quella minestra andava in tanto sangue. «Ora sono proprio pieno»,  diceva Dante agli amici che lì stavano a scaldarsi. Dante offriva qualche sigaretta al capo cuciniere e si richiudeva nella tenda a riposare: ormai era notte. Dante si sveglia che è già giorno: che dormiata!15. Ma si sente un forte vento e non c’è nessuna voglia viene di uscire dalla tenda: lì si stava bei caldi e intanto non si sapeva niente.

Tutto ad un tratto sentiamo il tenente che mi arriva lì e grida come un pazzo: «Siete ancora qua?» e mi dà di tutti i titoli. Dante gli risponde che se avesse saputo qualche cosa avrebbe fatto il suo dovere e lui mi dice «Ma Ansaldi non ti ha avvisato?» e io: «No!». Allora si calmò e mi disse di preparare tutto, ché c’era il posto dove andare accantonati e aggiunse: «Va bene, quando passo io con le altre squadre, seguitemi!» «Comandate, signor tenente!». In pochi minuti Dante aveva tutto pronto e poi tutti in cucina a scaldarci. Il cuciniere mi dava una gavetta di caffè per ogni bersagliere di tutta la squadra; il caffè era molto carico di cognac e Dante fece il colmo alla gavetta con una pagnotta del giorno prima, che ancora si teneva nel tascapane: così mi sono fatto una panciata da matti. Poi il cognac si fece sentire e, mentre tutti avevano freddo, Dante invece aveva caldo. Passa il tenente, lo seguiamo e andiamo in una casetta, che non era larga neanche come la nostra tenda che avevamo alla terza squadra, ma ci deve stare tutto il plotone e così, stretti stretti, ognuno si prese il suo posto. Passò il giorno 28 dicembre, siamo al 29 dicembre mattino, un freddo da cani. Viene il tenente a raccomandarci di pulirci, lavarci, spidocchiarci, farci la barba, pulire le armi e compagnia bella. L’idea di Dante era di fare quello che il tenente aveva detto, ma gli mancavano le forze e aveva sempre poca voglia: come si poteva avere della volontà col freddo che faceva e tutta la notte dentro e fuori, su e giù per quella scala per correre al gabinetto? Dante si interessava che l’arma fosse stata pulita e nient’altro; non c’era verso di avere un po’ più di volontà. Tutti avevano la barba lunga, ma solo Dante aveva due macchinette da barba e, in qualche modo, una lametta uno, una lametta l’altro, tutti gli amici si sbarbarono e qui venne la sera del 30 dicembre.

La buona intenzione di Dante viene la mattina del 31 dicembre, l’ultimo giorno dell’anno: vado al bagno a lavarmi, l’acqua è gelata, ma in qualche modo mi sono lavato, il giorno che mi ero lavato l’ultima volta non me lo ricordavo più. Rientro nella casetta, mi scaldo un po’ le mani che erano gelate e poi mi metto un po’ di buona volontà e mi taglio la barba, che ormai sembravo Gesù Cristo in croce: era dal giorno 15 novembre che non me la facevo più. Sono riuscito a tagliarmi la barba, ho ancora i baffi, sono i più buoni, mi salta in mente di non tagliarli e così mi lascio i baffi: la faccia del mio povero papà buonanima! Già Dante sembrava si sentisse meglio e si metteva scrivere qualche cartolina in franchigia alle sorelle e a tutti quelli che Dante sapeva che lo ricordavano. Dante scriveva sei cartoline che nella mattina avevano distribuito: una alla sorella Rosa, poi a Luisa, Albertina, Gilda, zio Amedeo e Concetta, la vicina di casa, dicendo che la salute era ottima e che così speravo di loro tutti.  

RIFERIMENTI E NOTE

I greci
E puntualmente, nella prima giornata serena e senza pioggia, la tempesta si scatena. I greci, fino a quel momento sfuggenti, si fanno sotto. E picchiano duro. Il primo novembre, alle otto del mattino in Macedonia occidentale lancia i suoi contro il fianco sinistro italiano e una volta nella piana di Corizza, può portarsi alle spalle dello schieramento italiano avanzato in Epiro. Le tre divisioni italiane nella zona di Corizza, la Parma, la Venezia e la Piemonte sbandano e si disperdono. I greci avanzano sui costoni martellando gli italiani con i mortai e lanciando i loro reggimenti di cavalleria. Da un lato gli italiani avanzano in Epiro, mentre dall’altro, i greci dilagano in Macedonia. La Julia, al centro dei due fronti che vanno in senso opposto, gira a vuoto, non regge più e alle sue spalle si infiltrano le forze nemiche. In qualche comando si parla di “Babilonia completa!” 

Che fare?
Siamo sull’orlo della disfatta, scontando ancora gli errori, se non la mancanza, di pianificazione, come avere i reparti di artiglieria inoperosi sulle montagne ad aspettare i cannoni, ancora nel porto di Durazzo. Intanto si reagisce: si interrompe la smobilitazione in atto in Italia e si dà priorità assoluta all’invio disordinato di uomini, armi, materiali, quadrupedi e automezzi, ancora senza quel piano fantasma e senza averne predisposto un altro d’urgenza.  Si mandano gli uomini ora qui e ora là, a tamponare falle e a puntellare cedimenti (vedi il 4° bersaglieri), facendo sì che, divisioni già frettolosamente ricostituite in patria e approdate in Albania senza armi pesanti e senza mezzi di trasporto, che sarebbero arrivati chissà quando, vengano smembrate e in gran parte mai più ricostruite organicamente, a danno delle filiere di comando e dello spirito di corpo.  Una guerra d’attacco, che doveva essere vinta operando con corpi d’armata e divisioni, diventa una disperata guerra di battaglioni e compagnie disperse drammaticamente là ove serve fermare o ritardare il nemico, che avanza dirompente con superiorità di uomini e di cannoni. Il racconto della guerra fatto da Dante, del resto, lo testimonia in maniera emblematica: per tutto il periodo di operazioni (novembre 1940 – aprile 1941) è tutto un disperdersi di battaglioni e compagnie, chi sul camion, chi in bicicletta, chi a piedi, chi a supporto di quello, chi di quell’altro, chi si immola per bloccare l’avanzata, chi si salva come può. Di manovre organiche divisionali o almeno di reggimento, poco o niente (almeno fino a marzo 1941).

I Greci insistono
Il 14 novembre, i greci attaccano di nuovo e affondano nel fulcro strategico di Erseke, dove il 1° reggimento bersaglieri funge da punto di giunzione fra le armate dei due settori. Ci sono malintesi nelle comunicazioni tra i comandi e si apre una voragine. Fa freddo, piove, poi nevica. Qui entra in gioco il 4° reggimento bersaglieri di Dante, per primo il più avanzato (perché trasportato coi camion, vi ricordate?) XXXI battaglione. I mortai martellano senza sosta le  nostre posizioni;  gli ospedali da campo mancano di tutto; l’aeroporto di Corizza è sotto tiro. Esposti  al fuoco nemico,  gli alpini scendono dagli Junker tedeschi:  molti di loro, lordi di sangue,  vengono subito reimbarcati sullo stesso aereo e rispediti indietro. Al fronte gli atti di eroismo sono molteplici e, almeno per quanto riguarda il reggimento di Dante, li conteremo alla fine, i soldati e  gli  ufficiali cercano di tenere duro, si contrattacca alla baionetta e con le bombe SRCM, muoiono anche ufficiali superiori. Resistere? Ritirarsi? Soddu lasciato solo o quasi, decide di ritirarsi.  I greci  si lanciano in avanti  e   affondano  nel vuoto. Davanti a loro,  in lunghe colonne,  gli italiani abbandonata Corizza (Dante tra gli ultimi) ripiegano relativamente in ordine   verso una linea più sicura , di cui uno dei bastioni principali, terminale est del fronte,  dovrebbe essere Pogradec, sulle rive del Lago d’Ocrida, che però è stata appena presa dai greci con una manovra tanto spregiudicata quanto coraggiosa dalle loro truppe scelte, ma soprattutto vincente dal punto di vista strategico. Si profila il disastro. Se passano di qui, i greci vanno direttamente a Tirana e ci buttano a mare.

Intanto, a Roma, ad Atene e nel mondo…
Il 18 novembre la guerra è in pieno svolgimento, le cose vanno male e Mussolini informa i suoi ospiti ad una riunione di partito:  “…Ora con la stessa certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia. In due o dodici mesi poco importa. La guerra è appena cominciata. Noi abbiamo uomini e mezzi sufficienti per annientare la resistenza greca”.
Un discorso travolgente, una delle tante frasi ad effetto per la storia. Mentre tutti applaudono, mio padre, raggiunto il fronte in bicicletta, è sotto i colpi di mortaio, al freddo, affamato e vede morire i primi compagni. Eppure, come lui, migliaia di poveri soldati fanno il “loro dovere” e, mentre soffrono di tutto ciò, combattono oltre il limite, si difendono, contrattaccano, compiono azioni eroiche fino al sacrificio. Ma a Roma si apre la caccia ai colpevoli del disastro e, secondo Mussolini, non solo i generali, ma anche quei soldati sono delle “pappemolli”. Quei ragazzi stoici, coraggiosi, tenaci meriterebbero ben altro della considerazione vergognosa, sprezzante e razzista del duce (è uno di quei momenti in cui mi sovviene piazzale Loreto…) Meriterebbero invece, se non un encomio pubblico, forse per il contesto storico delle vicende e senza un’ampia disamina delle responsabilità italiane della guerra e delle sue conseguenze, almeno il riconoscimento delle  sofferenze e dei sacrifici che, in condizioni del tutto improvvisate, compiono quotidianamente per tenere in piedi la baracca. Metaxas, il primo ministro greco, proprio in quei giorni, invece, scrive sul suo diario: “Chissà  come  soffrono i miei soldati al fronte!”  Sono i giorni della presa di Corizza: è una cocente umiliazione per noi, un motivo di orgoglio per i greci, un motivo di scherno per i “sudditi” albanesi. La Grecia è imbandierata. Metaxas parla alla radio e ironizza sulla “assoluta certezza” di Mussolini. La notizia fa il giro del mondo e inglesi e americani ci ridicolizzano: “L’ultimo esercito del mondo ha sconfitto il penultimo esercito del mondo!” L’iniziativa, però, è ancora dei greci, che attaccano di nuovo, anche se i bollettini minimizzano. Mussolini se la prende con i suoi gerarchi e li spedisce al fronte a fare passerella e figuracce. (Leggasi a tale proposito, nel riquadro seguente, il brano “Gerarchi al fronte”).


Gerarchi al fronte (da fronte albanese c’ero anch’io  -)

 Il capitano si presenta (in preparazione)

Comandanti
Il generale Pricolo, mandato da Mussolini a informarsi, chiede a Visconti Prasca cosa ne sia della Julia. Risposta: la Julia? Non ho notizie, ma a quest’ora avrà senz’altro raggiunto il passo di Metzovo. Ma non è lui il comandante delle truppe italiane? Se, a cinque giorni dall’inizio dell’invasione,  non lo sa lui dove si trovi la Julia, chi altri deve saperlo? Ma c’è anche di più. Richiesto da Roma  di fare il punto della situazione, Visconti Prasca risponde: “ Situazione Epiro non inquietante”. Non inquietante? Arrivati a Corizza, sfiniti, con le barbe lunghe, le uniformi a brandelli, ma stringendo saldamente  il fucile, gli alpini della Julia, abbandonate le posizioni e ritiratisi dopo essersi aperto un varco fra le forze greche alle loro spalle, chiedono e supplicano, qualcosa da mangiare. Cadono le prime teste. Il 9 novembre, Visconti Prasca viene privato del comando. 


Il primo combattimento con i greci e il ripiegamento su Corizza.

La marcia del XXVI e del XIXX battaglione prosegue come già detto in bicicletta. Lasciata libera si raggiunge la piana di Perrenjes, ove i due battaglioni si separeranno, il XXVI prosegue fino a Pogradec sempre in bicicletta e poi in autocarro sino a Coriza. Successivamente, nuovamente in bicicletta si porterà prima verso Bilisti e poi verso Qafa el Quarrit, ove lascerà le biciclette per continuare a piedi verso la linea del fronte.

Il XXIX battaglione invece lascia subito le biciclette nei capannoni di Perrenjes, poiché i reparti vengono ora caricati anch’essi su autocarri, per raggiungere pure loro più rapidamente la linea di combattimento. Sono gli stessi autocarri che hanno trasportato due giorni prima il XXXI battaglione e che ora continuano a fare la spola tra il fronte e i reparti in marcia per portare in linea più uomini possibile.

i greci intanto esercitano la loro pressione su tutto il nostro settore di fronte, ma le nostre truppe riescono per ora ad arginare l’offensiva, in attesa di ulteriori rinforzi.

Da informazioni ricevute si apprende che il nemico continua a far affluire truppe verso il proprio confine. I greci possono effettuare questi movimenti molto agevolmente, operandoin territorio nazionale, con strade migliori e con l’aiuto e la collaborazione della popolazione della zona.

Dalla nostra parte le cose vanno molto diversamente. Date le condizioni delle strade i rinforzi arrivano molto lentamente. In più, sul nostro settore, la via di accesso alla piana di Erseke è una sola e quindi ogni nostro rifornimento deve transitare solo su di un’unica rotabile, con le difficoltà che si possono facilmente immaginare.

Qui sul fronte occorrono uomini e uomini e purtroppo questi devono arrivare dall’Italia, attraversando un tratto di mare, eccetera. Occorre più di tempo per tutto questo.

Se i greci eserciteranno la loro pressione in misura contenibile, con le attuali nostre forze possiamo attendere con una certa fiducia; in caso contrario, la faccenda diventa molto seria. Intanto gli automezzi del reggimento il giorno 15 novembre sono stati imbarcati a Bari e oggi, giunte a Durazzo, proseguiranno subito per cercare di raggiungere i reparti in linea.

Il 17 novembre i greci iniziano il loro attacco con ingenti forze e forte preparazione di artiglieria. Il tentativo di sfondamento su questo fianco sinistro dimostra chiaramente l’intenzione del nemico di tagliare la strada per il Lago d’Ocrida e aggirare alle spalle gran parte delle nostre truppe che operano in quel settore di fronte.

Bisogna resistere. I bersaglieri 4° non vengono meno alle loro tradizioni di ardimento,  di coraggio e di eroismo. Morti e feriti cominciano a lasciare il loro sangue in terra d’Albania, iniziando il lungo e glorioso elenco dei valorosi  che, a prezzo della loro vita, difendono e tengono alto il prestigio del soldato italiano. Non facciamo nomi perché presto purtroppo saranno tanti. Troppi, e non desideriamo dimenticare nessuno. Ma i bersaglieri del 4° sanno chi sono i loro compagni d’armi caduti, feriti e dispersi in Albania ed il loro ricordo sarà d’esempio e di incitamento per i giorni che verranno.

L’autodrappello, intanto, giunge nel tardo pomeriggio a Coriza. La cittadina è in fermento perché l’attacco dei greci non fa presagire nulla di buono.

Le artiglierie nemiche hanno già centrato la strada che porta verso il fronte. L’autodrappello attraversa così la piana a velocità sostenuta e con automezzi notevolmente distanziati l’uno dall’altro.

A sera il comando di reggimento era raggiunto, ma, effettuati i rifornimenti di munizioni, viene dato l’ordine per gli automezzi di portarsi subito indietro in posizione meno esposta, tanto più che ora essi sarebbero solo d’impaccio per qualsiasi movimento dei reparti.

Nei due giorni che seguono i greci attaccano senza soste con forti masse di uomini; la loro forza numerica è valutabile assai superiore alla nostra ed è continuamente alimentata da truppe fresche. Inoltre attaccano da posizioni più elevate, con efficace appoggio di artiglieria e di mortai, quei morti terribili mortai da 81 che saranno il nostro incubo in tutta questa guerra.

Bisogna tuttavia resistere il più possibile. I bersaglieri continuano a contrattaccare il nemico, mentre il numero dei morti e dei feriti aumenta. Particolarmente provato rimane il XXXI battaglione di cui diremo più avanti.

I greci insistono nel loro sforzo di sfondamento verso le montagne che circondano Coriza per il previsto aggiramento delle nostre posizioni. Ma la resistenza delle nostre truppe non può continuare senza l’arrivo di ulteriori rinforzi.

Le autombulanze non fanno altro da due giorni che portare verso le retrovie feriti e feriti punto i morti hanno sepoltura sul posto.

Intanto il comando d’armata a Coriza ha ritenuto opportuno predisporre un ripiegamento dei vari settori su posizioni meno esposte.

Il 20 novembre è una giornata delle più tragiche. La battaglia infuria da diversi giorni si inasprisce ancor di più, mentre quota 1914 e quota 1461 sono un inferno.

I bersaglieri contrattaccano con furore, ma la superiorità nemica è soverchiante.

I greci frattanto, intensificando ancor di più i loro attacchi, riescono, nonostante il valore delle nostre truppe, ad aprirsi lentamente un varco, sempre con l’obiettivo di raggiungere Coriza. L’ordine per i bersaglieri del 4° è quello di ripiegare e portarsi sulle alture di Drenova, davanti a Coriza, per concorrere a tamponare la falla e fermare il nemico. A sera i reparti, pur duramente provati con grandi vuoti nelle file causati dalle forti perdite subite, iniziano il movimento di ripiegamento.

La notte coprirà col suo velo questa manovra, che viene effettuata con ogni mezzo disponibile, pur di raggiungere più celermente l’obiettivo stabilito.


L’eroismo del trentunesimo battaglione nelle parole del colonnello Scognamiglio
 

Prima di continuare ad esposizione dei fatti bellici della terza decade del novembre 1940, culminati con lo sgombero di Corizza e con il definitivo sbarramento del fronte sulle alture di Pogradec, vediamo di seguire le vicende del XXXI battaglione dal momento in cui si staccò dal reggimento per raggiungere, autocarrato, più rapidamente la linea del fronte. Queste vicende furono riassunte personalmente dal colonnello Scognamiglio in una “Relazione sull’azione svolta dal XXXI battaglione nel periodo 12- 20 novembre e nella giornata del 21 novembre 1940”, relazione che egli dettò qualche giorno più tardi al sottotenente De Cecco, allora ufficiale di collegamento tra il comando di reggimento ed il XXXI battaglione, affinché fosse successivamente inoltrata ai comandi superiori. 

La realtà inenarrabile del fronte
Talvolta le testimonianze dei soldati sul fronte greco-albanese vanno oltre i diari di Dante, Scalone e Quaglino. Vanno oltre il narrabile. Ci danno un’idea di quanto al fronte si soffra moralmente, tra la paura della morte, la lontananza dagli affetti, l’abbrutimento del vivere quotidiano, e fisicamente, con il gelo, il freddo, la fame, l’immobilità dei giorni e delle notti passati nelle buche, sotto la neve e le cannonate.  Ma, se possibile, c’è anche di peggio. Se si pensa che montagne d’Albania nevica quasi ogni giorno, che il vento gelido getta in faccia ai nostri soldati ghiaccio e brina, che le gambe e i piedi diventano insensibili e gelano irreversibilmente. Negli ospedali si amputa e si producono migliaia di invalidi nello spirito e nel corpo.
Si legge sui libri e sui diari dei nostri soldati al fronte che ricorrono a ogni mezzo possibile per evitare le temuta e subdola “morte bianca”, quella provocata dal gelo, di come si avvolgano con pelli di ogni animale possibile, dei guanti di lanital che si inzuppano d’acqua, gelano e immobilizzino le mani fino al congelamento. Quegli uomini in grigioverde si scaldano il capo con le carni ancora calde dei muli morenti e poi se le mangiano, crude. Quel grigioverde che si irrigidisce (Dante, sulle Alpi, ricorda ad un certo punto che “sembravamo di lamiera”), non riparando dal freddo e non conservando il calore corporeo. Le barbe stanno incolte per mesi (ce ne parla anche qui Dante, che nella sua vita che ho visto si radeva puntualmente tutti i giorni, fino all’ossessione e fino all’ultimo giorno). Le armi si bloccano per il freddo. La neve copre valli e sentieri sconosciuti, rendendo difficile trovare sulle carte i luoghi assegnati: alcuni reparti si perdono e finiscono diritti in bocca al nemico.  
Le convinzioni cominciano a sgretolarsi. Si pensa sempre alla vittoria finale, come Dante, del resto, ma non si possono nascondere la confusione, l’approssimazione, l’incoscienza con cui è stata preparata e condotta l’invasione. Si parla di arrivare ad Atene in due settimane, ma il tempo passa, e le settimane diventano mesi.  Ci si comincia a chiedere il perché e il per chi. Intanto gli albanesi restano increduli di fronte a tanto disastro e cominciano a disprezzare quell’esercito che credevano di una grande potenza e che invece viene messo in fuga e quasi umiliato dai soldati di una piccola nazione, perdi più loro storica nemica. E ciò fa male al morale dei nostri soldati, che già devono sopportare il freddo, la fame, la sete, i mortai, i pidocchi e la sporcizia. Ma tengono duro. Altro che soldati italiani imbelli!
Fino a qui un disastro, da qui in avanti andrà meglio, già prima dell’aiuto della Germania che, comunque sarà facilitata nell’affrontare un nemico fiaccato da cinque mesi di guerra e posizionato da tutt’altra parte, sul fronte albanese, per fronteggiare gli italiani.


Riassunto cronologico degli eventi dal 21 /11/1940  al 27/12/1940
(dal libro di Quaglino)

 21 novembre  

  • Ultimato il ripiegamento, il XXXI battaglione si ricongiunge quindi al resto del reggimento ed insieme fronteggiano il nemico incalzante forte pressione del nemico, che vuole raggiungere Corizza e proseguire verso Elbasan.
  • Il XXIX battaglione (maggiore De Martino) contiene validamente, a cavallo della rotabile per Qafa Quarrit, un tentativo di infiltrazione nemica e raccoglie anche i resti di un reparto di alpini, guidati da un ufficiale, e lo rifornisce di viveri e munizioni. Gli alpini, isolati a causa dell’infiltrazione di un forte reparto greco, collaborano con i bersaglieri e poi cercheranno di a rientrare nel loro reparto “per provare a fare qualcosa”.
  • Nuovo ripiegamento del XXXI battaglione.
  • Al XXIX vengono portate, di notte, le biciclette. Quindi, a scaglioni di plotone e nel massimo silenzio, si sgancia, raggiunge Corizza, dove trova un camion carico di pane dopo due giorni di penuria alimentare, e procede verso il Lago d’Ocrida. Il XXIX battaglione si attesta sulle alture di Veliterni, con due plotoni lasciati come punto di retroguardia a cavallo di due piccole rotabili.
  • Nell’abitato di Corizza è tutto in movimento, in quanto lo spostamento del fronte che si è avvicinato ha determinato un orgasmo ed un fermento non controllabili.
  • Da Corizza a Pogradec, a Lin, a Qafa Tane ed oltre, una colonna continua di militari, di civili, di autocarri, di autombulanze che si spostano verso le retrovie, sgomberando materiali, munizioni, servizi e rifornimenti. La strada è unica e quindi continuamente si creano ingorghi con intralcio nei movimenti.
  • Gli ospedali da campo, che erano stati costituiti lungo la rotabile, vengono smontati frettolosamente.
  • Molti feriti in barella e non gravi non gravi giacciono sull’erba sul ciglio della strada, attendendo di essere smistati in ospedali più arretrati, utilizzando qualsiasi mezzo di trasporto che transiti. Sono molti i feriti di questi ultimi giorni, le autoambulanze sono cariche, occorre stringere i denti dal dolore e adattarsi a salire su qualsiasi mezzo in transito.
  • Mentre questa massa di uomini si sposta verso l’immediato retro del fronte, in senso contrario salgono verso Corizza altri soldati: sono truppe fresche che vengono a rinforzare la linea per tentare di colmare, sia pur parzialmente, i vuoti che nelle file dei reparti a contatto col nemico (probabilmente reparti della divisione Arezzo).

 22-24 novembre 

  • Sono i giorni dello sganciamento dal nemico.
  • Ancora durissima lotta con perdite di sensibili nei ranghi dei nostri reparti, sono giorni giorni d’inferno e di orrore. La morte ha falciato a piene mani nella massa dei combattenti sia italiani che greci. Numerosissimi feriti e i dispersi.
  • Nonostante l’eroismo di questi ultimi dieci giorni e le pagine di gloria scritte, ogni ulteriore tentativo di resistenza si infrange di fronte alla superiorità di uomini e di mezzi del nemico.
  • Tutto l’arco del fronte ha resistito il più possibile, ma troppe falde sono state aperte, troppe infiltrazioni nemiche sono state effettuate e non vi è possibilità di tamponarle senza sguarnire altri centri di centri vitali dello schieramento. Occorre evitare ancora una volta di essere aggirati alle spalle lungo il fronte sinistro, occorre ripiegare ancora.
  • I reparti, per quanto sfiniti dai combattimenti di questi giorni, iniziano così una seconda manovra di ripiegamento per dare modo di costruire una linea di resistenza più efficace. E alla fine Corizza viene abbandonata. Incendi divampano qua e là, mentre i greci saccheggiano i depositi e proseguono la loro avanzata. I bersaglieri, pur ripiegando, cercano di contrastare la marcia del nemico. Ed è ora al XXIX battaglione che viene affidata la copertura di tutto il settore. Gli ultimi reparti di questo battaglione, con in coda il tenente medico Pietra, che accompagna tredici motocarrelli carichi di morti e di feriti e il plotone del tenente Conti come estrema retroguardia, lasciano Corizza, mentre le prime pattuglie greche sono già entrate in città.
  • Il XXXI battaglione, già decimato, subisce un durissimo colpo dell’aviazione greca mentre sosta per consumare il rancio
  • La stessa cosa succede al XIX battaglione che, attestatosi al diciassettesimo chilometro sulla strada di Corizza viene attaccato da un aereo greco, il maggiore De Martino si sottrae miracolosamente agli effetti del bombardamento.
  • Il XXVI battaglione riceve intanto l’ordine di sospendere il ripiegamento lungo la strada di Pogradec e di spostarsi subito alla sua sinistra, per costituire una linea di resistenza della zona di Bregu i Breshave, ove la presenza di altri reparti di fanteria non è ritenuta sufficiente per fermare l’avanzata del nemico.
  • Nelle retrovie a Perrenjes due aerei greci scendono a bassa quota mitragliare uomini e quadrupedi e anche l’autodrappello viene colpito.

     

27 novembre

  • Il ripiegamento ha termine a Pogradec
  • Il reggimento si appresta si appresta a resistere sul Kalase, mentre i greci che hanno rallentato l’avanzata si sono attestate sulle alture sulle alture prima di Pogradec e da lì possono dominare le nostre posizioni ma finalmente siamo faccia a faccia e non stiamo retrocedendo.
  • Si scavano buche perché gli alberi sono pochi
  • Sul Kalase i combattimenti sono diminuiti e si fanno i conti dei morti e dei feriti che sono parecchie centinaia Il XXIX battaglione si attesta all’estrema sinistra di quel settore con a fianco il XXXI battaglione.
  • Il comando di reggimento con la compagnia motociclisti si sistema a Lin sulla sponda del lago.
  • Il XXVI battaglione si sistema a Bregu i Breshave, raggiunta dopo una marcia infinita in montagna.
  • La zona brulla non presenta alcun riparo, occorre scavare buche e trincee in mezzo alla neve e al fango.
  • Inizia periodo di isolamento: la mulattiera è quasi irraggiungibile per fango e neve e non ci sono contatti con retrovie; si è oltre 1000 metri di altitudine, su un costone della catena del Guri i Topit, che troneggia alla nostra sinistra e che è occupato dai greci.

     

1 – 8 dicembre

  • I greci riprendono l’offensiva con continui attacchi alle nostre posizioni sul Monte Kalase: qui inizia l’epopea del reggimento, con la resistenza tenace e serrata contro un nemico che vorrebbe addirittura marciare su Tirana ma che non riuscirà a sfondare.
  • Tutti i giorni sono attacchi sotto attacchi sempre appoggiati da una grandine di colpi di mortai e di granate cominciano i morti e feriti.

     

9 dicembre

  • I greci dopo per forte preparazione di artiglieria sferrano un attacco massiccio contro l’arco di fronte in cui si trovano i bersaglieri del 4°
  • I greci non riescono a passare e andare verso la strada di Lin.
  • Durante l’attacco del 9 dicembre il XXIX battaglione ha perso circa la metà dei propri effettivi
  • I bersaglieri sopravvivono nelle proprie buche scavate nel fango e nella neve
  • Il XXVI battaglione, sul Bregu i Breshave, deve fronteggiare le azioni di pattuglie e disturbo dei greci contro il fronte di questo settore.
  • Il vero problema è il rifornimento di viveri e munizioni, poiché non ci sono mezzi di trasporto adatti; si procede a requisire asinelli albanesi e andare a prelevare i viveri sino a Kukes, al comando di corpo d’armata, ma sono cinque ore di marcia, nella neve e nella fanghiglia, che ogni giorno bisogna percorrere per assicurare al battaglione una scarsa provvista di gallette e scatolette e per tutto il periodo di permanenza breve e bresaole sarà così tutti i giorni senza alcuna variante.

 
23 dicembre

  • Giunge al XXVI battaglione l’ordine di lasciare Bregu i Breshave e, passando alle spalle dello schieramento del fronte, di raggiungere gli altri reparti del reggimento.
  • I bersaglieri del XXVI, con le barbe lunghe e le scarpe a prezzi, scendono in basso e dopo parecchie ore raggiungono Kukes
  • È la Vigilia di Natale e nei cuori di ognuno c’è grande nostalgia, ma il morale è alto.
  • Il maggiore Mennuni presenta il battaglione al generale comandante della divisione: l’aspetto fisico dei bersaglieri non è confortante, ma lo sguardo è sempre quello di un bersagliere e allora ci si dimentica dalle delle fatiche e dei disagi e si canta il “Reggimento di papà”.

 

25 dicembre

  • Primo Natale di guerra: arriva qualcosa di meglio che le solite gallette ed è una festa

 

26 dicembre

  •  Il XXVI battaglione lascia Kukes e, risalendo per la strada che passa per Qafa Tane, raggiunge Lin, dove i bersaglieri hanno la possibilità di ripulirsi e sbarbarsi (è dal 10 novembre che non si cambiano indumenti).

 

27 dicembre

  • Nella notte da Lin si trasferisce a Memlishta, un villaggio alle spalle del Kalase, in posizione di rincalzo rispetto alle linee tenute dal XXIX e dal XXXI: il 4° bersaglieri è nuovamente tutto riunito o perlomeno coi reparti ravvicinati.
  • Si conclude così questo primo anno di guerra hanno glorioso per il quarto bersaglieri che in tutte le operazioni belliche in cui è intervenuto coi suoi magnifici battaglioni ha sempre dimostrato ad altissimo spirito combattivo il valore l’eroismo di tutti i bersaglieri la capacità ed esemplare comportamento dei suoi comandanti.

     

Ancora un errore?

Con l’avvento al comando di Cavallero, si mette ordine nel  flusso dei rinforzi in Albania, cercando  di mantenere integre le divisioni,  si cerca di acquisire la superiorità numerica e di erigere un muro  difensivo su linee adatte alla difesa. Ma il tempo è poco: Berlino sbuffa, critica e insiste per dare una mano, Roma spinge a sbrigarsi, per poter riportare qualche successo e risollevare il prestigio perduto, al limite, per alcuni aspetti, del ridicolo.
Si valutano due ipotesi per una nuova offensiva: nella zona di Corizza, a nord, oppure a sud in direzione del nodo di Klisura. Il primo caso parrebbe il più logico, sia in quanto in quella zona i greci sono alla fine del loro slancio offensivo, fiaccati dalla resistenza italiana (4° reggimento e Dante compresi) e non ancora pronti a volgersi in atteggiamento difensivo, sia perché avrebbe consentito un congiungimento offensivo con i tedeschi in occasione del loro imminente intervento (come poi avverrà, a seguito dei fatti di Jugoslavia, con il 4° reggimento che li incontra sul Lago d’Ocrida). Invece si sceglie il secondo, ridimensionando l’offensiva a sterile azione locale, fine a sé stessa, senza valenza strategica e andando a sbattere proprio là dove i greci sono più forti e sistemati anche a difesa.
In quell’offensiva di primavera, lasciamo sul campo migliaia di  uomini. Per niente. Mussolini, che era andato lì per assistere al trionfo,  se ne torna a Roma con le pive nel sacco. Alla fine, quei  diecimila e più morti gli consentiranno di celebrare quell’inutile battaglia come una vittoria e  come l’avverarsi della famosa profezia sui reni ellenici.
Hitler non vuole umiliare il Mussolini. Gli scrive: stiamo per intervenire e possiamo vincere, ma a una condizione: che le truppe italiane tengano duro in Albania.  Il duce garantisce. E non si accorge o finge di  non accorgersi  che il suo alleato lo sta prendendo in giro. Il 6 aprile  le divisioni corazzate del feldmaresciallo Wilhelm List attraversano la frontiera bulgara e  entrano in Grecia.
Da questo punto  gli eventi riprendono con l’inizio del terzo quaderno dei Diari di Dante.  


Note

 (6) – 2080 reggimento fanteria
Faceva parte della 48ª divisione di fanteria “Taro”, imbarcata il 19 novembre per Durazzo e subito inviata al fronte greco-albanese. Il 1º dicembre i reparti della “Taro” si trovano a Pogradec e il 208º viene aggregato alla 53ª divisione fanteria “Arezzo”. L’11 dicembre rientra nella divisione di appartenenza, che si schiera in prima linea nel settore di Guri Llenges-Dingen-fiume Shkumbini, impegnata  in continui combattimenti fino a gennaio 1941; da febbraio fino al termine delle ostilità con la Grecia il 23 aprile, la divisione è impegnata a respingere duri attacchi nemici e ad effettuare contrattacchi per la riconquista di capisaldi. (Wikipedia)

(7) – Carga
Termine dialettale lombardo, ad indicare un carico portato a spalla. Dal tardo latino “carricare”, derivato di “carro”: mettere sopra un carro o addosso a una persona, ad un animale un peso da trasportare. La sparizione della vocale atona e la lenizione (settentrionale) da c a g sono simili a quanto avviene nello spagnolo “cargar” – “cargo” e in altre forme italiane o dialettali (laco in lago, -mica in -minga).

(8) – Chi fa la guardia… – Nel caso eventuale… – Attenzione alle piante
Tre frasi, curiosamente vicine, che, pur costruite correttamente e composte da parole perfettamente leggibili, ma, in quanto di tono gergale un po’ criptico, possono indurre un’ interpretazione un po’ incerta, anche se risulta chiaro il riferimento a situazioni di pericolo incombente.

(9) –  … sei o sette capanne da albanesi
Nonostante le condizioni in cui si trovano e la necessità estrema di un rifugio, non entrano in quelle povere e disprezzate abitazioni “capanne da albanesi”. Nonostante il connotato positivo del fatto, Pare quasi eccessivo e fuori luogo: si ripete un po’ la situazione davanti alla pasticceria di Corizza.

(10) – Giargianesi
I termini dispregiativi, compresi quelli etnici, si tramandano da secoli in tutte lingue del mondo per riferirsi agli abitanti di questa o quella località, paese o nazione. In questo caso, la parola, assertivamente riferita ad una fantomatica popolazione, è usata per segnare un certo disprezzo, fatto in realtà di paura e anche di contestuale complesso d’inferiorità, verso l’altro, il diverso, lo straniero… il nemico. La ricerca sull’etimologia del termine ha aperto una voragine di curiosità, sia intesa (al singolare, la mia) come desiderio di sapere per amore del conoscere e come stimolo intellettuale, sia (al plurale, quella di altri) intese come stranezze, cose rare, palesi assurdità, da non credere, ma finite comunque oggetto della prima. Il tutto ha richiesto un approfondimento in un breve articolo, che non appena terminato, sarà raggiungibile da un apposito link, inserito qui.
Da notare che gli albanesi sono apostrofati allo stesso modo, anche in memoriali di noti scrittori, come fa Mario Rigoni Stern in “Quota Albania”.

(11) – Rimase con la vista che l’indomani guardava in bocca a noi tre
Il senso è chiaro per il “guardava in bocca”, ma il “rimase con la vista” è un modo di dire, come “si vedeva già a..”?

(12) – Chiarizia
La Chiarizia è un minestrone in scatola che prende il nome dal suo inventore, il colonnello Ettore Chiarizia, che la brevettò nel 1929 insieme ad altri prodotti alimentari scatolati per le truppe, come la carne in scatola e la minestra di pasta e lenticchie, prodotti che costituirono un notevole miglioramento verso la soluzione dell’importante e delicato problema di vettovagliamento delle truppe al fronte, specialmente per il fatto che rendevano possibile la distribuzione di un rancio caldo e, come il papà dimostra, abbastanza gradito dalle truppe che si trovavano in situazioni particolarmente disagiate, dove non era possibile preparare e far giungere in buone condizioni il rancio caldo alle truppe.

(13) – “All’armi!”, la canzone dei bersaglieri
Una delle tante, nemmeno tra le più… gettonate

Notare che il papà registra l’incontro con il generale (Bonini, probabilmente) e la cantata alla Vigilia di Natale , mentre Pasquino data l’evento al 23 dicembre e cita un’altra canzone: “Il reggimento di papà”.

(14) – Reffile
Il termine è scritto così, non ci sono dubbi: al massimo potrebbe mancare un accento finale per poterla interpretare come una italianizzazione di un dialettale refilé o simile. Quanto al significato, parrebbe già a prima vista voler esprimere quello di “girata, ramanzina, lavata di testa, aspro rimprovero, sgridata severa” e chi ne ha più ne metta, mentre in quanto all’origine e all’etimologia il discorso non è altrettanto lineare. Una veloce ricerca ha portato a tre diverse soluzioni possibili e compatibili con il contesto interpretativo in cui il termine è utilizzato: 
1 – Al termine di “rifilata”, il Sabatini Coletti concede il significato di una cosa detta a qualcuno tutta d’un fiato e ciò potrebbe essere appropriato, ma la desinenza avvicina il termine piuttosto a “girata, lavata”, nulla che lo associ ad una voce dialettale nota o a un francesismo del tipo di “défilé”, parata.
2 – Ci può forse venire in aiuto il dizionario milanese di Cletto Arrighi, ove al verbo “refilà” viene associato, tra gli altri simili a quelli dell’italiano “rifilare”, anche quello di “snocciolare” rapidamente.
3 – Sempre su questo dizionario troviamo anche il termine “Refilé”, con l’accento finale e accattivante non poco ai nostri fini, che rimanda, attraverso l’interposta definizione di “mastegada”, al significato di “masticatura”, intesa come trattamento correttivo di una certa violenza dato a qualcuno (El g’ha daa òna mastegada).
Nessuna delle tre soluzioni è totalmente soddisfacente, forse l’ultima, per la vicinanza dei due termini e dei due dialetti, è quella vorrei scegliere, anche se, alla fine, tutte hanno qualcosa da poter rivendicare.  

(15) – Dante distribuisce le scatole di tonno… e il tonno è sparito!
Il periodo in corsivo è stato trascritto allontanandoci leggermente dall’originale, oltre le normali correzioni di ortografia, di punteggiatura e di raccordo tra i periodi. Ciò si è reso necessario per la difficoltà di rendere tutte le frasi in esso contenute collegate in modo organico e con un senso sintattico compiuto. La trascrizione è quindi una rielaborazione ragionata del testo originale, atta a conservarne il significato ed il maggior numero possibile di termini autentici.

I luoghi delle operazioni del 4° bersaglieri nell'autunno - inverno 40-41
Ingrandimento dell'immagine precedente: sono indicati i monti Furka e Lofka, luoghi di combattimentoove ove sono stati decorati, rsipettivamente Dante e ilmaggiore Mennuni, suo comandante di battaglione.
Da questa prosepettiva si può anche provare a disegnare il percorso fatto da Dante da Guri i Bresavet a Kukes e Lin di fine dicembre


L’inverno sul Kalase nel racconto di Scalone

Il giorno 2 dicembre 1940 i greci fecero la prima apparizione, prendendo le misure alle nostre postazioni. Ci fu una lunga sparatoria da ambo le parti, poi, senza insistere ulteriormente, si ritirarono e si appostarono anche loro in una collina di fronte a noi.

[…]

L’indomani mattina giorno 3 dicembre cannoni e mortai greci presero di mira le nostre posizioni, un fuoco di sbarramento che lasciava presagire un attacco imminente. Il 4 dicembre, verso le 10, la fanteria greca venne all’assalto, ma toccarono duro, le beccarono maledettamente e non ci provarono più. Anche nelle nostre file ci furono morti e feriti.

[…]

I mesi di dicembre e gennaio furono terribili, la neve venne abbondante, fino a superare il metro. Si montava di guardia 8 ore consecutive, che sembravano non passare mai. Nei camminamenti facevamo lunghe corse per tenere il sangue in circolazione, specialmente ai piedi, che rischiavano il congelamento.

[…]

Le condizioni erano davvero pessime: il ghiaccio si formava sul telo della tenda e sugli scarponi; l’acqua scorreva sotto il giaciglio e, quando la notte nevicava e ricopriva interamente la tenda, la mattina si faceva fatica a uscire fuori. Un complesso di cose che fecero di noi delle figure inutili: si mangiava male, si dormiva malissimo, sporchi, spesso infestati dai pidocchi. In quelle condizioni, campare o morire, per noi, non aveva più alcuna importanza. La nostra squadra era composta da 12 elementi, ma ora, nei primi giorni di gennaio, eravamo rimasti solo in 5, piuttosto malandati. La stessa cosa accadeva dappertutto nel nostro battaglione.

Il 15 gennaio 1941 arrivarono circa 400 bersaglieri, che, sufficienti solo a rimpiazzare le perdite subite tra dicembre e le prime due settimane del mese di gennaio, furono distribuiti in tutti i reparti del battaglione, virgola in rapporto all’ammanco di uomini nelle varie compagnie. I nuovi arrivati, vedendoci in quelle condizioni, ci guardavano a bocca aperta. Erano quasi tutti piemontesi, tutta gente che a casa aveva lasciato moglie e figli e che, vedendo noi in quelle condizioni e pensando che in poco tempo anche loro si sarebbero ridotti allo stesso modo, provavano un forte scoramento. Tre nuovi arrivati in forza alla nostra compagnia morirono lo stesso giorno, dentro una tenda colpita da una granata di mortaio. Noi, di fronte a loro, sembravamo appartenere ad un’altra razza: ormai non notavamo più le pallottole che fischiavano e le bombe che scoppiavano non ci facevano né caldo né freddo. Loro invece, alla prima esperienza di guerra, ad ogni piccolo pericolo erano sopraffatti dal terrore.

[…]

Il 28 gennaio la nostra compagnia, la settima, fu tolta dalla prima linea per passare di rincalzo.

[…]

Nelle giornate soleggiate del mese di marzo avevamo la possibilità di toglierci di dosso i panni per raschiare con la lama del coltello il sudiciume di pidocchi, ma di lavarli o di lavarci noi stessi non c’era alcuna possibilità. Era l’emblema della vergogna dello stato fascista, che si proponeva di vincere la guerra con un esercito ridotto a una massa di straccioni, dalla testa ai piedi. Io mi adattavo a rattoppare con ago e filo, chi non ne era capace rimaneva con la divisa a penzoloni.

[…]

In questo periodo tutte le mattine allo spuntare del sole veniva a farci visita a un aereo nemico, spuntava da dietro il monte e si lanciava sella nostra linea a mitragliare e bombardare. Era impossibile colpirlo con i fucili o con le mitragliatrici. Una mattina, era il 3 marzo, arrivò come sempre a bassa quota e mitragliò le nostre postazioni, poi virò per continuare a mitragliare ancora, ma questa volta, da sopra un ponticello, una mitraglia antiaerea che era stata fatta arrivare apposta, poté sparargli. Sparò solo tre colpi, al terzo tiro lo centrò in pieno e l’aereo andò subito in fiamme.

[…]

Negli ultimi giorni del mese di febbraio mi ero ammalato e per 5 giorni consecutivi mi recai dal medico di campo con la febbre a 38. Alla fine firmò il foglio di ricovero per l’ospedale di Elbasan.

[…]

Dopo 8 giorni fui dimesso con una licenza di 5 giorni che passai al secondo reggimento di Marcia sempre a Elbasan.

[…]

Il giorno 19 di marzo rientrai un’altra volta al fronte sul Monte Kalase, dove trovai i miei compagni là dove li avevo lasciati.  


Pianificazione romana e logistica di guerra

Mentre i nostri ragazzi sono mandati a morire, a Roma i decisori di guerra si sacannano nel rimplallo di responsabilità per il disastro che si profila. Quaglino accenna al problema con fatalismo, ma Mario Cervi descrive per intero la situazione nel suo libro, del quale sono riprodotti qui sotto ampi stralci delle pagine da 190 a 210, che servono anche ad inquadrare compiutamente gli eventi narrati nei memoriali che stiamo trascrivendo.


Dalle prefazioni delle edizioni 1986 e 2001 del libro “STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA” di Mario Cervi.

Mi ero inserito da accusatore nel racconto perché, mentre buttavo giù a macchina le righe del dattiloscritto, avevo ancora vive nella memoria le immagini del giorno in cui, subito dopo l’8 settembre del 1943, una pattuglia tedesca venne a prelevare le armi del mio plotone – il comando d’armata aveva ordinato ad Atene di consegnarle – e il giorno successivo un’altra pattuglia venne a prenderci prigionieri. Quelle immagini si sovrapponevano alle altre della guerra vera e propria. La frustata bruciava ancora e veniva da lontano, dalla decisione appunto di spezzare le reni alla Grecia.

 


Posizionamento e attività del 4° reggimento bersaglieri all’inizio del 1941

Il reggimento è attestato per una guerra di posizione non congeniale per la specialità, ma si adatta ad un’attività tipica degli alpini, pur non disponendo dei loro scarponi, ma degli stivaletti da bicicletta.

A Librashd c’è l’ufficio amministrazione, l’equipaggiamento e le biciclette (al momento inutilizzabili).

A Lin i servizi della compagnia comando reggimentale, l’autodrappello e i motomezzi della compagnia motociclisti e dei battaglioni.

A Memlishta è dislocato XXVI btg, di giorno nascosto in qualche casolare o nelle buche scavate di notte.

Ai piedi del Kalase, defilati presso il tristemente famoso ponticello di bersaglieri, di cui parleremo più avanti, c’è parte della compagnia comando reggimentale e la compagnia motociclisti.

Sul Kalase, in prima linea, fronteggiano i greci i bersaglieri del XXIX e del XXXI, anche se in realtà si tratta dei resti di questi due battaglioni, perché le perdite sono state elevate, con altissimo contributo di sangue.

Le buche dei bersaglieri si riempiono di neve, di fango e di pidocchi, l’acqua da bere o è neve sciolta o è sporca di terra.

Giunge anche una circolare del comando di Tirana, a richiedere di segnalare eventuali buoni elementi per la formazione di un’orchestrina per la prefata sede del comando.

Ha più successo la circolare che dispone la creazione di reparti di arditi: nonostante gli scarsi vantaggi promessi, si formano rapidamente dei nuclei di ragazzi straordinariamente in gamba che, al comando di alcuni ufficiali, come il tenente Rocca, saranno protagonisti di numerosi e purtroppo non sempre felici, episodi di valore.

Su questa linea difensiva si ferma l’offensiva dei greci, che i soldati vivono come premessa di vittoria.

Di notte c’è soltanto qualche breve scambio di colpi di arma da fuoco e di bombe a mano di pattuglie in avanscoperta a Pogradec, che rientrano all’alba stanche e mezzo congelate fra il fango e la neve e sovente incomplete.

 


L’uccellaccio non vola più

Quasi ogni mattina viene sollazzare sulle nostre linee uno strano uccellaccio: è un ricognitore greco di vecchio modello. Pur rendendo omaggio l’ardimento del pilota nemico virgola che si abbassa a spazzolare le nostre linee a bassissima quota, incurante delle raffiche delle mitragliatrici Breda calibro 8 in funzione antiaerea, una per battaglione, i bersaglieri lo maledicono cordialmente. Ma una mattina c’è una sorpresa: una sezione di mitragliere da 20 mm entra in azione e lo spericolato volatile viene centrato in pieno alla prima raffica, precipitando presso Memlishta. Grande entusiasmo tra gli occupanti del Kalase e anche tra i bersaglieri del XXVI btg, che escono dai loro rifugi. Purtroppo una precisa salva di artiglieria greca fa rabbiosamente vendetta su di loro della perdita del valoroso vecchio ricognitore. 

Il percorso di dante col 4° rgt.bersaglieri dallo sbarco a Durazzo al fronte oltre Corizza (Rehove - Erseke per il XXXI btg).

I prospetti e gli schizzi riprodotti sono tratti da “L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA” (v. fonti in calce alla pagina).

Nel titolo dello schizzo c'è un errore: trattasi della 9a armata, con la divisione Arezzo "in affluenza". I pallini rossi indicano le posizioni raggiunte in tutta fretta dal XXIV e dal XXXI btg, mentre il XXVI, con Dante, in bicicletta, è ancora nei pressi di Corizza.
I due battaglioni del 4° rgt, inviati avanti a tappare le falle, sono snch'essi vittima del frammischiamento tra i battaglioni di unità diverse.
nel ripiegamento da Corizza, il XXVI si separa dagli latri due battaglioni del reggimneto e devia verso siniostra, per attestarsi sul Guri i Bresaves, dopo una marcia faticosissima.
Il XXVI sul Guri i Bresaves, gli altri due battaglioni sul Kalase, all'estrema ala sinistra dello schieramento italiano, dove i greci sosterranno il massimo sforzo per passare sulla strada costiera e avere via libera verso Elbasan e Tirana.
Un ingrandimento dello schizzo precedente.
In questo schizzo il XXXI btg non risulta ancora posizionato.
Qui i tre battaglioni compaiono attestati nelle posizioni concordemente riportate da tutte le fonti.
Il fronte è stabilizzato e resisterà ai successivi attacchi dei greci.
La motivazione della ricompensa al maggiore Mennuni per i fatti del novembre 1940.
L'onerificenza concessa a Dante per i fatti del novembre 1940 sul Monte Furkes
Il colonnello Scognamiglio davanti alla sua "grotta-comando" sui monti attormo a Pogradec. Le note a corredo dell'immagine indicano la località di Bregu-i-Ferres, quota 1328.

L'INVERNO SUL KALASE E IL FRONTE JUGOSALAVO

IL RACCONTO

1° gennaio 1941. Prepararsi che c’è la messa! Andiamo alla messa per la festa del primo dell’anno, tutti contenti, così Dio ci potrà aiutare per tutto l’anno e poi la messa la celebra il nostro tenente cappellano… Celebrata la messa, ritorniamo, Dante entrò nella casetta, mi gira la testa, io non so cosa c’ho addosso, forza non ce n’è, fame non me ne viene: come fa un uomo così a star bene? Ma bisogna scrivere a casa di stare bene. «Che bella giornata che passiamo», pensava Dante, «coraggio, coraggio, ma se andiamo avanti ancora un po’ così, stiamo freschi!» L’amico Gatti incoraggiava Dante ogni volta che lo vedeva e così passarono le belle feste. I giorni 2 e 3 gennaio venivano distribuiti gli oggetti di corredo: maglioni, camicie, calze, mutande, giubbe, eccetera. Ma per liberarsi dai carri armati bisognava lasciare la vita militare, noi eravamo solo padroni di quei begli insetti e basta. Dante teneva le scarpe nuove, ma una l’aveva tagliata perché gli era stretta; così, secondo l’ordine che tutti dovevano avere le scarpe, Dante non disse niente e si arrangiava ad avere due belle scarpe e a non soffrire più il mal di piedi. Dante pensava alla sua Pina, ma posta non ne arrivava mai e pazienza, arriverà anche la posta.

Il giorno 4 gennaio, Dante si sentiva la febbre e chiedeva visita. Vado alla visita e ho la febbre a 38,7. Il medico mi dice di stare rinchiuso e di tornare ancora la sera a misurare la febbre. Va bene! Vado alla sera, la febbre è ancora più alta e il medico mi dice: «Se domani sei ancora così, ti mando all’ospedale». Ritorno, lo dico al tenente, che non mi dice niente. Giorno 5 gennaio: vado ancora per la febbre, forse non ne avevo, e il medico mi chiede se sono del plotone del tenente Tonti.16 «Signorsì». «Ebbene, allora non posso mandarti all’ospedale, perché ho sentito lui ieri sera e mi ha detto che non vuole che tu gli vada via dal plotone». Quant’era la rabbia di Dante, ma il superiore è superiore e bisogna fare silenzio. Al pomeriggio, l’attendente bersagliere De Grossi partiva in licenza di venti giorni: gli fu detto che sarebbe stata una licenza premio, ma noi sapevamo invece che andava per la morte della sua povera mamma.

Giorno 6 gennaio e bisogna partire. Il tenente mi domanda se sono capace di camminare. «La comandate voi la mia persona, quindi finché non sono morto camminerò!» Il tenente si incazzava un po’, ma Dante ha  voluto proprio dirle, queste parole al tenente. Dopo aver mangiato il rancio, fu fatta l’adunata del battaglione, appena fuori dal paese. Il signor colonnello Verdi 17 a nome del povero colonnello Scognamiglio, in licenza per la morte di suo papà, parlava a noi di quanto avevamo fatto. Alla fine del suo discorso si mise a piangere, pover’uomo, per la condizione in cui noi eravamo: «Fatevi coraggio, ragazzi, presto arriverà la vittoria e si parte». L’ordine era di stare molto staccati da un plotone all’altro, per il pericolo degli apparecchi, dato che era una bella giornata. Durante la strada ci siamo incontrati col genio, che stava lavorando, e il caporal maggiore Ansaldi domandava che reparto di genio fosse: era quello di suo fratello, del quale non sapeva più nulla dal giorno 22 novembre 1940, avendolo incontrato nel ripiegamento. L’amico del fratello disse al caporal maggiore che era stato fatto prigioniero dopo due giorni che si erano incontrati e lui ne fu contento, almeno sapendo che era ancora vivo. Pazienza! E, appena possibile, avrebbe scritto a casa alla mamma di quanto aveva saputo. Lungo la strada troviamo le due cucine dei nostri due battaglioni XXIX e XXXI: lì sapemmo che i nostri compagni furono attaccati il 9 dicembre 1940 dai greci, che volevano venire a Lin, ma che furono ricacciati a Pogradec con le bombe a mano dal coraggio dei compagni e che non ebbero più mezzo di riprendere ad avanzare. Lungo la strada non si trovava altro che militari e materiale dell’esercito di tutte le sorti. Dopo tanto camminare e quando era già buio, giriamo a destra su per una stradicciola brutta di sassi e tutti si domandavano dove si stesse andando, sentendo dire che a poca distanza c’era il paesetto ove noi andavamo per accantonarci. Coraggio, avanti sempre! Ma Dante è rassegnato. Con tanto sacrificio arriviamo vicino a una capanna e lì tutto il primo plotone entra, ma la casetta era più stretta della casetta di Lin, eppure tutti dobbiamo stare lì dentro. Il tenente, dopo averci rinchiusi tutti dentro, raccomanda di stare sempre pronti, di non dormire e nemmeno levarsi le scarpe e se ne va via. Tra noi però pensiamo: «Allora noi non dormiamo più! Ma, se ascoltiamo quello lì, stiamo freschi. Fa già freddo anche troppo, dica quel che vuole». Già erano segnati gli uomini che al mattino dovevano scendere sulla strada a prendere il rancio, mattino e sera sempre per il buio, altrimenti, con l’artiglieria greca che stava a Pogradec, sarebbe finita in un macello.  

Siamo verso il tramonto del giorno 7 gennaio e un apparecchio gira e romba sopra il paese; la nostra contraerea sparava già, ma staccava lo stesso tre bombe che fecero ballare tutto il paese e tre bersaglieri della terza compagnia rimanevano feriti molto gravemente: per essere il primo giorno, incominciava bene! Alcuni compagni, che stavano fuori a guardare l’apparecchio, si mettono a gridare: «Colpito! Colpito!» e cadde giù, in mezzo alle alte montagne, con tutte e tre le persone che ci stavano sopra che bruciano mentre l’apparecchio arrivava per terra. Giorno 8 gennaio mattino: il tenente viene e pensa di farci fare il rifugio e tutti al lavoro per la causa della pelle, ma la forza di Dante diminuiva sempre, invece di aumentare. Alla sera, dopo la distribuzione del rancio, arriva il tenente, quella bestia! Grida: «Allarmi, fuori tutti, prendere tutto!» Dante, dalla fretta, usciva senza gambali, ma dal buio il tenente non se ne accorse. Ma questo fu solo per una prova e così subito dentro. Il rancio al mattino ce l’hanno tolto e arrivava solo la sera, per quella bella robaccia che ci portavano, c’era solo da essere in ballo per il rancio e soffrire giorno per giorno. La sera del giorno 10 gennaio “… del fiasco che vola, quella notte, a raccontarla tutta, ci sarebbe da scrivere un libro, maledetto quell’ ufficiale!” 8  

Per noi tutti i giorni erano uguali: alla sera, dalle dieci a mezzanotte si mangiava e al mattino dentro al rifugio per ripararci dalle cannonate che arrivavano sopra il paese. Il giorno 13 gennaio arrivò qualche oggetto di corredo, un’offerta fatta dal duce. Alla sera l’amico Gatti mi portava un coperchio di carne di mulo da lui accomodata e come era buona! Il giorno 17 gennaio mattino, il tenente viene a fare pratica d’armi e poi se ne va alla mensa. Nessuno lo aspettava, ma il tenente torna: io ero fuori dalla capanna a lavarmi le mani, tutte sporche di olio dopo aver maneggiato i pezzi dell’arma nell’addestrare i nuovi bersaglieri del primo complemento, che da vari giorni si aspettavano e che erano arrivati la sera prima. Proprio per questo Dante era stato traslocato lì vicino, con tutta la sua squadra: «Schiavi! Presto, armati e vieni con me, subito subito!» Mi domando cosa stia succedendo e sotto la neve andiamo al comando di battaglione, entro dove c’era il maggiore e lui mi consegna in mano un bell’orologio, uno dei tre regalati per ciascuno dei tre battaglioni dalla moglie del povero colonnello. Ringrazio il maggiore, poi il tenente, poi il capitano e via nella mia capanna. Tutti gli amici parlavano, dicendo tutti la loro, chi in bene e chi in male, ma la forza di Dante non aumentava per nessun motivo. Fortuna che in quei giorni incominciava ad arrivare la posta, con la notizia che la sorella passò il Natale tranquilla, avendo ricevuto la cartolina mia del 18 novembre, ché solo quello era il mio pensiero, cioè che la sorella avesse ricevuto mie notizie prima di Natale. Qui la posta cominciava ad arrivare regolarmente tutti i giorni e in seguito Dante riceveva notizie dalle sue care Pina e Gilda, dai parenti, eccetera.

Giorno 20 gennaio: il tenente viene a fare la nota di chi aveva la divisa proprio fuori uso, ma alle 12 e 31 una cannonata entrava dalla finestra della casa dove stava la mensa ufficiali e lì quattro ufficiali rimasero feriti, dei quali il più grave era proprio il tenente Tonti e tutti avevano la loro da dire: chi fa del male riceve del male. Dante, insieme a diversi uomini della squadra, portava il tenente con la barella sulla strada, ché poi, tanto, l’ambulanza lo avrebbe trasportato all’ospedale. Il 21 gennaio mattino, il furiere veniva a fare i vaglia per spedire i soldi a casa, tanto, mezzi per spenderli non ce n’erano e Dante mandava così alla sorella lire trecento. La sera viene il capitano nella nostra capanna e ci porta la notizia che il povero tenente Tonti era morto. Il giorno 23 gennaio un nuovo tenente veniva a prendere il comando del plotone: era il signor tenente Allegri, ufficiale molto buono. Siamo al 30 gennaio, compleanno di Dante, che pensava cosa potesse fare: non la pensai neanche male e inviavo una lettera alla sorella, domandandole di Pina, ché rari erano i suoi scritti e chiedendole di spedire subito un pacco di roba buona, così potrò aiutarmi un po’

Il 1° febbraio distribuirono delle sigarette bulgare e Dante sempre le regalava ai compagni: niente fumare! Il 3 febbraio Dante va a prendere il rancio e c’è una bella bisticciata tra i compagni: c’era sempre da bisticciarsi a parole, tutto per la brutta vita che tutti conducevano. Che brutti giorni in quella capanna! Sempre acqua e neve: la paglia, che stava sopra la capanna, si bagnava e pioveva dentro. Legna non se ne trovava più, si tagliavano persino gli alberi da frutto e la sera era una guerra a rubarsi le piante uno con l’altro. Giorno 14 febbraio: c’è l’ordine di tenersi pronti ma la partenza non viene. La sera del 15 febbraio arriva una cannonata sopra la casa dove la prima compagnia era accantonata e ci furono due morti e diversi feriti. Il tenente veniva chiamato al comando di battaglione e a sostituirlo veniva il tenente Bologna, uomo molto buono.

Il tempo era sempre brutto, con acqua, neve e vento freddo e Dante aveva sempre poca voglia. La vita nostra che si trascorreva in quella capanna era peggio che quella di un cane. Si dormiva proprio per terra e, dopo mezz’ora che pioveva, era come essere fuori, con i pidocchi che davano l’aiuto dello spirito. Il 22 febbraio, verso sera, ormai si sperava in una giornata passata tranquilla. Già stava per imbrunire, il fuoco era acceso, però alcuni compagni ancora stavano nel rifugio, e arriva una cannonata che, sfiorando la cima della capanna, va a sbattere sull’angolo della casa dove stava il secondo plotone: la capanna non cascò per l’aiuto di Dio, ma alcuni sassi cascarono dal muro, un attimo, un polverone e Dante che si trovava privo di aria, mancandomi il respiro. Coraggio, che anche questa è passata! Andiamo a vedere fuori: della squadra nessun ferito, del plotone due feriti, il Santagata e il Merello, del secondo plotone, il povero Camera era morto e il sergente Piccardo gravemente ferito. Bisogna aiutare i feriti e portarli all’infermeria, i poveretti chiamavano aiuto, ma tutti se ne stavano nel rifugio e nessuno vuole uscire: «Che coraggio da bersagliere avete? Volete proprio lasciar morire i compagni?» Ma in poco tempo i feriti furono giù dal dottore, anche se poi il sergente Piccardo e il Merello morivano dissanguati, strada facendo verso l’ospedale. Il povero Merello lasciava la moglie e una bambina, mentre la mamma, poveretta, era in fin di vita per il dispiacere del primo figlio, già caduto in Africa. Il tenente fa la predica perché tanti non vogliono stare nel rifugio, ma nel rifugio si gelava dal freddo e poi alla vita, ossia alla fede, non ci si dava più importanza. Sono le 22 e poco lontano si vedono dei segnali con dei lumi. Andiamo subito via con il tenente a vedere: erano quei traditori di albanesi che stavano facendo dei segnali. Furono presi e portati dal nostro maggiore. Il giorno 24 febbraio, non una, ma 8 cannonate ed era sempre il solito che sparava: ebbene, tutti fuori dal paese, ma nessuna novità.

Il 25 febbraio, carnevale, e 26 febbraio tutto calmo. Il 27 febbraio fu una giornata d’inferno: un freddo da cani e questa sera tocca a me di andare giù a prendere il rancio… Coraggio! La salute cominciava a migliorare, ritorno con il rancio ed è arrivato il pacco della sorella Rosa e meno male! Dante in poco tempo si prendeva forza e salute, ché i salami della sorella furono altro che una medicina. La poca voglia c’era perché si mangiava poco e malissimo, sempre sete e l’acqua era cattiva.

Sempre si parlava della paura della Turchia, ma il 1° marzo il tenente ci dà la notizia che si sarebbe alleata con noi e un po’ di sollievo è giunto. La posta arrivava tutti i giorni e Dante era già da qualche giorno che ne aspettava dalla sua Pina, chiedendo sempre alla sorella se sapesse qualcosa e sempre con le buone parole. La falsa: «Sì, ci ho scritto l’altro ieri…», ma Dante, anche se era sotto il pericolo minuto per minuto, già una bella lettera aveva preparato per la Pina con quello che pensava, e, nel mandare la notizia alla sorella con i ringraziamenti per il pacco, pure questa venne inviata alla cento idee, che poi, di fronte alla sorella, si scusava e piangeva, dicendole: «Non pensavo che tuo fratello avrebbe compreso questa cosa qua, essendo così lontano e a Dante non scrivo più perché da due settimane il mio vecchio fidanzato mi scrive ancora…» A questo punto la Pina l’avevo già lasciata, ma, venendo a sapere questo, Dante inviava uno scritto alla Pina, ringraziandola e facendole giungere un mondo di auguri. Il 3 marzo arrivò l’ordine che alla sera c’era da partire per andare a dare il cambio alla milizia sul Monte Kalase, vicino a dove stavano i nostri compagni bersaglieri del XXXI battaglione. È notte, si parte tutti silenziosi e si mette a nevicare: fortuna che Dante si era procurato una mantellina, lasciata dai feriti portati all’ospedale, e poteva coprirsi per bene. Si può immaginare la forza che noi potevamo avere, dopo tanto tempo che eravamo stati rinchiusi. Un’ora di cammino e si prendeva una mulattiera, tutto fango, alla distanza di due metri non si vedeva più l’amico che camminava davanti, la fila incominciava ad allungarsi e di tanto in tanto c’era un bersagliere seduto, che non aveva più forza; anche Dante si allontanava dall’amico che aveva davanti e perdeva la mulattiera: fortuna che in quel momento un compagno parlò e Dante ebbe la via da seguire. Ormai eravamo tutti bagnati, Dante perdeva la mantellina e l’amico Monti, che stava dietro, me la raccoglieva e me la consegnava: ringrazio l’amico e avanti. Per la seconda volta, Dante perdeva la mantellina senza accorgersene, né lui e nemmeno gli amici e così fu smarrita. Sono le due del 4 marzo e siamo arrivati in un profondo vallone, dove stava il battaglione della milizia. Il fango che c’era in quel vallone non si poteva immaginare dalla grande oscurità, ma si sentiva nelle gambe e mi ricordo che tre compagni dovemmo andarli a prendere, ché non riuscivano a levarsi dal fango, che era dappertutto: tutti dentro fino al ginocchio e con le forze finite, si erano seduti per terra.. Dante si riuniva a tutti i compagni di squadra e poi, in un qualche modo, si passava la notte d’inferno, cercando la mantellina, sebbene bagnata, ma non c’era più. Pazienza! Passò la notte, ma fu terribile. Al mattino c’era da fare la buca per ripararsi e per fare la tenda, che sarebbe poi stata la nostra casa. Picconi ce n’erano pochi e tutti ne avevano bisogno: cerca di qua e di là, con tutta la volontà dei compagni, in poche ore la tenda era fatta.

Le prime ore non si pensava a quello che i compagni dicevano se neppure era da noi provato. 19 Ma non passarono due ore che già due cannonate arrivarono sulla montagna di fronte a noi ed era sempre quel cannone che sparava su Memlishta, il paese dove tante volte mi fece correre nel rifugio; ma qua siamo a posto e tutti si riteneva giusto e necessario starsene in tenda. Il giorno 5 marzo Dante riceve una cara lettera della sorella Luisa che mi avvisa di aver spedito un pacco, che arriverà presto e che presto sarà divorato . Il giorno 8 marzo ricevo la lettera che tanto aspettavo dalla sorella Rosa, che conteneva la risposta di quella tale lettera inviata a Pina. Il giorno 10 marzo un po’ di oggetti di corredo furono distribuiti e Dante ebbe i pantaloni nuovi, andando poi alla sera a prendere il rancio al ponticello. 20

Il giorno 11 marzo siamo andati a provare le canne nuove delle armi e a mettere così sottosopra i greci che stavano a Pogradec, da dove, fin dall’inizio si erano messi a farci sentire con l’altoparlante la bella canzone di loro intenzione, 21 ma poi, dopo poche settimane hanno lasciato tutto e non si sono più fermati fino ad Atene, ché là ci fu la vittoria. 22  

Il giorno 12 marzo ho ricevuto il pacco della sorella Luisa: qua l’appetito era al cento per cento, la salute ormai ottima, ma il rancio era sempre poco e brutto. Il giorno 15 marzo la terza compagnia subì un violento attacco: tutto fu respinto, ma ci furono tre morti e fra i tre il sergente maggiore Massetto, della prima compagnia, che era andato volontario di pattuglia. Il giorno 16 marzo mattino, il freddo è rigido, tutti stavamo ancora sotto la tenda e mi sento chiamare: era l’amico Maggiorino, che da porta ordini, passava alla sua compagnia: era più di un bel mese che, uno dell’altro, non si sapeva più nulla. Il giorno 17 marzo c’è l’arrivo dei secondi complementi e poi, nella mattinata, arrivarono anche dodici sacchi di pacchi. Dante sapeva che la Gilda aveva dato l’indirizzo mio a una signora e, fra i tanti, c’era anche un pacco per Dante, che da quella signora era spedito. Era tutta roba di indumenti, ma Dante ringraziava lo stesso la signora con una semplice lettera. Il 18 marzo sera una mortaiata veniva a battere proprio sopra la tenda dei bersaglieri Bertoldo, caporal maggiore, Bacchio e Mori, tutti e tre amici vecchi del permanente: la tenda volava per aria, ma per fortuna i tre compagni si trovavano nel rifugio, nessuno fu ferito, però rimasero sbalorditi per qualche ora dallo scoppio del proiettile. Niente di male e anche questa è passata. Giorno 19 marzo, Dante è tutto contento per la foto e una bella lettera della sorella Rosa; nel pomeriggio furono distribuite le mantelline, Dante era senza, avendola smarrita quella brutta sera del cambio e qui mi veniva data una bella mantellina lunga, almeno di notte non c’era più da soffrire il freddo. Il giorno 20 marzo mattina, per la terza volta arrivarono i complementi, che subito vennero in cerca, per vedere se trovavano amici: ad un tratto mi si presenta il Vercesi, già conosciuto al Cardazzo quando abitavo alla Cascina Novo e lì, allegri di tutto, ci spiegavamo del passato, tanto Dante, come il Vercesi. Dante, vedendo il compagno che fumava e tenendomi la scorta di sigarette, offriva al compagno diversi pacchetti e lui tutto contento mi ringraziava. Dante sapeva che il Vercesi era cugino dell’Albertina, che di tanto in tanto mi dava notizie di tutta la famiglia, e qui venne fatta una bella chiacchierata, scordandoci un po’ del pensiero delle cannonate, che partivano da Pogradec con l’accompagnamento del canto dell’altoparlante, che tutte le mattine ci facevano sentire.

Passarono diversi giorni e siamo al giorno 25 marzo. L’ordine venne per dare il cambio al XXIX battaglione, che già da vari giorni aspettavamo, e verso sera tutte le tende furono disfatte: il tempo era poco bello, ma ordini sono ordini e siamo in guerra. Tutti eravamo pronti ad aspettare il buio, ormai la giornata l’avevamo passata e tre cannonate frantumavano quattro tende del XXXI battaglione, causando tre morti e diversi feriti. Dei tre morti, uno era dei complementi ultimi arrivati e anche di lui, povero ragazzo, si seppe che lasciava la moglie vedova e un bambino. Intanto il tempo era diventato brutto e già stava cadendo acqua, ma c’è l’ordine che non si dà più il cambio e che lì dobbiamo farci la tenda alla bell’e meglio, sotto l’acqua e tutto al buio; ma, con la pratica ormai, in breve tempo anche la casa fu fatta. Qua viene il ritardo del rancio, che arrivò solo alle tre del 26 marzo: rancio brutto, freddo, ma “mangia ‘sta minestra o salta ‘sta finestra”. E venne mattino che tutti si dormiva e poi, la sera, a dare il cambio: di nuovo le tende per aria e in poco tempo tutto fu pronto. Alle otto partenza, un’ora e mezzo di cammino, arrivati al posto, lì, squadra per squadra, tutti furono destinati alle loro postazioni. Dante aveva la postazione sotto un grosso albero e fece la feritoia per l’arma, tagliando la pianta e ben rinforzando la postazione con tronchi e con sacchetti di terra. Intanto la notte passò: coraggio! Sebbene qui siamo al brutto, con più di duecento metri di camminamento per andare a dare il cambio alle due sentinelle, che di continuo mantenevano l’allarme.

Dopo giorni duri e cattivi e tanta fame, venne anche la notizia che ai primi di aprile ci sarebbe stato il cambio della fanteria, ma intanto, tutti i giorni, c’erano dei morti delle nostre compagnie fucilieri.  Siamo all’alba del 30 marzo e la giornata nasce limpida, con un bel sole che luccicava dappertutto. Ma, verso le nove, arrivò l’ordine d’allarme e di mettersi tutti in postazione e tutti subito furono al loro posto. Nessuno pensava alla morte, tutti pronti, serviva solo impiegare le nostre Breda. Neanche mezz’ora che si aspettava e la sorpresa furono più di venti colpi di mortaio erano indirizzati a noi, ma sette fecero toppa e penetrarono nel terreno senza esplodere, mentre solo uno degli altri batteva sull’orlo del camminamento e colpiva due compagni con il terreno alzato, causando leggerissime ferite alle mani. Noi eravamo proprio vicino al Lago d’Ocrida, il lato debole, ma alla nostra destra si sentiva un mitragliamento che durò per nove ore. Quante munizioni furono mai adoperate! Alla sera tutto era in silenzio e sapemmo che quei furbi di greci avevano attaccato con un battaglione per tentare di sfondare: ma tutto fu distrutto e non più di cento uomini riuscirono a scappare indietro, al paese di Pogradec. Mai paura, anche oggi è passata!

Qua si sapeva che la notte del 31 marzo doveva venire il cambio e tutti si aspettava quell’ora, ma, come era stato per noi, fu così anche per quelli e solo la bella notte del 1° aprile arrivò il cambio. Con la calma della fanteria, il cambio venne dato dopo la mezzanotte e anche di più. Ma guarda come va! E poi giù, appena la compagnia fu adunata. A causa del ritardo del cambio, hanno poi dovuto tirarci il collo e fu nostra fortuna e poi nostro interesse, per andarcene presto fuori dal pericolo, perché la strada era sempre battuta dallo stesso cannone che aveva battuto su Memlishta e che tutto il giorno ci aveva tenuto nel rifugio. Dopo tanto camminare, tutti sfiniti, finalmente siamo al sicuro. Arrivò il caffè, dopo a fare le tende e attenzione a fare le turche, ché devi coprirle, per non essere visti dagli aerei. Intanto si venne a sapere la bella notizia della Jugoslavia, la porca che anche lei in poco tempo fu distrutta. 23 Mi ricordo che la giornata era bella e poco lontano c’era un bel canale d’acqua: era il 2 aprile e possiamo immaginare come può essere l’acqua, ma, per il desiderio di pulirci, ci siamo spogliati e dentro a farci un bel bagno! Alla fine ci siamo accontentati di un po’ di pastasciutta, spezzatino, vino e sigarette, ma tutti eravamo malinconici per la prossima partenza per destinazione ignota.

Partenza appena mangiato e i piedi piangevano dal tanto cammino, eppure bisogna andare avanti. Coraggio! Abbiamo fatto il giro da Lin e poi sotto la salita giunsero a prenderci i camion. Per plotone ci hanno caricati come le bestie e avanti! Dopo due ore di strada, alt! Siamo scesi, erano le dodici e qualche minuto, i camion sono partiti e noi lì vicino, su di un dosso, ci siamo riposati sotto le stelle brillanti. Venne mattino, tutti a fare le tende e con le frasche a coprirle, mentre da lontano si sentivano tremare le cannonate. Ebbene, la giornata passò prendendo la decade e ricevendo una bella lettera dalla Gilda e una dall’Albertina, e subito ho risposto. Nella serata, il secondo e il quarto plotone andarono a prendere postazione in rinforzo della terza e della prima compagnia; Dante è del primo plotone, quindi riposo e forse questa notte la passiamo sotto la tenda. Durante il giorno alcuni compagni avevano rastrellato delle foglie e la notte passò, riposandoci dalle fatiche fatte.

Siamo al giorno 5 aprile. Il maggiore ce l’aveva con la quarta compagnia, sapendo che era in cerca di una cima dove piazzarla: così fu che alla sera, dopo il rancio, si prepara tutto e si parte. Dopo tre quarti d’ora di cammino siamo al posto e fortuna che abbiamo trovato la postazione fatta dalla fanteria. Subito fu piazzata l’arma e in qualche modo la notte passò. Ormai c’erano delle belle giornate e il freddo si può dire che stesse scomparendo. Il 6 aprile tutti al lavoro, a rinforzare la postazione e a metterci alla meglio per dormire. Il rancio arrivava poco lontano, proprio vicino alla postazione della seconda squadra. La sera del 7 aprile una notizia poco bella si seppe dal maggiore della fanteria, alla quale noi eravamo di rinforzo. E neanche passò mezz’ora che arrivò l’ordine di partire. Tutto il materiale e avanti, subito pronti. Aspettiamo la fanteria, ma era una babilonia che non ci si capiva niente. In qualche modo si va avanti: si pensava  sì alla guerra, ma in un certo modo! Non lontano un chilometro, tutte le armi furono impiegate in una sparatoria da pazzi. L’arma della seconda squadra non c’è verso di farla sparare, il caposquadra smonta di qua e di là ma non riesce a farla funzionare, mentre l’arma di Dante aveva sparato già sei cassette di munizioni. Mi viene in mente di avvisare il compagno, gli dico di guardare se la valvola era a posto. E così fu, che la valvola del gas era tutta aperta e che non c’era abbastanza forza per far sparare l’arma e l’ arma allora sparò. Eravamo in un posto poco bello, c’erano stati già diversi feriti nella fanteria e il fuoco sempre continuava. Il comandante della compagnia di fanteria vuole fare andare avanti noi, che abbiamo le armi di accompagnamento, ché i suoi fanti, che hanno i fucili mitragliatori, non riesce a mandarli avanti. Quasi tutte le munizioni erano consumate e il comandante della compagnia ha mandato un portaordini dal maggiore a chiamare rinforzo. Andò a portare questi ordini il bersagliere Degrossi, che da pochi giorni era ritornato dalla licenza per la morte della mamma quando eravamo a Lin. Andando giù, una pallottola gli spaccava tutto il calcio del moschetto e anche lui se l’è vista davanti bella. Intanto la nostra artiglieria batteva senza tregua poco avanti di noi. Con l’aiuto dell’artiglieria il fuoco cessò e venne il tempo buono per scavalcare la montagna e aggirare anche questi begli jugoslavi e avanti. L’unica novità era quella del bersagliere De Grossi. Questo fatto avvenne in tre orette, non di più, ma intanto si faceva notte e sempre si va avanti. Il tempo è brutto e si mette a piovere, eravamo vestiti appena appena e si metteva a fare un freddo da pazzi: ci siamo fermati vicino a una casa fracassata dai colpi di artiglieria ma non c’era verso di riposare.

Intanto i fanti avevano già preso una decina di prigionieri, tutte facce da delinquenti, uomini brutti, 23 e due fanti li hanno accompagnati giù al comando di battaglione. Si passò una notte da barbari, senza niente, nemmeno la mantellina. Il nostro compito era di arrivare alla cima e già c’eravamo, ma il tenente vuole andare avanti ancora e allora al mattino sempre avanti, Trovammo qualche morto: uno aveva la testa tutta fracassata, due erano a terra abbracciati: non erano della nostra razza, ma facevano sempre compassione! 23  Nella mattina erano già stati fatti più di cento prigionieri. Due giorni di guerra con la Jugoslavia e arrivò l’ordine di ritornare indietro. Già siamo al giorno 8 aprile e siamo tutti riuniti: «Avanti! Fare in fretta!» Si incomincia a partire, la prima squadra avanti, ma tutti avevamo ancora da metterci tutto il materiale in spalla… «Sotto! Sotto! » Ma c’era buio e la fila sparì. Si camminava, ma non si sapeva dove si andava. Cammina e cammina, ma ci eravamo persi in sei della squadra, quando il destino ha voluto che mi senta chiamare da un compagno che mi veniva a cercare. Finalmente il cuore si calmava di battere e si segue l’amico, andando a raggiungere la compagnia e il battaglione. Il mattino del giorno 9 aprile, il battaglione è tutto riunito davanti alla postazione che avevamo preso il giorno 5 e lì c’era un bel largo, dove eravamo tutti riuniti. Arrivarono sei o sette apparecchi inglesi, tutti ci cercavamo un punto al riparo, ma per fortuna son passati per andare a bombardare le casermette di Perrenjes. Al loro ritorno sono passati bassissimi e bisogna dire che non hanno voluto mitragliarci, altrimenti diventava un cimitero. Allora il maggiore ha dato l’ordine di ritirarci da quel momento sotto la montagna, ma mangiare non si mangia più, passa mezzogiorno e tutti riuniti, ché presto si parte. Avanti le compagnie leggere e poi avanti noi della mitraglieri, dopo due chilometri di strada si prende per una lunga e alta montagna, di tanto in tanto qualche alt, c’era da fare attenzione, era guerra e non istruzione!24. Viene notte, il battaglione stava proprio sopra la montagna, il nemico ci ha visto e si mettono a mitragliare. Alt! Subito dietrofront e in un attimo il battaglione spariva dietro la montagna e per fortuna nessuna novità. Qua siamo al riparo, ma tutti smorti, facce da cadaveri, due giorni che non si mangiava e quasi sempre tempo brutto, forze non ce n’erano più. Credevamo di fermarci lì e che sarebbe arrivato qualche cosa da mangiare… Altro che mangiare: dopo una mezz’ora che era buio, ormai, si gira dalla parte opposta della montagna; il fuoco era cessato e avanti fino alle tre del mattino. Si camminò, sempre sotto l’acqua e la neve, carichi come le bestie, siamo sfiniti, ma sempre coraggio! Siamo fermi sotto un cespuglio, ci mettiamo il telo in testa e abbiamo riposato lì.

Siamo al mattino del 10 aprile, siamo quasi a Pasqua: che bei giorni che passiamo! Cosa si pensava? Solo che arrivasse qualche cosa da mangiare, ma altro che mangiare, gli ufficiali si mettono a gridare: «Sveglia! Adunata!» Alziamo il telo che sembrava un pezzo di latta, era rigido come un merluzzo, tutto bianco: una bella nevicata, un freddo cane. Il battaglione è tutto riunito, ogni compagnia si prende la sua roba pronta e avanti. Noi siamo con la terza compagnia, si segue con le armi a portata di mano, un freddo veramente insopportabile, nevicava alla più bella. La pancia era vuota, la testa girava come una giostra eppure bisognava farsi coraggio e camminare su una mulattiera tutta piena di fango, tutti sporchi e bagnati. Siamo verso le dieci e ci troviamo in un pineto fitto fitto, ma c’era un tratto scoperto di mulattiera, prima di entrare nel pineto e ci hanno visti entrare lì: ci hanno lasciato entrare e poi si son messi a sparare con moschetti e mitraglie a gran forza. Le pallottole fischiavano a più non posso, ognuno pensava di ripararsi dietro le piante e giù a terra, per salvare la pelle stavamo ben radenti a terra sebbene ci fosse la neve e anche con la testa dentro la neve. Lì arriva anche il nostro maggiore e vederlo in piedi sembrava neanche di essere in guerra, vedere lui così coraggioso per noi era un aiuto: la paura spariva tutta e ognuno faceva quello che gli era detto. Siamo fuori dal pineto, un colpo di vento fa sparire tutta la nebbia e vediamo i porci jugoslavi23 che scappano giù e poi sopra l’altra montagna; ma loro, che scappavano, andavano più forte di noi: quando si tratta della pelle, lasciamo tutto e via. Siamo giù nella vallata opposta, piazziamo le armi, qualche fucilata si sentiva fischiare vicino alle orecchie. Passa un’oretta e tutto è calmo. Si vedono sei o sette slavi scendere dalla montagna alzando il fazzoletto bianco e venire incontro a noi. Il caporal maggiore Malaguti, coraggioso, gli correva incontro e li prendeva, accompagnandoli da noi, tutti pronti con le armi, tanto la compagnia leggera che noi nelle nostre tre buche. Arrivano ‘sti sei o sette, vicino hanno il tascapane pieno di pane e lì tutti addosso a loro. Questi poveri disgraziati offrivano il pane a noi che glielo portavamo via e intanto qualcuno si sfamava un po’ con quel pane giallo. Spogliati, questi furono accompagnati al comando di battaglione. Di fronte alle nostre armi stavano diverse armi automatiche, ma i superiori, vedendo che diversi prigionieri scendevano da noi, cessarono il fuoco e così in tre uscivano dalle postazioni innalzando il fazzoletto bianco. Il caporal maggiore Malaguti, coraggioso, parte deciso e gli corre incontro, ma, invece di avvicinarsi con buone maniere, appena è vicino a quei tali, gli mette le mani addosso, il tutto per saccheggiare qualche cosa di valore o del pane. Dietro a questo tale stava un’ufficiale dei loro che, vedendo questo atto, spara un colpo: il Malaguti se la dà a gambe, ma perché la fortuna lo ha lasciato scappare e quello sparò così a casaccio, altrimenti, alla distanza sì e no di otto o dieci metri, anche se lo avesse puntato alla bell’e meglio, avrebbe potuto senz’altro prenderlo. Ripeto, il destino ha voluto che il Malaguti ritornasse accanto alla sua arma, che era proprio di fianco a una casetta, piazzata appena sopra la mia.

Dopo questo fatto fu aperto un fuoco terribile che durò per un due ore e adoperando tutte le bombe a mano, perché tentavano di venire avanti. Ma furono respinti, sebbene avessero adoperato anche i loro mortai per colpire la casetta. Già diverse cassette di munizioni furono sparate, quando il fuoco cessava un pochino; mi allontano dall’arma per andare a chiamare il bersagliere Degli, affinché venisse a dare il cambio al Randazzo, ché ormai eravamo tutti bagnati. Lui stava nella casetta, un ragazzo molto pauroso, in più pensava alla sua cara moglie, che aveva sposato per procura nel mese di febbraio per essere tranquillo di aver compiuto il suo dovere e che sperava un giorno di tornare a casa. Contento di tutto, parte per andare a sostituire il compagno, è quasi al posto, ma si accorge che non si è preso il moschetto; allora ritorna indietro, sta per staccare il moschetto che stava appeso al muro dietro alla casetta, quando arriva un colpo di mortaio che lo butta per terra. Si mette a gridare: «Aiuto!» e tutti corrono ad aiutarlo. Si lamentava della gamba destra, altre ferite niente. Era una ferita neanche grave, perché l’osso non fu toccato, ma lui subito si perse di coraggio e, con tutte le nostre parole di conforto e di coraggio, il Degli veniva portato dai compagni giù all’infermeria.

Questo era il bel giorno del 10 aprile, fra tre giorni è Pasqua. Erano le tre, cessò il fuoco e decisi, con l’ordine del tenente, di spostare le armi un po’ più sopra, al fianco della compagnia leggera. Dante piazzava l’arma proprio vicino ad una grossa pianta e con grossi sassoni fu fatta la postazione, pensando che la notte si doveva passarla lì. Si fa notte, pazienza, rancio non ce n’è, forza non ce n’è più e come si fa? Eppure bisogna resistere, ma si dormiva al freddo e tutti bagnati. Al nostro fianco sinistro, lontano un cinquecento metri, c’era la fanteria e alla notte ebbero il loro rispettivo rancio.

Erano le due dell’11 aprile e Dante, sentendo muovere marmitte e bidoni e senza dire niente a nessuno, si prende le gavette, la sua e quella dell’amico Barbero, si avvicina verso dove sentiva il rumore, prende una mulattiera, tutto buio, cammino, faccio un duecento metri e trovo due muli: «Qua vicino c’è qualche cosa!» E così fu. Dante si avvicina al cuciniere a chiedere un po’ di rancio e lui mi dice: «Lì ci sono le marmitte, prendi, perché tanto ce n’è in più!» Dante si riempie le gavette e poi col coperchio di una gavetta pescava nella marmitta il riso ancora bel tiepido e se lo beveva come bere del liquore del più buono che ci possa essere. Il cucchiaio non c’era bisogno di adoperarlo, con la fame che c’era sotto, te lo dico io, giù e giù dei coperchi di riso e, senza dire quanti ne ho mandati giù, mi sono veramente riempito. Il cuciniere, vedendomi così affamato, mentre mi alzo e prendo le gavette ringraziandolo, mi dava ancora due pagnotte. Allora Dante, che si trovava in tasca un pacchetto di sigarette, le offriva al cuciniere, che le prendeva e mi dava in mano un fiasco, dicendo a Dante di bere. Dante, senza chiedere cosa fosse, se lo mette alla bocca e giù un bel fiato: era cognac. «Ora ti ringrazio, tanto posso stare ancora altri tre giorni che non soffro così tanto come i tre passati!» Prendo le gavette, di nuovo tante grazie e tanti auguri. La testa non girava più dalla fame ma dal cognac bevuto in un attimo. Mi sono trovato dall’amico, lo sveglio e gli dico: « Toh, se vuoi mangiare!» L’amico domandava come facessi ad avere il riso e il pane e gli spiego tutto. Intanto si mangiò una gavetta di riso e mi disse: «Ora sto meglio di prima, bravo Schiavi!» L’altra gavetta fu coperta e messa vicino alla pianta, le due pagnotte nel tascapane e ci mettiamo a dormire. Dante subito si addormentò e giù freddo.

Vennero le sette, è giorno, e arrivò la nostra cucina col rancio. L’aiutante maggiore Tobia portò l’ordine che, appena consumato il rancio, bisognava partire e ritornare al posto della partenza. fare riunire tutto il battaglione e prendere la strada, ché il nemico ormai stava a tutta forza ripiegando. Va bene! Dante pensava di ritirare tutto quanto c’era per la squadra: brodo, carne, pane e due razioni di vino. La carne, un pezzo bel magro, l’ho mangiato senza fame e poi un fiato di vino: il resto l’ho lasciato nella borraccia, il pane nel tascapane, che fu riempito per bene. In poco tempo tutti eravamo pronti per la partenza. Dante si trovava bene, era contento che poteva avere un po’ di forza e non affaticarsi tanto nella marcia. Sono le nove, si parte su per la mulattiera e in poco tempo il battaglione si riunì e allora giù per la lunga montagna tutta bianca, piena di neve, che ancora stava cadendo alla più bella.  

RIFERIMENTI


Note

 (16) – Tenente Tonti
Comandante del plotone di Dante. Nel libro di Quaglino è indicato come Tondi, ma è un errore.

(17) – Colonnello Verdi
L’ufficiale rivela un animo buono e grande empatia, doti che purtroppo lo avvicineranno ad una tragica fine. Già citato nel Quaderno I, lo incontreremo ancora e ne parleremo in uno degli “Speciali” in preparazione.

(18) – “… Del fiasco che vola, quella notte, a raccontarla tutta, ci sarebbe da scrivere un libro, maledetto quell’ ufficiale!”  
Alcune parole, una riga in tutto, che precedono la frase virgolettata non consentono al momento una trascrizione intelligibile dell’intero periodo, anche se già da quelle riportate si può capire che fu una nottata almeno movimentata.

(19) – Non si pensava a quello che i compagni dicevano se neppure era da noi provato
La frase, riportata testualmente come scritta sul diario, vuole probabilmente come “provare per credere” o forse, più specificamente: “Non facevamo così tanto caso a quello che raccontavano gli latri, perché non l’avevamo provato su noi stessi, ma adesso…”

(20) – Andando poi alla sera a prendere il rancio al ponticello
Il tragicamente celebrato “Ponticello dei bersaglieri” viene citato adesso direttamente anche dal papà: c’era stato anche lui, con la sua storia nascosta in mezzo al dramma di tanti.

Dopo averne letto tanto su diverse fonti, l’avevo relegato al ruolo di uno tra i tanti episodi della guerra cui mio padre aveva partecipato, proprio lì vicino, col suo reggimento… Mi domandavo se ne fosse stato a conoscenza… Ma, mentre lo pensavo, sentivo quella stretta, già così nota, alla bocca dello stomaco, che saliva fino agli occhi e li spremeva fino alle lacrime. Non tanto per il timore che egli ne fosse stato invece coinvolto e diretto testimone, ma perché l’episodio andava ulteriormente a caricare il già stracolmo fardello della sua storia nascosta, così difficile da raccontare per lui e rimasta inascoltabile da me, per avermi saputo trasmettere un senso preventivo di rifiuto all’ascolto, più forte della curiosità che certi isolati episodi raccontati e bruscamente interrotti mi suscitavano. Quel senso che oggi è solo rammarico e rimpianto per aver collocato tutto in un film, drammatico finché si vuole, ma sempre un film, terminato di girare il quale, poi, si ritorna a casa. Raccontare avrebbe voluto dire ricordare, ricordare voleva dire rivivere e questo era difficile. E troppo sarebbe stato rispondere alle mille mie domande, quelle che vorrei fargli adesso e di cui vado ossessivamente cercando in giro le risposte di altri.

 (21) – La bella canzone di loro intenzione,
“Intenzione” per “propaganda”?

(22) – Dopo poche settimane hanno lasciato tutto e non si sono più fermati fino ad Atene, ché là ci fu la vittoria.
Dante, come descritto nell’Introduzione, scrive (o trascrive) i diari di cui noi disponiamo parecchi mesi dopo il verificarsi degli eventi descritti e lo fa seguendo un rigido percorso cronologico, concedendo rare eccezioni: sinora lo ha fatto in un paio di occasioni, quando, citando il colonnello Scognamiglio (e sua moglie, nell’episodio dell’orologio regalatogli), gli attribuisce l’aggettivo “povero”, in quanto già lo sapeva morto il giorno 20 aprile 1941, successivo alla fase degli eventi che sta narrando, ma antecedente i periodi in corso di narrazione. Adesso si concede un altro salto in avanti, probabilmente sia per lo spirito di rivalsa nei confronti della propaganda greca, così tragicamente e a lungo sopportata, sia per conformismo verso quella fascista, la (presunta) “vittoria”. In realtà, quest’ultima meta, al di là della propaganda di regime, viene citata spesso nelle memorialistica di guerra (come fa anche Dante) quale elemento per cui vale la pena sopportare di tutto e quale premio finale che manderà tutti a casa. Molti storici lo confermano e sostengono che la “vittoria” fosse l’unica vera spinta morale che poteva dare slancio, insieme allo spirito di corpo e al senso del dovere, a tutti quei soldati malamente mandati allo sbaraglio, affamati, nel fango e nel freddo, a combattere contro un nemico aggredito che, dovendo invece difendere le proprie case e le proprie famiglie, di motivazioni ne aveva ben altre, e ce ne accorgemmo. Ancora nel 1942, quando redige i diari, Dante pare quindi credere ancora nella “vittoria”, così come ci credeva al momento dei fatti narrati.

(23) – Jugoslavia, la porca che anche lei in poco tempo fu distrutta.
Oltre che richiamare la precedente nota (22), sia per l’aspetto prolettico della narrazione, che per quello della propaganda, questa frase offre l’occasione anche per registrare, qui come in altre occasioni, il fatto che Dante appelli talora i nemici come “porci”, “Giargianesi” o “di un’altra razza” (salvo poi riconoscerne la furbizia in altre occasioni o averne compassione in altre). Qui ci sarebbe dunque da aprire il tema amplissimo della retorica fascista sulla popolazione (quanto colpevolmente?) inconsapevole; in particolare ci sarebbe da capire bene come tale retorica abbia potuto attecchire con tale profonda naturalezza in tutti gli strati sociali, anche in quelli rurali, più isolati, fatti di soggetti dediti solo al lavoro della terra e (Dante) al piacere del ballo, così lontani dall’impegno politico diretto, fino a sistematicamente bigiare il sabato fascista. (Rimandano a questa nota 23  anche altri richiami aventi come oggetto questo argomento o ad esso collegati.)

(24) – Di tanto in tanto qualche alt, c’era da fare attenzione, era guerra e non istruzione…
Questa riflessione mi riporta a un quesito già segnalato nell’Introduzione, ossia come Dante, nel momento in cui racconta di eventi accaduti parecchi mesi prima, possa recuperarne e riportarne i precisi dettagli, comprese le date e le ore. Scartata l’ipotesi di appunti scritti in diretta, viste le condizioni, spesso ai limiti della sopravvivenza, nelle quali si è a lungo trovato (impensabile che uno possa scrivere in mezzo al fango, sotto la tormenta, con il nemico che ti spara, bagnato fradicio e tutto il resto che abbiamo letto), risulterebbe accettabile l’idea che possa aver fatto ricorso a registrazioni ufficiali di reparto. Ma solo parzialmente, però, in quanto, se per movimenti ed azioni collettive c’è senz’altro traccia nei rapporti, per le situazioni individuali di ogni singolo soldato all’interno di un reparto non ci può essere nulla di circostanziato per data e ora. E qui, in questo caso, siamo ancora una volta davanti ad una delle tante riflessioni individuali, ai tanti pensieri, collocati in un preciso giorno e legati ad un dato momento. E se per dei generici “Coraggio!” o “Pazienza” possiamo pensare ad una loro quasi scontata collocazione, in altri casi la riflessione e il pensiero sono confezionati al singolo momento e legati allo specifico evento di cui narra. Si vedano ad esempio le varie e diverse riflessioni circa gli scambi epistolari postali, oppure  quelle che, pur scaturite in un contesto ricorrente molto simile, come il freddo, le camminate al buio, la paura, le cannonate, risultano ogni volta originali e diverse l’una dall’altra). Qui, in questa nota, evidenziamo un’ulteriore particolarità in tal senso: in un contesto generico e ricorrente di paura e di necessaria attenzione, una altrettanto ricorrente e generica “era guerra” è solo metà della riflessione, mentre l’altra metà, “e non istruzione”, costituisce una sottolineatura che appare solo in questo specifico caso, pur se adattabile a decine e decine di frangenti e di contesti simili.

 

Il quadro degli scontri principali sostenuti dal 4°  bersaglieri:

1 – Massimo avanzamento  con il XXXI btg nella zona di Erseke (17/11/40).
2 – Combattimento del XXVI battaglione al Monte Furkes,   (15-22/11/40).
3 – Sganciamento dal nemico nell’abitato di Corizza (ore 7 del 22/11/40).
4 – Battaglia di arresto sul Guri i Bresaves, dopo il ripiegamento (dic. 40).
5 – Difesa dagli attacchi sul Monte Kalase (inverno 40-41).
6 – Offensiva sul fronte jugoslavo (aprile 1941).


I combattimenti del marzo 1941 e l’attacco sul fronte jugoslavo (Quaglino)

Se finora abbiamo sempre parlato di guerra di posizione per indicare l’immobilità della linea del fronte, ciò non significa che durante i mesi invernali tutto sia rimasto tranquillo in attesa del bel tempo. Al contrario, abbiamo già accennato precedentemente alle azioni offensive che i greci hanno continuamente intrapreso contro il nostro fronte, nel persistente seppur vano tentativo di operare uno sfondamento in un qualsiasi punto del nostro schieramento per raggiungere il successo. Ma ovunque, con furiosi contrattacchi, il nemico è sempre stato respinto, fermi restando i nostri soldati sulle posizioni raggiunte ai primi di dicembre. Unitamente a queste offensive, i greci hanno approfittato di questi mesi invernali per prepararsi alla grande offensiva di primavera.
[…]
Poi a poco a poco l’esercito italiano è stato organizzato per l’offensiva in attesa del momento buono. Già alla fine di gennaio i greci avevano tentato di sfondare in modo decisivo il nostro fronte per aprirsi la via verso Valona, ma il nostro comando aveva prontamente reagito con il sanguinosissime azioni offensive di chiusura. Ma ormai marzo è arrivato e c’è qualcosa nell’aria che indica novità. È vero che Mussolini ha detto “A primavera viene il bello”, ma, a parte ciò, effettivamente si sente un intimo desiderio di reazione dopo questi mesi di immobilità.
[…]
Intanto il 5 marzo il XXVI battaglione lascia la sua posizione di rincalzo a Memlishta e si porta in linea sul Kalase, affiancandosi agli altri due battaglioni.
A metà marzo il colonnello Scognamiglio riceve la triste notizia della morte del padre e lascia il comando di settore per una breve licenza per gravi motivi di famiglia.
[…]
Frattanto in Jugoslavia la situazione politica e militare raggiunge una svolta. Per comprendere quanto sia importante per noi una determinata situazione in Jugoslavia basta dare un’occhiata a qualsiasi carta geografica dalla zona: la frontiera jugoslava circonda l’Albania dall’Adriatico sino al Lago d’Ocrida e un arco attraverso il quale ben cinque vie di comunicazione, attraverso le montagne, immettono in territorio albanese. In caso di conflitto permettono il passaggio di truppe nemiche che prenderebbero alle spalle tutto lo schieramento del nostro esercito in Albania, con conseguenze facilmente immaginabili. Già da qualche tempo, però, il nostro comando era stato informato che la Jugoslavia veniva effettuando segretamente un piano di mobilitazione generale e riteneva che per la seconda quindicina di marzo la Jugoslavia potesse contare su di un milione e più di uomini sotto le armi. Pertanto, allo stato attuale della situazione, il comando italiano si è ritrovato nella necessità di rivedere quello schieramento che aveva organizzato e curato nei minimi particolari contro l’esercito greco, dal Lago d’Ocrida settore Pogradec sino all’Adriatico. Si era aperta cioè una nuova frontiera, quella di cui si è accennato poc’anzi che, partendo dal Lago d’Ocrida, si spinge a ritroso sino al lago di Scutari. Il comando italiano allora improvvisò un nuovo sistema difensivo per poter fronteggiare eventualmente un conflitto armato con la Jugoslavia, costituendo tre nuovi corpi d’armata con sedi a Scutari, Alessio e Librashd, proprio dove si trova la base del 4° reggimento bersaglieri, vicinissime quindi al confine jugoslavo. Ma gli eventi precipitano e a Belgrado si ha il colpo di Stato cosiddetto dei generali. A meno di un miracolo, la guerra con la Jugoslavia può ritenersi imminente. Il comando italiano segue con viva apprensione il punto più nevralgico di tutto lo schieramento, cioè quello verso il Lago d’Ocrida. Sa che i serbi hanno intenzione di attaccare proprio nella zona di Librashd sino al Qafa Thane e, attraverso la strada che costeggia il lago, ricongiungersi con i greci a Pogradec. E questo è proprio il settore ove è dislocato il 4° bersaglieri…
[…]
Mentre intanto si attende con ansia un segno di distensione nella situazione jugoslava, verso la fine di marzo i greci sferrano un attacco massiccio contro tutto il settore del terzo corpo d’armata, cioè nel settore che va da Guri i Topit a Pogradec. I greci non badano perdite e buttano nella fornace battaglioni su battaglioni. Sul Guri i Topit gli alpini respingono sanguinosamente l’attacco del nemico, mentre sul Kalase i nostri bersaglieri resistono eroicamente all’attacco greco. Si sa che siamo finalmente all’inizio di qualcosa di risolutivo e che per il 4° bersaglieri è venuta nuovamente l’ora di dimostrare il suo valore. Ma prima bisogna riorganizzarsi, dopo il terribile inverno sul Kalase. Si inizia così la manovra di sganciamento dei battaglioni, cominciando col XXIX, che nella notte del 26 marzo lascia la linea del Kalase ed a piedi raggiunge Lin, nei pressi del quale sosta all’addiaccio. Il giorno seguente, 27 marzo, il colonnello comandante rientra in linea e riassume il comando del reggimento. Nuovamente i bersaglieri lo vedono in mezzo a loro con la sua parola trascinatrice, col suo esempio, col suo ardimento. Il suo stato di salute è peggiorato, ma in queste ore importanti e decisive egli vuole essere presente alla testa del suo 4° bersaglieri. Nel pomeriggio il colonnello Scognamiglio, insieme al comandante del XXIX battaglione, maggiore De Martino, si reca a riconoscere la località ove il reggimento dovrà riunirsi per riorganizzarsi, cioè in Val Kraponi, a dieci kilometri dopo Librashd, sulla strada di Piscopat verso il confine jugoslavo. Rientrano alle ventidue
Alle prime ore del giorno 28 marzo il  il XXIX battaglione, su autocarri forniti dal comando del terzo corpo d’armata, inizia il trasferimento verso la nuova zona. Nel pomeriggio il colonnello comandante si reca nuovamente in Val Kraponi per disporre la dislocazione della compagnia motociclisti e del XXXI battaglione. Il tempo è bello e questo favorisce le operazioni. Il 29 Marzo, all’alba, la compagnia motociclisti, in parte con i propri mezzi, di in parte su autocarri, si trasferisce nella nuova località designata. Nella notte intanto avevano lasciato la linea la 9a e l’11a compagnia del XXXI battaglione, accampandosi presso Lin, in attesa di proseguire per la Val Kraponi. Nella notte successiva scendono la compagnia comando del XXXI battaglione e la 12a compagnia. Purtroppo la prospettiva di avere qualche giorno disponibile per riorganizzare il reggimento svanisce subito. Gli avvenimenti incalzano ed è ancora il 4° bersaglieri che viene impiegato in queste circostanze, nonostante le condizioni fisiche dei reparti, i quali necessitano veramente di un po’ di riposo.

Il 30 marzo un nuovo attacco greco viene sferrato nel settore centrale della divisione Venezia, il cui comando sospende immediatamente l’ordine di movimento del reggimento, mentre il XXXI battaglione deve mantenere l’attuale dislocazione. Occorre anche avere a disposizione la compagnia motociclisti, per cui viene impartito l’ordine della sua immediata partenza da Val Kraponi, per rientrare nuovamente a Lin. Il XXIX battaglione deve anch’esso tenersi pronto a ritornare nelle posizioni precedentemente occupate. Il XXVI battaglione, che era rimasto in linea, subisce intanto la perdita di dodici uomini, quattro morti e otto feriti: alla sera l’attacco nemico e stroncato. Tuttavia è chiaro che questi tentativi di sfondamento nel settore di Pogradec hanno come obiettivo di raggiungere il vicinissimo confine Jugoslavia e di congiungersi con quell’esercito, in vista del precipitare della situazione politica. Ma se i greci hanno fallito il loro attacco, sicuramente saranno i serbi ad attaccare subito alle spalle il nostro schieramento, forzando il passo di Qafa Thane presentare questa possibilità di attacco sarà nuovamente il quarto bersaglieri che dovrà sostenere il peso della nuova situazione e fronteggiare gli jugoslavi in caso di ostilità.

Il 31 marzo il XXIX battaglione deve tenersi pronto per essere trasportato d’urgenza a Kotodesh. Il colonnello comandante si reca subito in ricognizione in questa località, mentre la compagnia motociclisti e la 12a compagnia del XXXI battaglione sorvegliano le sponde del Lago d’Ocrida con pattuglie e posti di osservazione. Anche la 10a compagnia lascia il Kalase e si concentra a Lin. Il comando di reggimento lascia Lin per trasferirsi verso per Perrenjes, al di là del Qafa Thane. Il 1° aprile, nella notte, il XXXI battaglione si trasferisce a Katjel, in attesa di ulteriori spostamenti. All’alba il colonnello Scognamiglio si reca a riconoscere i settori di fronte jugoslavo che è stato assegnato ai nostri battaglioni. Infatti all’imbrunire il XXIX e il XXXI battaglione lasciano le loro sedi per occupare la nuova linea sul confine jugoslavo ad eccezione della 9a compagnia e di un plotone mitraglieri, che vengono dislocati temporaneamente su altre quote. Nella notte del 2 aprile si inizia lo sganciamento di alcune compagnie del XXVI battaglione sulla linea del Kalase, in quanto il battaglione deve riunirsi a Piscopat. Ormai siamo alla vigilia dell’ineluttabile e, dopo l’ansia di questi ultimi giorni, si può dire che una gran calma sia scesa negli animi. Si attende l’ora dell’attacco, mentre si perfezionano i movimenti dei singoli reparti per essere pronti ad ogni eventualità. Il 5 aprile i battaglioni si portano sopra Perrenjes, avvicinandosi sempre più al confine jugoslavo. Il giorno successivo 6 aprile i bersaglieri si fermano proprio sotto la quota 1.234, ormai è questione di poco, i nervi sono nuovamente tesi in questa attesa che sembra non dover finire. Dalle nostre posizioni si vedono benissimo le pattuglie dei finanzieri jugoslavi, anche loro in attesa dell’inevitabile. Ed è infatti di poche ore dopo l’annuncio dello scoppio delle ostilità con la Jugoslavia.

Il 7 aprile bersaglieri attaccano subito la quota 1.234, che viene raggiunta verso le quattordici dopo aspri combattimenti e sotto una tempesta di fuoco. Morti e feriti suggellano con il loro sangue questi primi combattimenti con la Jugoslavia, mentre i reparti cercano di sistemarsi subito a difesa, prima che scenda la notte. Fra i caduti ricordiamo il sergente Cometto e il sottotenente Massa, ferito gravemente durante l’azione e morto poco dopo all’ospedale da campo, al quale verrà poi concessa la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
La notte è trascorsa in continuo allarme. Il sottotenente Bragaglia con un gruppo di bersaglieri arditi, oltrepassò le nostre linee in un riuscito assalto a una casermetta nemica che, con le postazioni di mitragliatrici, metteva in difficoltà il nostro schieramento. Il giorno 8 aprile si rimane in quota sempre sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Il tempo si guasta e ricomincia a far freddo. Scende la fitta nebbia. Il 9 aprile, mentre i reparti di camicie nere prendono il posto dei bersaglieri sulla quota 1.234, i nostri battaglioni avanzano combattendo ed attaccano la successiva quota 1.510. Si combatte accanitamente anche nel pomeriggio e nella notte, quando la nebbia e il gelo avvolgono ogni cosa e rendono più tragica la situazione. Sempre in mezzo alla nebbia della tormenta, la 9a e la 12a compagnia cercano di avanzare sulla destra in direzione della casermetta. Ma non è ancora neanche l’alba che gli jugoslavi attaccano in forze il nostro schieramento, protetti dal nutrito fuoco di artiglieria. I morti e i feriti sempre più numerosi arrossano con il loro sangue queste cime così contrastate, ma si cerca di resistere ad ogni costo. La 9a compagnia e un plotone della 12a vengono accerchiati e subiscono gravissime perdite. I feriti non si contano più, moltissimi i caduti e numerosi i dispersi. Si cerca di sfondare il cerchio di fuoco: vi riesce il tenente Zolesi con 45 bersaglieri.

Il giorno successivo 11 aprile i combattimenti si fanno ancor più aspri, ma i bersaglieri resistono accanitamente, anche se la stanchezza, il freddo e il gelo rendono sempre più difficile un’ulteriore resistenza. Muore il sergente Angilletta, colpito da un colpo di mortaio, rimangono feriti tra gli altri i tenenti Merluzzi e Sicardi. Molti sono i bersaglieri colpiti da congelamento.

Con questa furiosa resistenza cade per i serbi dei greci ogni possibilità di chiudere in una tenaglia estrema l’ala destra della nona armata. Non solo, ma adesso sono proprio i serbi a doversi guardare alle spalle, perché i tedeschi, entrati nei giorni scorsi in territorio jugoslavo da più parti, si stanno avvicinando alla sponda opposta al Lago d’Ocrida. I bersaglieri del 4° attaccano ancora, mentre i serbi sono costretti a ripiegare. Il 12 aprile i nostri battaglioni raggiungono Radolista, mentre la compagnia motociclisti, avanzando lungo la sponda jugoslava del lago si incontra a Struga con le colonne motorizzate tedesche. Saldata la partita con la Jugoslavia nel settore del Lago d’Ocrida, occorre pensare adesso ai greci.

 


Il ponticello dei bersaglieri (Quaglino)

A qualche centinaio di metri dal punto ove la linea del Kalase scende a toccare la sponda del Lago d’Ocrida, No sulla strada che costeggia il lago stesso, si trova un ponticello. Un ruscello scende dalla montagna, vi passa sotto e si getta nel lago.

Ma, nell’avvallamento dietro la spalletta del ponte, vi sono dei bersaglieri: porta ordini, telefonisti, motociclisti… È questo il punto di transito obbligato per ogni persona o cosa che debba raggiungere la linea del Kalase ed è anche il punto più avanzato ove possono giungere gli auto ed i moto mezzi, poiché, dal ponticello in su, verso la linea sulla montagna, bisogna proseguire a piedi o a dorso di mulo.

Questo sarebbe niente se non ci fosse un ma. Dall’altra sponda, proprio quasi al confine fra l’Albania e la Jugoslavia, a Starova, villaggio ora in mano ai greci, vi è una batteria con i pezzi sempre pronti, puntati sul nostro fianco, e più precisamente sulla strada che costeggia il lago, nonché naturalmente sul ponticello.

Così, ad ogni movimento sospetto, subito arriva una sventola di colpi che quasi sempre vanno a segno. Inutile dire che in principio i morti e feriti sono stati numerosi. Poi si è capita l’antifona e allora di giorno non ci si muove più o quasi, lasciando per la notte ogni movimento di uomini e di mezzi. Però qualche volta anche di giorno bisogna muoversi, specialmente per lo scambio di ordini e messaggi tra la linea ed il comando di reggimento o di divisione. Allora entrano in gioco l’audacia, la spericolatezza ed anche l’eroismo di questi bersaglieri, i quali sanno benissimo la sorte che li attende se non sono velocissimi nei movimenti.

Alla loro abilità ed al loro sprezzo del pericolo è legata alla possibilità di sfuggire ai colpi dell’artiglieria. Se bisogna partire dal ponticello occorre con la moto a tutto gas, letteralmente schizzare via dalla strada prima che arrivi il proiettile ed allontanarsi a tutta velocità; se invece si arriva al ponticello, bisogna allora raggiungerlo a tutta velocità, frenare e buttarsi subito dietro la spalletta del ponte, sperando in Dio.

Con tutto questo, ogni tanto il morto o il ferito ci scappano sempre. Questo, in breve ,è il ponticello dei bersaglieri.

A ricordo dei bersaglieri caduti al ponticello verrà qualche mese più tardi, a campagna albanese finita e nell’anniversario della festa del corpo, inaugurato un cippo di pietra.


La battaglia con gli jugoslavi dal racconto di Scalone

Il 22 marzo tutto il battaglione lascio il fronte, a darci il cambio venne un battaglione del 1° reggimento bersaglieri e saremmo andati a riposo nelle retrovie. Dopo aver percorso un poco di strada a piedi e di notte, per portarci fuori dalla portata dei cannoni greci, venne un’autocolonna di camion che ci caricò sopra e andò a scaricarci a Librashd, dove rimanemmo una decina di giorni. Il giorno 31 marzo venne la stessa autocolonna, ci caricò e ci portò a 30 km dalla frontiera. Il giorno 5 aprile tutto il quarto reggimento, al comando del nostro colonnello Scognamiglio, era a ridosso della frontiera albanese-jugoslava.

Dopo mesi di combattimenti con i greci, adesso ci sarebbero toccati gli slavi. L’indomani, mentre eravamo intenti a fare un cambiamento di tende, dalla vicinissima frontiera si sentì l’eco di un colpo di pistola e in seguito altri colpi di fucile e di mitraglie. Erano circa le quattordici e ci trovavamo a cinquecento metri circa dalla frontiera. Abbiamo allora abbandonato tutto e abbiamo imbracciato le armi, con l’ordine di disporci in formazione di combattimento e raggiungere al più presto possibile la frontiera. Appena arrivammo in cima, piazzai la mia mitragliatrice a ridosso di un sasso e mi sdraiai per terra con il dito sul grilletto. Cercavo di vedere qualcuno dove poter mirare e sparare.

Fu in questo frangente che sentii vicino a me un lamento umano: lasciai l’arma e, strisciando per terra, andai a vedere. C’era un bersagliere a terra, il quale, appena avvertita la mia presenza, si voltò, guardandomi con gli occhi sbarrati, aveva l’aria di chiedere aiuto, ma non parlava. Lo guardai per vedere se fosse ferito: con le mani si stringeva lo stomaco, si torceva e grondava sangue. Mi sono ritirato strisciando, così come ero arrivato, per avvisare il tenente che si trovava a pochi metri da me. Subito dopo vennero due porta feriti e lo portarono via. Appena fu notte continuammo ad andare avanti con diverse cariche, fino a raggiungere una posizione dominante, dove potevamo difenderci ed offendere più facilmente. Durante i combattimenti della notte del 6 aprile 1941, rimasero feriti due ufficiali della mia compagnia di nome Cutrino e Pirrone e perdemmo due bersaglieri, un mio amico che si chiamava Sartore ed un certo Brambilla. Prima che arrivasse il nuovo giorno giungemmo nel punto che ci eravamo prefissi e subito, improvvisando delle postazioni di difesa, che consistevano in muretti di pietra per ripararsi dalle pallottole e dalle schegge di granate nemiche. Il giorno 7 Aprile rimanemmo fermi tutto il giorno, ma la notte subimmo un contrattacco da parte degli slavi.

Quella notte stavo dormendo quando fui svegliato da un bersagliere che era di guardia in un avamposto. Mi tirai su, vedendo una valanga di scoppi di bombe a mano che venivano avanti di fronte a noi. Imbracciato il mitragliatore, iniziai a sparare centinaia di colpi a falciare, nel tentativo di bloccare l’avanzata e alla fine i nemici rinunciarono all’attacco. Alla luce del giorno vedemmo cinque soldati slavi che giacevano esanimi ad una cinquantina di metri da noi; quasi tutti i pini e gli altri alberi davanti alla postazione erano bucati dalle pallottole del mitragliatore. L’indomani al nostro posto venne la milizia fascista e il nostro battaglione cambiò settore, ché c’erano altre quote ed altre postazioni da assaltare. Camminammo tutta la notte lungo la retro linea, fino a giungere quota 1.500 metri, dove c’era ancora tanta neve e dove operava il ventinovesimo battaglione bersaglieri.

Gli slavi facevano molta pressione, i nostri soldati erano pochi di fronte all’estensione del fronte che dovevamo difendere e così noi andammo a supporto di quel settore. Nello stesso tempo le altre nostre forze armate, dislocate sui confini italo-jugoslavi penetravano in territorio jugoslavo da altre parti, marciando verso l’interno. Contemporaneamente dall’Austria e dalla Bulgaria intervenivano i tedeschi. Gli slavi, attaccati da più fronti, abbandonarono le armi, ritirandosi. Così, un bel mattino, di fronte a noi non avevamo più nessun soldato nemico: era la mattina dell’11 Aprile 1941.

Visto che c’era evidenza che il nemico si era ritirato definitivamente, potemmo andare avanti più speditamente e al calar del sole arrivammo in un paese chiamato Struga. Ci portammo ai lati della strada rotabile, camminando in fila indiana, una fila destra e una fila a sinistra dalla strada. Arrivati a Struga, tutti gli abitanti erano radunati in una piazzetta sopraelevata mediante un muro di sostegno che si staccava dal margine sinistro della strada. Stavano lì, muti, inorriditi, sicuramente colmi di paura. Nessuno dei soldati o degli ufficiali italiani gli rivolgeva alcuna parola.

[…]

La gente del paese, poi, ci festeggiò e, visto che noi eravamo tutti bagnati (aveva piovuto tutto il giorno), fecero a gara per portare della legna nella piazza grande del paese, disponendola lungo tutto il perimetro; poi l’hanno incendiata, invitandoci ad andare a scaldarci e quindi ad asciugarci.

L’indomani mattina partimmo per incontrare una colonna corazzata tedesca che era partita dalla Bulgaria e puntava nella nostra direzione. Ci incontrammo a nord della città dove siamo rimasti fermi per circa due ore, serviti per le comunicazioni tra gli ufficiali tedeschi e i nostri ufficiali. Poi ritornammo nuovamente verso il confine con l’Albania, percorrendo la strada che attraversa il confine, sul lato della città di Ocrida e che costeggiava per un tratto in lungo il lago andando a incrociare la strada che portava a Pogradec e al Monte Kalase: tornavamo sui luoghi dove avevamo passato tutto l’inverno, dove avevamo combattuto e sofferto il freddo, la fame e dove abbiamo lasciato un pezzo della nostra vita.

 

Cervi - Op. cit.
Soldati sotto la neve in Albania. (Cervi - Op. cit.)
Un particolare del fango nel quale i soldati rimanevano bloccati. (Cervi - Op. cit.)
Il ponticello dei bersaglieri (Quaglino - Op. ci.))
  • 3 gennaio – Gli inglesi entrano in Libia e attaccano le difese della piazzaforte italiana, sfondate quasi subito grazie all’impiego dei carri armati, risultanti più efficienti di quelli italiani.
  • 5 gennaio – Nonostante la coraggiosa difesa opposta agli inglesi dai difensori della piazzaforte di Bardia, gli inglesi riescono a prevalere.
  • 8 gennaio – In Albania le truppe greche conquistano non riescono a sfondare in direzione di Berat e Valona
  • 19 gennaio – Truppe britanniche attaccano gli italiani in Eritrea.
  • 21 gennaio – Truppe britanniche e australiane attaccano Tobruk.
  • 22 gennaio – Tobruk cade in mano britannica.
  • 29 gennaio – In Libia, gli italiani abbandonano la Cirenaica per costituire una linea difensiva in Tripolitania.
  • 11 febbraio – La Cirenaica è perduta, ma arrivano in Libia due divisioni dell’Afrikakorps.
  • 14 febbraio – Sul fronte greco-albanese, le spinte offensive dei greci in Albania sono respinte, seppur subendo gravi perdite. Sbarcano a Tripoli i primi contingenti tedeschi inviati a sostegno degli italiani e guidati dal generale Rommel.
  • 26 febbraio – In Somalia meridionale truppe inglesi occupano Mogadiscio.
    1° marzo – La Bulgaria firma il Patto tripartito entrando in tal modo a far parte dell’Asse.
  • 7 marzo – in Grecia iniziano i primi sbarchi del corpo di spedizione britannico a sostegno delle truppe greche che combattono in Albania.
  • 9 marzo – In Albania ha inizio la controffensiva italiana a sud di Berat e sul fiume Voiussa.
  • 13 marzo – Prosegue l’offensiva delle truppe italiane, ma non riescono a sfondare, nonostante le elevate perdite.
  • 17 marzo – Gli inglesi penetrano in Abissinia dalla Somalia italiana.
  • 24 marzo – In Africa settentrionale le truppe del generale Rommel occupano località al confine tra Tripolitania e Cirenaica
  • 25 marzo – Il Regno di Jugoslavia entra a far parte dell’Asse.
  • 27 -29 marzo – A Capo Matapan si scontrano la marina inglese e quella italiana, che perde cinque navi.
  • 2 aprile – In Libia le truppe italo-tedesche riconquistano Agedabia, a sud di Bengasi.
  • 5 aprile – Le truppe dell’Asse in Libia riconquistano Bengasi.
  • 6 aprile – Truppe tedesche, italiane, ungheresi e rumene attaccano la Jugoslavia dopo il colpo di stato anti tedesco.
  • 7 aprile – In Etiopia gli inglesi occupano Addis Adeba.
  • 8 aprile – In Eritrea gli inglesi conquistano Massaua.
  • 11 aprile – In Jugoslavia la 2° armata italiana avanza verso Lubiana, Spalato e Ragusa.
  • 12 aprile – In Libia gli italo-tedeschi rioccupano Bardia.
  • 13 aprile – Sul fronte greco-albanese gli italiani riprendono l’offensiva contro i greci.
  • 14 aprile – In Libia le forze comandate da Rommel sono costrette a ritirarsi da Tobruk, dopo un parziale successo.
  • 17 aprile – La Jugoslavia si arrende e viene suddivisa tra i vincitori.
  • 21 aprile – La Grecia firma la resa mentre le truppe britanniche si ritirano a Creta.

CRONOLOGIA BELLICA DEL 1941 (gennaio-aprile)
(https://www.ushmm.org/- Wikipedia)

Alpini

Lo scrittore Mario Rigoni Stern partecipò col 6° reggimento alpini della divisione Tridentina alla guerra contro la Grecia del 1940-41 e si trovò ad operare nelle stesse zone del 4° bersaglieri di Dante. Nel suo libro  “Quota Albania” racconta la sua testimonianza di soldato su quegli eventi,  con in più l’autorevolezza e lo sguardo dello scrittore. Data la condivisione di esperienza, di luoghi ed evnti con il reparto di Dante, ho pensato di arricchire questa pagina con alcuni spunti e citazioni tratte dal libro.
Quello che segue è il primo di essi.
 


Spazzacamini al fronte

(Rigoni Stern – Op. cit. Pag. 67 e segg.)

Quella sera, era l’undici dicembre, arrivò la comunicazione che delle camicie nere erano in marcia verso di noi.

Il colonnello mi mandò a chiamare perché andassi loro incontro e facessi da guida: nevicava fitto, e, disse, c’era pericolo che si perdessero.

Presi con me Agnoli e fu un camminare balordo perché i militi si sparpagliavano in gruppi quant’era lunga la mulattiera: avevano anche buona volontà, ma proprio non ce la facevano.

Finalmente, alla meno peggio e dopo ore di cammino e di gridi nella notte, riuscimmo ad arrivare al nostro comando; il seniore andò a dormire con i nostri ufficiali e i militi con i loro centurioni e capo manipoli dietro il bosco, dove si trovava la compagnia comando.

tutto il giorno dopo nevicò con vento virgola e stemmo ad asciugarci nei nostri ripari. Ma era anche molto freddo.

[…]

Fu un tribulare quel giorno che accompagniamo le camicie nere a prendere posizione tra la 53 del Vestone e la 58 del Verona, verso lo Shkalles.

Questi spazzacamini provenivano dalla bassa novarese e le montagne le avranno viste andando in gita con il dopolavoro, o quando il vento portava via la nebbia dalle risaie.

A guardarli, con quella montura irrazionale e ridicola, facevano pena: il fez con il fiocco nero, i fasci sul bavero, la camicia di tela da grembiuli per scolaretti, il pugnale di traverso dalla parte della milza, gli stivaletti da sabato fascista sui marciapiedi: arrancavano nella neve con il fiato grosso e bolso. Chissà, poi, cosa avevano dentro gli zaini e i fagotti che si tiravano appresso. Ma non ci offrirono niente: neanche una sigaretta.

Noi facevamo come i cani da pastore che tengono in branco le pecore: si stimolava e si punzecchiava; si aiutavano, anche, i più malandati a portare i fagotti e le armi.

Impiegammo dodici ore tra l’andare e ritornare; una strada che, anche con la bufera, facevamo in un terzo di quel tempo. Nel ritorno, a notte, incontrammo ancora qualche ritardatario impaurito e smarrito: come quel caposquadra con tre dita di nastrini sul petto, che ci chiese quanta strada c’era ancora per arrivare, se i greci erano vicini, se c’era pericolo, se c’era sempre così tanta neve.

Più avanti i nostri piedi si imbatterono in qualcosa di duro nascosto tra la neve: era un fucile mitragliatore che avevano perso e che raccogliemmo per portarlo agli alpini del Verona.

Per più giorni, quando percorrevamo quella pista, trovavamo oggetti abbandonati dalle camicie nere:  le calze ci erano preziose.

[…]

Ero appena passato, quando i greci arrivarono sotto le postazioni delle camicie nere, e queste, senza nemmeno tentare un lancio di bombe a mano per fermarli, abbandonarono tutto e fuggirono come lepri davanti ai segugi.

Scapparono nella valle, ma il bello è che non si fermarono una volta giunti lontani dal combattimento: proseguirono fino al comando di divisione, dove, vedendoli in quello stato, credettero che i greci fossero alle calcagna, e caricarono muli e carrette per ritirarsi verso Elbasan.

La situazione si era fatta preoccupante, ma gli alpini resistevano con rabbia; le batterie del maggiore Calvo concentrarono il fuoco dove i greci si erano impadroniti delle trincee degli spazzacamini.

[…]

Quando venne sera i greci smisero di attaccare e, invece di approfittare del varco lasciato libero dai militi, si fermarono e piazzarono verso il vuoto le armi che trovarono abbandonate da essi. E io, per non cadere nelle loro mani, dovetti fare un ampio giro per ritornare al comando di reggimento.

Prima dell’alba, due plotoni del Vestone con il capitano Bongiovanni e il tenente Baietti e un plotone del Verona, piombarono dall’alto verso i fianchi dei greci. La sorpresa riuscì: li fecero tutti i prigionieri, recuperarono le armi lasciate dalle camicie nere e, naturalmente, ripresero la trincea.

[…]

Nel bosco, prima di arrivare al comando del Verona, incontrammo due camicie nere disperse e disarmate. Il colonnello si sfogò a bastonarli: – Vi faccio fucilare! – diceva tra i denti. Le prendemmo con noi e mi disse di spararci se avessero tentato di andarsene. Le riaccompagnammo su, tra gli alpini.


Gli avvenimenti della guerra di Grecia

15 ottobre: decisione dell’invasione della Grecia.
25 ottobre: ignoti attaccano un posto di frontiera albanese.
25 ottobre: tre bombe esplodono nella legazione italiana di Santi Quaranta.
28 ottobre: alle tre del mattino il nostro plenipotenziario ad Atene consegna l’ultimatum a Metaxas, che lo respinge.
28 ottobre: alle 5 e 30, i primi reparti italiani entrano in Grecia (Epiro).
29 ottobre: entrano in azione nel settore dell’Epiro, dal mare verso l’interno, il Raggruppamento Litorale, le divisioni Siena, Ferrara, Centauro e Julia, alle quali si aggiungerà poi la Bari. In Macedonia occidentale, ossia nella zona di Corizza, si muovono la Parma e la Piemonte, prima ad operare, alle quali si aggiungerà la Venezia, spostata dal confine jugoslavo.
31 ottobre: la Siena avanza con difficoltà per la pioggia e per i fiumi in piena.
1° novembre: i greci, sinora sottrattisi al contatto, attaccano violentemente in Macedonia occidentale e le nostre divisioni si ritirano e fino al fiume Devoli.
4 novembre: i greci rafforzano il settore e cominciano a premere.
7 novembre: la divisione Julia, posta sul perno del fronte tra le due armate italiane e a rischio accerchiamento, deve ripiegare su Corizza.
9 novembre: Visconti Prasca è sostituito al comando dal generale Ubaldo  Soddu, sottosegretario alla Guerra.
10-12 novembre: continua l’affluenza non organica di nuovi reparti e affluiscono in Albania sei battaglioni alpini.
12 novembre: aerei inglesi attaccano a Taranto la flotta italiana.
14 novembre: nuova offensiva greca in Macedonia occidentale.
17 novembre: Erseke è abbandonata e i greci minacciano il fianco dell’XI armata.
18 novembre: Mussolini ha un’idea e dichiara che “Spezzeremo le reni alla Grecia.”
18 novembre: la Julia deve rilevare in prima linea la divisione Bari, travolta, non senza accuse di scarso valore.
20 novembre: la Julia, al ponte di Perati, è investita da massicce forze greche.
21 novembre: viene consegnata al duce una lettera di Hitler, secondo il quale l‘iniziativa italiana ha avuto “conseguenze psicologiche spiacevoli” e “conseguenze militari molto gravi”, ossia “avete fatto una figura di merda e avete perso”.
22 novembre: gli italiani abbandonano  Corizza.
26 novembre: il maresciallo Badoglio presenta le proprie dimissioni da Capo di stato maggiore generale. Al suo posto viene chiamato il generale Ugo Cavallero.
28 novembre: gli euzoni prendono Pogradec e tolgono a Soddu un caposaldo essenziale per la nuova linea difensiva.
4 dicembre: Soddu è preoccupato della situazione e avanza l’ipotesi di una trattativa.
7 dicembre:  Argirocastro viene evacuata.
29 dicembre: il generale Soddu viene sostituito al comando d’Albania dal generale Cavallero.
5-6 gennaio: i greci attaccano e prendono Klisura.
19-20 gennaio: incontro Mussolini-Hitler a Salisburgo.
29 gennaio:  muore il generale e primo ministro greco Ioannis Metaxas. Al suo posto il re nomina Alèxandros  Korizis.
23 febbraio: Mussolini, a Roma, promette che le cosa cambieranno con la primavera.
1° marzo: truppe tedesche entrano in Bulgaria con il consenso di re Boris.
2 marzo: Mussolini parte per l’Albania per assistere all’offensiva italiana verso Klisura.
9 marzo: gli italiani attaccano in direzione di Klisura, ma senza risultati di rilievo. Combattimenti violenti si accendono attorno a quota 731, Monastero.
16 marzo 1941: l’offensiva verso Klisura viene sospesa.
21 marzo: Mussolini lascia l’Albania.
25 marzo: la Jugoslavia aderisce al Patto Tripartito Italia-Germania-Giappone.
27 marzo:  in Jugoslavia un colpo di stato anti-tedesco ribalta la situazione e depone il reggente, sostituito con il giovanissimo re Pietro II e conferendo il potere al generale filo-britannico Simovic.
6 aprile: inizia l’operazione “Marita”, con l’invasione tedesca della Jugoslavia e della Grecia. 
9 aprile: le truppe tedesche entrano a Salonicco.
10 aprile: gli italiani si muovono, da nord, in direzione della Jugoslavia.
12 aprile: i greci si ritirano da Macedonia occidentale ed Epiro per evitare l’accerchiamento tedesco.
13 aprile: approfittando della ritirata greca, il fronte italiano si getta in avanti. I greci combattono intensamente per ritardare l’avanzata degli italiani ed infliggere loro le maggiori perdite possibili.
14 aprile: i soldati italiani entrano a Corizza e, in Epiro, riprendono Klisura e Monastero.
18 aprile: l’XI armata italiana entra in  Argirocastro, mentre i tedeschi avanzano verso Gianina.
18 aprile: il primo ministro greco Korizis si toglie la vita.
19 aprile: al passo delle Termopili, reparti inglesi bloccano temporaneamente i tedeschi, consentendo al grosso delle truppe di imbarcarsi per Creta.
20 aprile: a Larissa, contro gli ordini di Papagos, il generale Tsolakoglou si arrende ai tedeschi. Nel documento di resa  non sono menzionati gli italiani, ai quali i greci rifiutano di arrendersi.
23 aprile: viene replicata la firma della resa, questa volta anche alla presenza degli italiani.
 

Le forze in campo

Le  otto  divisioni italiane  schierate all’inizio dell’invasione ( Siena, Ferrara, Centauro, Julia, Parma,  Venezia , Bari, Piemonte) più il “ Raggruppamento” del litorale furono, via via, affiancate , nel corso del tempo, dalle divisioni Taro, Arezzo, Tridentina, Cuneense, Pusteria, Pinerolo, Lupi di Toscana, Brennero , Modena, Legnano, Acqui, Cuneo,  Alpini Speciale , Puglie, Casale, Cacciatori delle Alpi. La Messina e la  divisione Marche arrivarono a guerra finita. 

Centomila uomini scarsi, servizi compresi, all’inizio delle ostilità, quasi mezzo milione di uomini alla fine.  

I caduti.

Secondo i dati ufficiali del Ministero della Difesa italiano, riportate nel libro di Mario Cervi,  l’impresa di Grecia costò al nostro esercito 13.755 morti, 50.874 feriti. 12.368 congelati, 25.067 dispersi (in massima parte, secondo il Ministero, caduti sul campo).

I greci, sempre secondo fonti ufficiali, ebbero 13.408 morti e 42.485 feriti: i  tedeschi 1323 morti e 3411 feriti; i britannici,  fra morti, feriti  e prigionieri, persero  più di 15.000 uomini.

 

Gerarchi al fronte

Mussolini, irato per l’andamento negativo della guerra e per la relativa brutta figura, reagisce a suo modo e, tra le varie misure adottate, invia al fronte “per punizione” numerosi gerarchi. Tra questi Cianetti, presidente della Confederazione Lavoratori dell’Industria, ossia del sindacato fascista, che venne destinato come “volontario” col grado di capitano alla divisione Pinerolo. Questo il suo racconto dell’arrivo al fronte (Bedeschi, Op. cit. – pag. 111):

“A mezzogiorno giungo a Bregu Iulei. Tre o quattro capanne, tende, soldati. Mi indicano la capanna del colonnello dalla quale esce un capitano seguito dal colonnello comandante. «Che vuoi?» mi chiede il colonnello.
«Ho una lettera per lei da parte del comando di divisione.»
«Ah, vieni dal comando di divisione? E vieni a portarmi una lettera? Perdio, me ne frego delle scartoffie, pane ci vuole, munizioni ci vogliono, non scartoffie! Figli di cane, mi mandano le scartoffie.»
«Signor colonnello, la prego di leggere.»
Legge e poi: «Beh, sei assegnato al reggimento?»
«Signorsi.»
«A che fare?»
«Ecco, signor colonnello … »
Urla, urla: «A che fare, sacramento! Io non ho bisogno di ufficiali, ma di pagnotte. I soldati muoiono di fame».
«Scusi signor colonnello, se lei permette io sono il capitano … »
«Si, si ho visto che sei il capitano Cianetti, credi che sia cieco? Ma a me servono le pagnotte non i capitani».

A Cianetti bastano pochi giorni al fronte per rendersi conto della situazione Scrive infatti (Bedeschi, idem): 

“«Assassini, mille volte assassini!», gridai sottovoce una notte di temporale, portando la mana alla bocca perché le sommesse parole non giungessero alle orecchie di quelli che mi stavano d ‘intorno “.

Assassini a chi? Non c’era anche il ministro Cianetti nella riunione in cui fu decisa la guerra? Cosa fece poi fino al 25 luglio del ’43?


Lapis

(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 52)

Santini, il giorno dopo, mi offre due cartoline in franchigia; ci hanno detto di scrivere che poi uno raccoglierà la posta per portarla indietro, fin dove incontrerà un paese con un comando che la farà proseguire.

Uno cartolina, scrivere una cartolina che arriverà al mio paese. La rigiro tra le dita: è da quando mi sono imbarcato a Brindisi che non do notizie. Quanti giorni saranno? Dalla mia agendina vedo che oggi dovrebbe essere il 27 di novembre; sempre se non sbaglio, perché i giorni sopra Corizza, su quei monti, sono segnati con un’unica data.

Scrivo l’indirizzo con il lapis copiativo e il coperchio della gavetta mi fa da tavolo. Una a casa, ai miei, e l’altra a lei, a Venezia. Ma cosa dire? Cosa si può scrivere di qui? E se anche dico dove sono e come sono, cosa ne capirebbero? Allora scrivo solo che sto bene, e firmo.

[…]

Durante la notte viene dato l’allarme perché le pattuglie greche sono entrate in contatto con la nostra linea, e le ore al freddo, con il fucile in mano, nel buio, e la neve che fiocca, sono lunghe e dure. Viene il desiderio di addormentarsi con questa neve attorno come piuma e non svegliarsi più.

Leggendo il brano di Rigoni Stern  riportato qui sopra fa riflettere, mentre viene in mente Dante alle prese con l’attesa di ricevere notizie e la preoccupazione di farne avere ai suoi cari ( e alle sue…  care), non si può fare a meno di riflettere sulla effettiva difficoltà, se non impossibilità, di raccontare quell’esistenza. Proviamo ad immaginarci là, in quelle condizioni: credo proprio che le parole abbiano un limite, oltre il quale nessuno, nemmeno uno scrittore od un poeta possano andare, perchè rimane, con la solitudine, solo il silenzio.

Anche perchè, posato il lapis, torna subito la battaglia.

Mario Rigoni Stern

Due muli per battaglione

(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 55)

Quando è notte arrivano i muli, ma sono pochi e non una colonna, e non hanno viveri o bevande forti, ma rotoli di reticolati e casse di munizioni.

I conducenti sono tutti coperti di fango dalle scarpe alla testa: solamente dagli occhi e dalla voce si capisce che sono uomini e non strani animali. Ma parlano poco, nemmeno hanno la forza di bestemmiare.

I muli sono ricoperti di fango come loro: pelo e fango fanno un unico strato. Soffiano dalle froge vapore bianco, le orecchie abbassate dondolano al passo come i basti sulle groppe magre. Ogni tanto inciampano o scivolano nel fango, inginocchiandosi: allora uno strappo alla cavezza e una parola di pietà o di rabbia li fa rialzare in piedi e proseguire.

Sono in cerca di noi da quattro giorni. Quando arriviamo al comando facciamo le ripartizioni dei reticolati e delle munizioni. Ma sui muli noi si aspettava che arrivassero pagnotte, o qualcosa da poter cucinare e finalmente scaldarci lo stomaco.

Il colonnello decide di far ammazzare due muli per battaglione, ma il caporale dei conducenti non sa quali scegliere e i conducenti, che hanno sentito l’ordine, tentano di scappare nella notte, giù per la valle. Una squadra corre a fermarli.

Ora, accompagnati da noi, i quattro destinati salgono le montagne coperte di neve, ognuno tirandosi dietro il proprio mulo, condannato a morire per sfamare gli alpini.

Carabinieri!

(Rigoni Stern, Op. cit. pag. 59)

Piccoli gruppi di alpini ogni tanto abbandonano la linea e scendono verso le case degli albanesi per cercare qualcosa da mangiare, o per riposare qualche ora al caldo. Forse sono i loro stessi comandanti di plotone che, a turno, glielo permettono. Però i carabinieri aggregati al comando hanno avuto l’ordine di rastrellare le case, radunare gli alpini e scortarli fino lassù. A morire.

Questa sera una quarantina di alpini del Vestone, qui vicino ai nostri ricoveri: sono circondati dai carabinieri armati che respingono inesorabilmente nel gruppo chiunque cerca di uscirne.

Senza alcun riparo, addossati uno all’altro uno sull’altro, la neve li sferza, il vento si porta via i loro lamenti che nessuno può ascoltare. Così avevo visto una mandria sui miei monti durante una nevicata estiva. Ma questi sono uomini! Vorrei portare loro qualcosa, magari del fuoco, ma l’appuntato dei carabinieri mi allontana, spingendomi via col moschetto.

Mi metto sotto un albero, aderente al tronco come volessi entrare dentro e farmi legno per non sentire quei lamenti e non vedere mai più uomini così. Ma loro continuano, monotoni, insistenti: e quando sembra che il vento e la tormenta li ammutoliscano, allora, improvvisamente, un urlo da bestia ferita a morte fa riprendere il triste coro.

Un’ombra entra nel cerchio: è il colonnello Augusto Reteuna, comandante del 6° reggimento alpini, e parla loro. Minaccia, ironizza, prega; cerca di risvegliare il loro orgoglio, ma, quando finisce di parlare, il lamento riprende. Resterà immobile, per tutta la notte, in mezzo a loro, e non si siederà, non fumerà; starà lì, in piedi, appoggiato al suo bastone, in silenzio. Facendosi torturare dai lamenti degli alpini che dovrebbero che dovrebbe comandare e dalla bufera che non trova sosta.

All’alba i carabinieri li accompagnano sul Valamare. Salgono in lunga fila grigia, curvi, per affrontare il vento e la neve. Con loro salgo anch’io.

Al colonnello, quella notte, si congelò un piede. Senza farlo sapere ad alcuno, qualche giorno dopo si fece levare due unghie dal capitano medico suo amico: me lo disse un mese dopo, mentre andavamo per la mulattiera del Papallazit e gli domandai perché camminasse con dolore.

Approfondimenti

  • F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani (a cura di), L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, FrancoAngeli Editore, Milano 1988;
  • Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista 1940-1943, Oscar Mondadori, Milano 1996;
  • Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. Guerre e Fascismo, Laterza Editore, Roma-Bari 1998;
  • Piero Melograni, La guerra degli Italiani 1940-1945, Istituto Luce, Roma 2004;
  • Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943 Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, G. Einaudi Editore, Torino 2005.

Bibliografia – Fonti (in revisione)

  • CON IL 4° BERSAGLIERI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Sergio Quaglino – 1985
  • MEMORIE DI UN BERSAGLIERE – Luciano Scalone – 2011
  • LA GUERRA FASCISTA – Gianni Oliva – Le Scie – Mondadori – 2020
  • LE OPERAZIONI DEL 1940 SULLE ALPI OCCIDENTALI – (Autori vari, esegesi storica a cura dell’Ufficio Storico dello SME, 1994 Roma
  • DIARIO STORICO DEL COMANDO SUPREMO VOL I TOMO 1 – Autori: Biagini e Frattolillo, dal 11.6.1940 al 31.8.1940 – DIARIO- Edizione Ufficio Storico, 1986
  • IMMAGINI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE   Ufficio Storico dello SME, anno 1995
  • L’ESERCITO ITALIANO NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Autore Mario Montanari, Studio Monografico, Ufficio storico dello SME, 1995
  • STORIA DELLA GUERRA DI GRECIA – Mario Cervi – Oscar Mondadori 1969
  • GUERRA D’ALBANIA – Gian Carlo Fusco – Feltrinelli 1961
  • SOLDATI, GENERALI E GERARCHI NELLA CAMPAGNA DI GRECIA – Francesco Casati – Prospettiva Editrice 2008
  • QUOTA ALBANIA – Mario Rigoni Stern – Einaudi 1971-2022
  • FRONTE GRECO-ALBANESE: C’ERO ANCH’IO. – Giulio Bedeschi – Mursia 1977